Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 29546 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
TERZA SEZIONE PENALE
Penale Sent. Sez. 3 Num. 29546 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 22/05/2025
– Presidente –
NOME COGNOME NOME COGNOME
R.G.N. 4792/2025
NOME COGNOME
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME NOME nato a FIRENZE il 20/11/1972 NOME nata a VICENZA il 23/08/1943 avverso l’ordinanza del 16/01/2025 del GIP TRIBUNALEdi Firenze
Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto
l’inammissibilità dei ricorsi;
lette le conclusioni del difensore avv.to COGNOME Maria che con memoria e repliche ha insistito per l’accoglimento dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1.Con ordinanza di cui in epigrafe, il Gip del tribunale di Firenze rigettava l’opposizione proposta avverso il decreto del P.M. di restituzione di un manoscritto alla Diocesi Arcivescovile di Assisi – Nocera Umbra Gualdo Tadino, ex art. 263 comma 5 cod. proc. pen., per la restituzione, nell’interesse di NOME NOME e NOME,confermando il medesimo.
2.Avverso la suindicata ordinanza NOME Filippo e NOME NOME COGNOME, tramite il difensore di fiducia, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando due motivi di impugnazione.
3.Deducono la violazione degli artt. 125 comma 3 e 263 commi 1 e 3 c.p·p. rappresentando in rubrica vizi ex art. 606 comma 1 lett. a) b) c) e d) cod. proc. pen.L’ordinanza sarebbe inadeguata per una succinta motivazione, e presenterebbe un dispositivo non univoco e “perplesso”. Dalla motivazione non risulterebbe se il manoscritto appartenga allo Stato o a privati, e non emergerebbe come la regola di diritto enunziata con sentenza della Suprema Corte, citata in ordinanza, possa applicarsi al decreto di sequestro contestato, stante la diversità delle vicende che ne sarebbero oggetto. NØ emergerebbe la ragione della restituzione del documento, apoditticamente dichiarato di proprietà dello Stato, alla Diocesi di Assisi nØ la ragione per cui la missiva rientrerebbe tra beni facenti parte di archivi e singoli documenti pubblici ex art. 10 comma 2 L. 42/04 e anche 10 comma 4 lett. c). Non emergerebbe che le due missive di cui si discuterebbe sarebbero state illegittimamente detenute da NOME COGNOME nØ il loro inserimento tra le proprietà erariali e comunque mancherebbe il requisito della rarità e pregio delle missive. Neppure emergerebbe la ragione per cui la missiva in sequestro rientrerebbe tra i beni culturali appartenenti alla Chiesa Cattolica, o a enti od istituzioni ecclesiastiche, posto che al riguardo la norma di riferimento sarebbe offerta dall’art. 2 della Intesa intervenuta il 26.1.2005 tra il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (per la chiesa Cattolica) e il ministro per i beni e le attività culturali (per lo Stato Italiano)e mancherebbe il parametro necessario, al riguardo, della inventariazione o catalogazione del bene tra i beni mobili di interesse religioso, peraltro insussistente nel caso di specie.
4.Con il secondo motivo rappresentano la violazione del diritto dei ricorrenti a far valere dinnanzi al giudice civile le ragioni della legittima acquisizione e possesso delle missive sequestrate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.I due motivi sono tra loro omogenei e devono quindi esaminarsi congiuntamente. Preliminarmente, si deve osserva che la memoria pure prodotta non può rilevare quanto alle precisazioni dell’oggetto della ordinanza, quanto ad un unico o a duplici manoscritti, e degli equivoci in cui sarebbe incorsa la Autorità Giudiziaria, in assenza sia di ogni allegazione sia a fronte della non pertinenza con i motivi di ricorso per questa parte.
Si deve allora premettere che alla luce della ordinanza impugnata, non Ł chiaro se oggetto del giudizio sia un solo documento, ovvero una missiva del Cardinale Borromeo, come indicato in premessa, oppure due missive come invece citate genericamente nel corpo della motivazione della ordinanza nonchØ sostenuto in ricorso.
