Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 35239 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 35239 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 01/10/2025
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dalla consigliera NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata;
lette le conclusioni del difensore del ricorrente, avvocato NOME COGNOME, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1.11 Tribunale del riesame di Napoli ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME avverso l’ordinanza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 6 maggio 2025 che aveva respinto la richiesta di dichiarazione di inefficacia dell’ordinanza del 7 marzo 2023, eseguita il 19 aprile 2023, del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli relativa al reato di cui all’art. 74, d.P.R. n. 309 del 1990 e
altri reati in materia di stupefacenti, con condotte, quanto al reato associativo, fino al 2021 e fino al 2020, e quanto ai reati di cessione, commessi tra i mesi di settembre 2017 e gennaio 2018.
Il Tribunale del riesame ha ritenuto insussistenti le condizioni per disporre la retrodatazione per effetto della connessione dei fatti oggetto della misura con i fatti di cui all’ordinanza del 10 febbraio 2022 (eseguita in pari data) con la quale,
a seguito dell’arresto in flagranza per il reato di cui all’art. 73, d.P.R. n. 309 ci era stata applicata all’imputato daliudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere analoga misura.
2.Con unico e cumulativo motivo di ricorso, sintetizzato ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini del motivazione, COGNOME NOME chiede l’annullamento dell’ordinanza indicata e denuncia violazione di legge (in relazione agli artt. 311, 297, comma 3, 303, comma 1, lett. b, n. 3-bis, cod. proc. pen.) e vizio di motivazione sul rilievo che il Tribunale del riesame abbia violato il limite della questione devoluta con i motivi di impugnazione costituita dall’erroneo computo dei termini di custodia perché il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva escluso la decorrenza del termine sommando a quello delle indagini preliminari, il termine aggiuntivo di sei mesi applicabile, invece, solo alla fase dibattimentale, ai sensi dell’art. 303, lett. b), 3-bis cod. proc. pen., nel caso non esaurita. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, aveva, infatti, ritenuto sussistente la connessione qualificata tra i fatti base delle due ordinanze surrichiamate.
Secondo il ricorrente, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ora per allora, avrebbe dovuto dichiarare l’inefficacia della misura alla data del 14 gennaio 2025 – pari ad anni uno e mesi sei dalla emissione del decreto di giudizio immediato del 14 luglio 2023 nel procedimento per il reato associativo – per scadenza del termine di fase delle indagini preliminari.
Rileva che il Tribunale del riesame ha ritenuto corretta la modalità di calcolo proposta dalla difesa (cfr. pag. 5 dell’ordinanza impugnata), non potendo aggiungersi al termine di fase delle indagini preliminari il termine aggiuntivo di mesi sei, riferibile ai reati di cui all’art. 407, comma 2, cod. proc. pen., applicabil solo alla fase del dibattimento che è ancora in corso.
Il ricorrente ha evidenziato, infine, che, per effetto dell’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere del 31 gennaio 2023 – nella quale erano contestate cessioni di stupefacenti ascritte al COGNOME dall’inizio del marzo 2021 al marzo 2022 – poteva ritenersi accertata la medesimezza del disegno criminoso fra i più risalenti fatti, contestati nel procedimento per il reato associativo, e quelli oggetto del procedimento relativo
all’arresto in flagranza di reato: la sequenza temporale delle condotte (nel .’. processo per reato associativo fino al 2021 e fino al 2020, e quanto ai reati di cessione, quali reati commessi tra i mesi di settembre 2017 e gennaio 2018), si saldava, infatti, attraverso le reiterate condotte di spaccio oggetto dell’ordinanza del 31 gennaio 2023, con i fatti accertati all’atto dell’arresto in flagranza di reato commessi il 7 febbraio 2022 e denotava, per omogeneità dei fatti e contiguità spazio-temporale, la medesimezza del disegno criminoso, rilevante ai sensi dell’art. 12, lett. b), cod. proc. pen., alla stregua della informativa di polizia su quale si fondava il titolo emesso per il reato associativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato perché proposto per motivi infondati.
2.11 Tribunale del riesame ha ritenuto che, ai fini della retrodatazione al 10 febbraio 2022 dell’ordinanza di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli del 7 marzo 2023 per i reati di cui agli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309 del 1990, non poteva ritenersi sussistente la connessione qualificata, ai sensi dell’art. 12, lett. b), cod proc. pen., tra i reati oggetto di tale provvedimento e il reato di detenzione a fini di cessione di sostanze stupefacenti per il quale l’imputato era stato tratto in arresto in flagranza di reato il 7 febbraio 2022, con applicazione, in data 10 febbraio 2022, della misura della custodia cautelare in carcere disposta dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, fatto per il quale la posizione del ricorrente, era stata definita con sentenza di applicazione pena del 14 dicembre 2022.
Il Tribunale ha esaminato le risultanze della informativa del 19 gennaio 2021, sulla quale si fondava l’ordinanza del 7 marzo 2023, precedente all’arresto in flagranza del 7 febbraio 2022, evidenziando, altresì, che non poteva essere valorizzata l’ordinanza del 31 gennaio 2023 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, avente ad oggetto cessioni di stupefacenti, per fatti commessi dall’inizio di marzo 2021 al marzo 2022, range temporale nel quale era stato commesso anche il reato oggetto della sentenza di applicazione pena, aspetto che non incideva sulla prospettazione della connessione e che, anzi, confermava il carattere abituale delle condotte di cessione di cui il COGNOME si era reso protagonista.
Il Tribunale, pur dando atto dell’errore di calcolo del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che aveva ritenuto sussistente la connessione qualificata, per effetto
della continuazione tra reati, sommando al termine di fase delle indagini preliminari nel procedimento relativo all’ordinanza del 7 marzo 2023 quello, aggiuntivo di sei mesi /previsto per la fase dibattimentale, non ancora esaurita, ha escluso la sussistenza tra i fatti oggetto delle suindicate ordinanze della connessione ex art. 12, lett. b), cod. proc. pen. che costituisce presupposto indispensabile ai fini dell’applicazione della retrodatazione quando i provvedimenti cautelari siano stati emessi da autorità giudiziarie diverse.
Il Tribunale ha fatto applicazione della regola di giudizio enunciata nella sentenza COGNOME delle Sezioni Unite secondo cui / quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen. opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza. Nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino, invece, fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima, solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del pubblico ministero (Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 235909).
3.11 rilievo difensivo, sulla violazione del principio devolutivo – che regola la materia delle impugnazione anche in sede cautelare – in cui sarebbe incorso il Tribunale della cautela in sede di appello è infondato.
E’ univoca l’affermazione della giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio intende aderire, secondo cui la cognizione del giudice dell’appello cautelare è limitata, in applicazione al principio devolutivo, ai punti della decisione impugnata ma non all’ambito dei motivi dedotti e ciò soprattutto quando i punti investiti dal gravame si trovano in rapporto di pregiudizialità, dipendenza, inscindibilità o connessione con altri non oggetto di gravame, così da rendere necessaria, per il giudice del gravame, una completa “cognitio causae” nell’ambito del “devoluto” (Sez. 5, n. 30828 del 29/05/2014, COGNOME, Rv. 260484; Sez. 2, n. 18057 del 01/04/2014, COGNOME, Rv. 259712).
Si è precisato, inoltre, che in tema di misure cautelari personali, l’appello attribuisce al giudice “ad quem” tutti i poteri originariamente rientranti nella competenza funzionale del primo giudice e comporta la rimessione dell’imputato, nel giudizio di appello, nella stessa situazione processuale della fase iniziale del procedimento, sicché egli è esposto all’esercizio dei poteri dispositivi e coercitivi
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propri dell’autorità che procede (Sez. 6, n. 30 del 11/01/1999, Castrillon, Rv. 212715).
La devoluzione al Tribunale dell’appello cautelare delle modalità di computo dei termini di fase, oggetto dell’appello del COGNOME, in un caso complesso come quello che afferisce alla materia della cd. contestazione a catena in relazione a una pluralità di ordinanze custodiali emesse in procedimenti diversi / comporta che legittimamente il giudice estende la propria verifica al contenuto delle ordinanze e alla loro successione temporale al fine di verificare la sussistenza del presupposto costitutivo della retrodatazione di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. e, quindi, della connessione qualificata ai sensi dell’art. 12, lett. b), cod. proc. pen., tema che, rispetto al punto oggetto di gravame, si poneva in termini di stretta inscindibilità, pur non essendo oggetto di appello, così da rendere necessario un completo esame del tema oggetto del giudizio di impugnazione che era appunto costituito dalla retrodatazione dell’ordinanza del 7 marzo 2023.
Nel precedente richiamato (Sez. 2, n. 18057) si è affermato che, in caso di appello cautelare in materia di retrodatazione, il punto devoluto è se il ricorrente avesse diritto o no alla scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia per effetto di contestazione a catena e si sottolinea che il giudice dell’appello cautelare non sconfina dalla questione devoluta se effettua un doveroso approfondimento in fatto, mediante rilettura degli atti del processo, e in diritto, con argomentazioni giuridiche supportate da precedenti giurisprudenziali, valutazione che non può essere frazionata dai motivi di appello, che formulino censure solo con riferimento a quegli elementi di fatto o di diritto considerati pregiudizievoli per la tesi difensiva dando per acquisiti e decisi altri elementi, che, invece, a quella tesi forniscono supporto e il giudice deve poter esaminare la questione così dedotta valutando il complesso dei requisiti della fattispecie, che sono tra loro interconnessi.
4. Anche nel merito le deduzioni difensive sono infondate.
La questione della connessione qualificata ex art. 12, lett. b) ,cod. proc. pen. ai fini dell’applicazione della cd. retrodatazione, prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., ricorre con frequenza nei procedimenti per il reato associativo di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 cit. e reati in materia di stupefacenti che danno luogo, nella prassi giudiziaria, alle cc.dd. «contestazioni a catena», oggetto di ricorrenti interventi nella giurisprudenza di legittimità , che ne ha più volte evidenziato il nucleo di disvalore che risiede nell’impedimento del contemporaneo decorso dei termini di durata relativi a plurimi titoli custodiali emessi nei confronti de
(4A ) medesimo soggetto per imgx fatti diversi, commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza.
Evidente è la ratio e la finalità dell’istituto della retrodatazione ipoiché il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza cautelare determina l’espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato per effetto del “cumulo materiale” dei periodi afferenti a ciascun reato, da ciò conseguendo la sostanziale elusione dei termini di durata massima delle misure cautelari imposta dall’art. 13, ultimo comma, Cost. e una posizione cautelare dell’interessato deteriore rispetto a quella che si sarebbe prodotta a seguito dell’adozione di provvedimenti custodiali coevi.
Effetti evidenziati negli interventi operati sull’art. 297 cod. proc. pen. dalla Corte Costituzionale dapprima con la sentenza n. 89 del 1996 e, in tempi più recenti, con la sentenza n. 408 del 2005 con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ art. 297, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della precedente ordinanza.
Il regime di garanzia (meccanismo legale di retrodatazione automatica dei termini) approntato dal legislatore nel caso in cui tra i diversi titoli sussista u nesso di connessione qualificata, secondo il Giudice delle leggi, dovrà operare anche in tutti i casi di reati diversi non avvinti da una connessione “qualificata”, Purché ,al momento dell’emissione della prima ordinanza, siano desumibili dagli atti gli elementi che legittimano l’emissione delle ordinanze successive, non potendo, la durata della custodia, dipendere da una imponderata valutazione soggettiva degli organi titolari del “potere cautelare”. In tale evenienza la durata della custodia viene così a dipendere non da un fatto obiettivo (rispettoso, dunque, del canone dell’eguaglianza e della ragionevolezza), quale quello degli elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi elementi cautelari, ma da un’imponderabile valutazione soggettiva dei titolari del potere cautelare.
La retrodatazione realizza, dunque, il «riallineamento» tra misure cautelari che, pur dovendo essere coeve, siano state separatamente adottate: la retrodatazione determina, infatti, uno «slittamento all’indietro» della data di esecuzione del provvedimento cautelare successivo fino alla data di esecuzione di quello iniziale in adesione alle prospettazioni provenienti tanto dalla più attenta dottrina quanto dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Sez. 4, n. 29174 del 15/05/2024, COGNOME, Rv. 286655).
La regola della retrodatazione concerne normalmente misure adottate nello stesso procedimento – e, in tal caso, opera automaticamente – ma può applicarsi a misure disposte in un procedimento diverso nelle ipotesi individuate dalla sentenza COGNOME, innanzi sintetizzata, alla stregua di un principio affermato da altre decisioni delle Sezioni Unite, precedenti (Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005,
COGNOME, Rv. 231058), o successive alla sentenza COGNOME (Sez. U, n. 23166 del 28/05/2020, COGNOME, Rv. 279347).
Rispetto alle varianti che possono riscontrarsi nella prassi, possono individuarsi situazioni tipo che, facendo applicazione delle coordinate normative risultanti dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. – di «prosa contorta», si legge nella sentenza COGNOME – combinano il principio della retrodatazione e le sue regole di operatività, incentrate sulla desumibilità dagli atti.
Controversa è nella giurisprudenza la nozione di desumibilità, aspetto che, in questa sede, per ragioni di sintesi espositiva, si omette.
Ne risulta, comunque, un meccanismo complesso che, muovendo dal dato comune costituito dalla circostanza che i reati oggetto della ordinanza cautelare cronologicamente posteriore siano stati commessi in data anteriore a quella di emissione della ordinanza cautelare cronologicamente anteriore (in questo senso, ex plurimis, Sez. 6, n. 31441 del 24/4/2012, Canzonieri, RV. 253237), la giurisprudenza ha sintetizzato in quattro fattispecie (trascurando il caso lineare di ordinanze cautelari emesse nello stesso procedimento per lo stesso fatto, diversamente circostanziato o qualificato, o per fatti legati da connessione qualificata, in cui la retrodatazione opera “automaticamente”, a prescindere dalla desumibilità).
La prima situazione-tipo è quella in cui sussista connessione qualificata tra i fatti oggetto delle due (o più) ordinanze cautelari in procedimenti diversi e per la prima ordinanza non sia ancora intervenuto il decreto che dispone il giudizio.
In tal caso trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., secondo cui la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o delle misure applicate successivamente alla prima opera automaticamente e, dunque, “indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto delle ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure”.
La seconda situazione-tipo GLYPH si verifica quando sia accertata, in distinti procedimenti, tra i fatti oggetto delle plurime ordinanze cautelari, l’esistenza della connessione qualificata r ma sia intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatti posti alla base del primo provvedimento coercitivo.
Anche in tali casi – a prescindere dalla genesi dei procedimenti – si applica la regola dettata dal secondo periodo dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., ma la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è
intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (cfr. Sez. 1, n. 27658 del 12/4/2013, Pelle, Rv. 254005; conf. Sez. 6, n. 50128 del 21/11/2013; COGNOME, Rv. 258500).
La terza ipotesi ricorre quando tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari non esista alcuna ipotesi di connessione ovvero sia configurabile una forma di connessione non qualificata (diversa da quelle sopra considerate del concorso formale, della continuazione o del nesso teleologico, per quest’ultimo, nei limiti fissati dal codice), fattispecie che rientra nel campo di applicazione dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. per effetto del dictum, prima delle Sezioni Unite con la sentenza COGNOME, innanzi citata, e poi della sentenza n. 408 del 2005 della Corte Costituzionale.
In tali casi la retrodatazione opera solo in presenza di uno specifico presupposto, ovvero che, al momento dell’emissione della prima ordinanza, esistevano elementi idonei a giustificare la misura adottata con la seconda ordinanza.
Nei casi oggetto della seconda e terza fattispecie, dunque, il meccanismo della retrodatazione non è automatico /ma è necessario verificare la “desumibilità”, dagli atti del procedimento precedente, dei fatti posti ad oggetto della ordinanza custodiale successiva.
Evidente, al di là della controversa nozione di desumibilità, è la ratio della operatività della retrodatazione che risulta dovuta, secondo la sentenza n. 408, “in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze”.
Da qui la necessità di verificare che, al momento di adozione della seconda ordinanza, fossero presenti agli atti gli elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura.
In tal caso, come ben evidenziato dal Giudice delle leggi, la situazione obiettiva giustifica l’operatività della retrodatazione e la soluzione contraria non sarebbe rispettosa del canone di eguaglianza e ragionevolezza poiché la durata della custodia non può dipendere da una imponderata valutazione soggettiva degli organi titolari del “potere cautelare” che, del resto, hanno il potere di promuovere, ad es. attraverso la riunione, il simultaneus processus.
Una situazione-tipo ulteriore è relativa alle ipotesi in cui i fatti oggetto del ordinanze siano oggetto di distinti procedimenti pendenti dinanzi ad autorità giudiziarie diverse, come si è verificato nel caso in esame: anche in tal caso può verificarsi che si sia in presenza di fatti connessi ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. ovvero di fatti non connessi o, comunque, non collegati dalla connessioni “forte”.
Tale situazione è stata oggetto di esame, in particolare, della sentenza delle Sezioni Unite COGNOME.
Questa sentenza, pur avendo ad oggetto il computo del termine ai fini della decorrenza del termine di custodia di cui all’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., ha esaminato, infatti, il caso in cui i procedimenti per reati diversi siano pendenti dinanzi ad autorità giudiziarie diverse ed ha ribadito che , in tema di pluralità di misure cautelari emesse in procedimenti pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, la retrodatazione del termine di durata può riconoscersi esclusivamente qualora, tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, sussista una delle ipotesi di connessione qualificata previste dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., consistente nel concorso formale di reati, nel reato continuato o nella connessione teleologica, limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri (pag. 16).
La sentenza COGNOME ha riportato un ampio stralcio della sentenza COGNOME nella parte in cui aveva esaminato la fattispecie in cui la pluralità delle ordinanze era riscontrata in procedimenti pendenti dinanzi ad autorità giudiziarie diverse.
«La diversità delle autorità giudiziarie procedenti si osservava nella sentenza COGNOME indica una diversità di competenza, e fa ritenere che i procedimenti non avrebbero potuto essere riuniti e che quindi la sequenza dei provvedimenti caute/ari non è il frutto di una scelta per ritardare la decorrenza della seconda misura. Se la competenza appartiene a giudici diversi, il primo non ha ragione di disporre una misura cautelare per fatti di competenza del secondo, anche perché, a norma dell’art. 291, comma 2, c.p.p., il giudice incompetente è tenuto a disporre la misura cautelare nel solo caso in cui “sussiste l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze caute/ari previste dall’art. 274” c.p.p., e questa urgenza manca se il giudice riesce a soddisfare le esigenze cautelari disponendo la misura per i fatti di propria competenza».
Si tratta, ad avviso della Corte, di una ricostruzione di sistema che ha ribadito un risalente precedente di legittimità (Sez. U, n. 9 del 25/06/1997, COGNOME, Rv. 208167) in cui si affermava che il divieto della cosiddetta “contestazione a catena” di cui al terzo comma dell’art. 297 cod. proc. pen. trova applicazione in tutte le situazioni cautelari riferibili allo stesso fatto o a fatti diversi tra cui suss connessione ai sensi dell’art. 12, comma primo, lett. b) e c), stesso codice, limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, a nulla rilevando che esse emergano nell’ambito di un unico procedimento o di più procedimenti, pendenti dinanzi allo stesso giudice, e quindi innanzi ad esso cumulabili, ovvero a diversi giudici, e quindi cumulabili nella sede giudiziaria da individuare a norma degli artt. 13, 15 e 16 cod. proc. pen..
La sentenza COGNOME affermava che tale divieto si applica a condizione che siano desumibili dagli atti, entro i limiti temporali rispettivamente previsti dal primo e
dal secondo periodo del citato art. 297, terzo comma, per le diverse situazioni in essi previste, tutti gli elementi apprezzabili come presupposti per l’emissione delle successive ordinanze cautelari i cui effetti sono da retrodatare, non essendo sufficiente, ai fini della sua operatività, la mera notizia del fatto-reato.
La sentenza testé indicata precisava che le difficoltà operative che la sua applicazione può comportare in caso di pluralità di procedimenti, specie se pendenti dinanzi a distinte autorità giudiziarie, devono essere superate facendo ricorso alla disciplina sul cumulo dei procedimenti dinanzi al giudice individuabile a norma degli artt. 13 e seguenti cod. proc. pen., anche mediante il contributo della difesa il cui accesso agli atti nel procedimento “de libertate”, soprattutto dopo la sentenza n. 192/1997 della Corte costituzionale, non incontra più limitazioni.
Già la sentenza COGNOME aveva chiarito la portata interpretativa della sentenza COGNOME, nel senso che il principio di diritto enunciato valorizzava, al di fuori dei casi di connessione qualificata che comportavano l’automatica applicazione della retrodatazione, la desumibilità dagli atti al momento dell’emissione della prima ordinanza e, nella seconda parte, la desumibilità dagli atti prima del rinvio a giudizio nel senso che, ai fini della retrodatazione, non era sufficiente che dagli atti fosse acquisita la mera notizia del fatto-reato, essendo invece indispensabile che sussista il quadro legittimante l’adozione della misura cautelare sin dall’epoca dell’emissione della prima ordinanza.
La soluzione ribadita con la sentenza COGNOME – alla luce delle precisazioni sulla questione della competenza già alla base della sentenza COGNOME – esamina, dunque, il tema della contestazione a catena e della retrodatazione in una prospettiva che riafferma il principio della retrodatazione delle misure cautelari emesse in procedimenti pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, esclusivamente qualora, tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, sussista una delle ipotesi di connessione qualificata previste dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., consistente nel concorso formale di reati, nel reato continuato o nella connessione teleologica, limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri oltre all’anteriorità dei fatti oggetto della seconda ordinanza rispetto a quelli che costituivano oggetto della prima misura.
Pur non fornendo indicazioni sul momento della desumibilità è logico inferire che, applicando gli insegnamenti della sentenza COGNOME e vertendosi in materia di connessione cd. forte – che costituisce il presupposto dell’operatività della retrodatazione – la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. opera, in relazione misure cautelari emesse in procedimenti pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi in presenza delle ipotesi di connessione qualificata previste dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., quando la connessione tra i fatti fosse desumibile dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata
emessa la prima ordinanza, in applicazione della regola di giudizio dettata dall’art. 297, comma 2, ultima parte cod. proc. pen., momento in cui l’addebito è definitivamente cristallizzato, anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sta stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura (cfr. sent. Corte Cost. n. 233 del 22 luglio 2011).
52esistenza della connessione rilevante ex art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008, COGNOME, in motivazione), costituisce – al pari della desumibilità, che qui non rileva – una questione di fatto (Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, COGNOME, cit.), la cui valutazione è riservata ai giudici di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità esclusivamente sotto il profilo della logicità e coerenza descrittiva delle emergenze processuali e probatorie, nonché della congruenza e non contraddittorietà delle relative analisi e dei pertinenti passaggi argomentativi.
Risulta evidente, nel caso in esame, che al momento di adozione della misura del 7 marzo 2023, pendevano diversi procedimenti dinanzi a diverse autorità giudiziarie, cioè il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Napoli e il Giudice distrettuale, competente all’adozione della misura per il reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 cit., e N Pubblico Ministero e Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere che avevano proceduto a seguito dell’arresto in flagranza del 7 febbraio 2022 alla convalida con l’applicazione della misura del 10 febbraio 2022, procedimento, questo, definito con sentenza del 19 dicembre 2022, non irrevocabile alla data del 7 marzo 2022.
Rileva, peraltro, ai fini del requisito della diversità delle autorità giudiziarie, momento della emissione dell’ordinanza – la seconda ordinanza – a prescindere dalla progressione del processo che, nel caso in esame, ha comportato, per i fatti di cui all’ordinanza del 7 marzo 2023, la competenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, poiché è in tale momento che in capo agli organi titolari del “potere cautelare” si realizzano le condizioni per l’adozione del provvedimento.
Vengono in questione, dunque, al momento di applicazione della misura del 7 marzo 2023 i rapporti tra il reato associativo e i reati-fine in materia di stupefacenti, reati che, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, non danno di per sé luogo a uno dei casi di connessione previsti dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., perché “fra reato associativo e singoli reati fine non è ravvisabile un vincolo rilevante ai fini della continuazione e meno ancora della connessione teleologica, posto che,. normalmente, al momento della costituzione dell’associazione i reati fine sono previsti solo in via generica”.
Questo vincolo – secondo la giurisprudenza – potrà ritenersi sussistente soltanto nella eccezionale ipotesi in cui risulti che, fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dalla adesione ad esso, un determinato soggetto, nell’ambito del generico programma criminoso, abbia già individuato uno o più specifici fatti di reato, da lui poi effettivamente commessi” (tra le più risalenti Sez. 1, n. 6530 del 18/12/1998, dep. 1999, Zagaria, Rv. 212348).
Va evidenziato che una parte della giurisprudenza, una volta esclusa l’esistenza tra reato associativo e reati-fine di una connessione rilevante ha, cionondimeno, riconosciuto la retrodatazione anche nei casi non espressamente previsti dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. “sempre che si accerti in modo incontestabile che a disposizione dell’autorità giudiziaria, al momento dell’emissione del primo provvedimento, erano già sussistenti idonei indizi di colpevolezza” (tra le più recenti Sez. 5, n. 24922 del 16 aprile 2003, Reale, Rv. 2249871).
Si tratta di una opzione interpretativa che, tuttavia, non può essere seguita nel caso in esame alla stregua delle precisazioni recate dalla sentenza COGNOME quando i fatti siano oggetto di ordinanze adottate da uffici giudiziari diversi perché, come innanzi precisato, in tal caso la retrodatazione del termine di durata può riconoscersi esclusivamente qualora, tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, sussista una delle ipotesi di connessione qualificata previste dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., consistente nel concorso formale di reati, nel reato continuato o nella connessione teleologica, limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri.
7.In coerenza con l’esegesi innanzi svolta, trattandosi di ordinanze cautelari emesse, per fatti diversi, in procedimenti (diversi) pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, il Tribunale ha respinto la richiesta di retrodatazione al 10 febbraio 2022 dell’ordinanza del 7 marzo 2023, in mancanza dell’effettiva sussistenza dell’invocata connessione qualificata tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, e, segnatamente, della continuazione tra i reati, avendo escluso che l’episodio di cessione del 7 febbraio 2022 – per il quale l’imputato si trovava già detenuto il 7 marzo 2023 – costituisse un reato-fine di quello associativo e, comunque, episodio di attuazione di un unico programma criminoso, fatto che, secondo le conclusioni del Tribunale, costituisce, invece, espressione di abitualità e professionalità a delinquere avendol’imputato eletto a sistema di vita l’attività di spaccio.
Il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi in materia di reato continuato, secondo cui l’identità del disegno criminoso, che caratterizza l’istituto disciplinato dall’art. 81, comma secondo, cod. pen., postula che l’agente si sia
previamente rappresentato e abbia unitariamente deliberato una serie di condotte criminose e non si identifica con il programma di vita delinquenziale del reo, che esprime, invece, l’opzione del reo a favore della commissione di un numero non predeterminato di reati, che, seppure dello stesso tipo, non sono identificabili a priori nelle loro principali coordinate, rivelando una generale propensione alla devianza, che si concretizza, di volta in volta, in relazione alle varie occasioni ed opportunità esistenziali (Sez. 1, n. 15955 del 08/01/2016, Eloumari, Rv. 266615).
Premesso che neppure la difesa riconduce l’episodio del 7 febbraio 2022 a reato-fine di quello associativo, anteriormente commesso, i diversi contesti spaziotemporali degli illeciti – innanzi precisati-, le differenti circostanze e modalit esecutive e le diverse componenti soggettive dei reati in esame (nell’attività di cessione del 7 febbraio 2022 l’imputato si avvaleva dell’aiuto dei familiari, pag. 4 dell’ordinanza impugnata, essendo ristretto in regime di detenzione domiciliare e non risultando coinvolti altri componenti dell’associazione), sono stati correttamente valorizzati per escludere la medesimezza del disegno criminoso.
Un concetto, quello della medesimezza del disegno criminoso, che, per non diluirsi in quello di mero programma di vita delinquenziale, comporta la deliberazione e programmazione di una serie di condotte criminose, programmazione che non si risolve nella elezione del settore illecito operativo di interesse – nel caso il traffico di sostanze stupefacenti – al quale, secondo l’ordinanza impugnata, l’imputato si è continuativamente dedicato fin dal 2015, cioè al raggiungimento della maggiore età, riportando reiterate condanne.
Ai fini della configurabilità dell’istituto della continuazione è pertanto necessaria la prova che i reati siano stati concepiti e portati ad esecuzione nell’ambito di un unico programma criminoso, che non deve essere confuso con la sussistenza di una concezione di vita improntata al crimine e dipendente dagli illeciti guadagni che da esso possono scaturire.
La giurisprudenza ha precisato che, a tal fine, non rileva il generico programma di locupletare attraverso lo spaccio di sostanza stupefacente; in tal caso, infatti, la reiterazione della condotta criminosa è espressione di un programma di vita improntata al crimine e che dal crimine intende trarre sostentamento e, pertanto, penalizzata da istituti quali la recidiva, l’abitualità, la professionalità nel reato e la tendenza a delinquere, secondo un diverso ed opposto parametro rispetto a quello sotteso all’istituto della continuazione, preordinato al “favor rei” (Sez. 5, n. 10917 del 12/01/2012, COGNOME, Rv. 252950).
L’ordinanza impugnata, con precisi riferimenti nella ricostruzione in fatto, ha fatto applicazione di tali principi evidenziando che l’imputato annovera a suo carico precedenti per reati in materia di stupefacenti commessi fin da quando ha raggiunto la maggiore età, identificando lo spaccio di droga come propria esclusiva i /
attività lavorativa, senza fermarsi neppure di fronte alle condanne ricevute e non esitando a sfruttare la misura alternativa alla detenzione pur di proseguire nello smercio di droga.
Non risulta, dunque, censurabile la scelta del Tribunale di non conferire rilevanza alla omogeneità degli illeciti – profilo,questo, generalmente valorizzato quale indicatore della unicità del programma criminoso e sul quale ha insistito il ricorrente – all’esito di una complessa valutazione nella quale sono confluiti una pluralità di elementi di giudizio ritenuti non univocamente significativi della unitaria programmazione dei reati commessi.
8.L’ordinanza impugnata, pertanto, deve essere confermata avendo fatto, nella materia della retrodatazione, applicazione dei principi di questa Corte sia in relazione all’esame della questione devoluta al Tribunale sia in relazione alla possibilità della retrodatazione che, quando i procedimenti pendano al momento dell’adozione della seconda misura dinanzi a diverse autorità giudiziarie, è giustificata solo in presenza di connessione qualificata ai sensi dell’art. 12, lett. b), cod. proc. pen.
Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. La cancelleria è delegata agli adempimenti indicati in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 1 ottobre 2025
La Consigliera relatrice
Il Presidente
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