Tanto premesso, deve altresì osservarsi che alla luce anche di quanto precisato in memoria, la difesa prospetta che il proprietario di quanto restituito sia la madre del COGNOME e, quindi, in via preliminare,il ricorso Ł inammissibile con riguardo al COGNOME, quale mero indagato privo di interesse, non avendo egli alcuna legittima aspettativa per la personale restituzione.
Permane quindi l’interesse della madre, che si prospetta come proprietaria e quindi interessata a rientrare nella titolarità di quanto restituito. E a tali fini risulta avere anche rilasciato procura speciale.
Nel merito, il Gip, da una parte, ha evidenziato le ragioni per cui non sarebbe dimostrata la rivendicata proprietà del bene (o dei beni) in capo alla ricorrente, per non avere ella fornito prova della legittima provenienza e apprensione, con particolare riferimento ad eventuali assegnazioni in premio, per il ritrovamento, a cessioni effettuate dallo Stato ovvero ad acquisti operati anteriormente alla entrata in vigore della L. n. 364 del 1909, qualiipotesi eccezionali in grado di far rivendicare al privato la proprietà di reperti archeologici e comunque di beni culturali ai sensi del Dlgs. 42/04; dall’altra, ha rappresentato la intervenuta dimostrazione, da parte della Diocesi, della appartenenza del bene ( o dei beni) all’archivio dell’ente ecclesiastico, anche citando una relazione e scheda archivistica della Soprintendenza circa la ricostruzione storica del bene e della sua appartenenza all’ente ecclesiastico, con inquadramento quale bene culturale meritevole di protezione, facendosi espressamente riferimento ai beni di cui all’art. 10 comma 1 del Dlgs. 42/04; laddove le ulteriori osservazioni argomentative, da una parte non paiono scalfire il predetto inquadramento, dall’altra paiono solo dirette a evidenziare come l’eventuale ipotesi di una legittima proprietà in capo a privati non risulti dimostrata dall’interessata e tantomeno dal COGNOME.
Rispetto a tale motivazione, che illustra le ragioni e i dati (relazione e scheda della soprintendenza e dimostrazione operata dalla Diocesi) a supporto del carattere di bene culturale, e i motivi della mancata dimostrazione della esistenza di una legittima proprietà in capo a chi ricorre, da una parte emerge la assenza di ogni possibile seria controversia sulla proprietà, senza quindi alcuna violazione dell’art. 263 comma 5 cod. proc. pen. , dall’altra, non si oppone dalla ricorrente ( e tanto, in ogni caso, vale anche per il COGNOME ove fosse stato legittimato ad agire in questa sede) una specifica censura rispetto a tali argomenti – nØ tali possono essere le notazioni sui rapporti tra NOME COGNOME e il Marchese NOME COGNOME quale cedente il bene alla prima, trattandosi di prospettazioni in fatto non ammissibili in questa sede -, ma ci si limita ad asserire la sussistenza di una motivazione carente, che invero non Ł dato rinvenire come tale. Quanto al richiamo alla intesa tra Cei e Ministero, esso appare generico e innanzitutto non pertinente, atteso che l’Intesa assume come presupposto la disciplina italiana in materia di individuazione di beni culturali, senza alcuna modifica di tale disciplina, per cui i suoi contenuti appaionopiuttosto indirizzati, come si evince
dall’art. 2 comma 2, “al fine di armonizzare l’applicazione della legge italiana con le esigenze di carattere religioso in materia di salvaguardia, valorizzazione e godimento dei beni culturali di cui al comma 1”, così che “il Ministero e la C.E.I. concordano sui principi enunciati nel presente articolo”. 2.Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che i ricorsi debbano essere dichiarati inammissibili, con conseguente onere per i ricorrenti, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi Ł ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza ‘versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità’, si dispone che i ricorrenti versino la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così Ł deciso, 22/05/2025
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME