Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 14903 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 14903 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 18/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a GIUGLIANO IN CAMPANIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 22/05/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che le parti non hanno formulato richiesta di discussione orale ex art. 23, comma 8, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato, da ultimo, in forza dell’art. 17 del decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, convertito, con modificazioni, nella legge 10 agosto 2023, n. 112.
Lette la requisitoria del Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al diniego del beneficio della non menzione e per il rigetto nel resto del ricorso, nonché le conclusioni del difensore AVV_NOTAIO, nel senso dell’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza deliberata il 22/05/2023, la Corte di appello di Milano corretto l’errore materiale della sentenza di primo grado, aggiungendo le parole “anni 2” con riferimento sia alla pena principale, che alle pene accessorie e aggiungendo il riferimento alla concessa sospensione condizionale della pena ha confermato la sentenza del 09/11/2022 con la quale il Tribunale di Milano aveva dichiarato NOME COGNOME, quale amministratore unico di RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita il 03/02/2017, responsabile dei reati di bancarott fraudolenta documentale, bancarotta per distrazione di circa 12 mila euro e di altra somma di circa 12 mila euro e (assoltala dall’ulteriore imputazione di bancarotta per distrazione dei beni aziendali), con le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, l’aveva condannata alle pene sopra indicate.
Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME, attraverso il difensore AVV_NOTAIO, articolando undici motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all’a 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo denuncia l’omissione nel dispositivo della sentenza di primo grado dell’indicazione della pena, omissione non sanata dalla lettura del dispositivo in udienza e non suscettibile di correzione ex art. 130 cod. proc. pen.
2.2. Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e mancanza di motivazione in riferimento alla violazione dei limiti della motivazione per relationem, non avendo la sentenza impugnata dimostrato che il giudice di appello aveva preso cognizione del contenuto del provvedimento.
2.3. Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione alla richiesta di assoluzione dai reati ascritti, avendo l’imputata ricoperto il ruolo amministrativo della società in modo del tutto formale, mentre i veri ed esclusivi responsabili delle condotte – COGNOME e COGNOME – hanno patteggiato la pena, laddove tutti i testi hanno riferito la gestione della società ai due coimputati, mentre la sentenza irrevocabile del Tribunale di Monza acquisita ha assolto l’imputata dalla contestazione di appropriazione indebita quale amministratrice della fallita, sulla base dell’esclusione delle sua consapevolezza e responsabilità, anche solo omissiva, nella gestione della società.
2.4. Il quarto motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione
all’apporto della relazione ex art. 33 I. fall., la quale dà atto che un ex socio della fallita aveva indicato in COGNOME il reale gestore della società.
2.5. Il quinto motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione all’apporto delle sommarie informazioni acquisite con il consenso delle parti, che attribuivano il ruolo di dominus a COGNOME, oggetto di un motivo di appello al quale erroneamente la sentenza impugnata ha risposto richiamando per relationem quella di primo grado.
2.6. Il sesto motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione all’omessa valutazione della già citata sentenza del Tribunale di Monza.
2.7. Il settimo motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione alle dichiarazioni dell’imputata, che ha riferito della propria completa estraneità alla gestione della società, in quanto mera testa di legno, laddove del tutto illogica è la motivazione resa sul punto dalla sentenza impugnata, che non menziona neppure le dichiarazioni della ricorrente.
2.8. L’ottavo motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione alla richiesta di assoluzione dal reato di bancarotta documentale, oggetto di un motivo di appello rispetto al quale la sentenza impugnata non offre un’effettiva interlocuzione.
2.9. Il nono motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione alla richiesta di riqualificazione del reato di bancarotta fraudolenta documentale in quello di bancarotta semplice documentale, del tutto ignorata dalla Corte di appello.
2.10. Il decimo motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione alla richiesta di assoluzione dalle contestazioni di bancarotta per distrazione, avendo il gravame dedotto il difetto di prova circa la destinazione delle somme al soddisfacimento di esigenze extrasociali e circa l’elemento psicologico del reato, censure alla quali la sentenza impugnata replica in modo assertivo, ponendo la mancata esplicazione della destinazione delle somme a carico dell’imputata che ne era all’oscuro.
2.11. L’undicesimo motivo denuncia mancata risposta al motivo di appello, violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. e vizi di motivazione in relazione al punto concernente la richiesta di concessione della non menzione.
Il Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione NOME AVV_NOTAIO ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al diniego del beneficio della non menzione e per il rigetto nel resto del ricorso; il difensore della ricorrente AVV_NOTAIO ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso non merita accoglimento.
Il primo motivo è manifestamente infondato. Premesso che la Corte di appello ha rilevato – e il ricorso non ha contestato – che il dispositivo esiste e il suo originale è stato letto in udienza, sicché quello (carente) riportato nella sentenza-documento è frutto di un mero errore materiale, è sufficiente ribadire il consolidato orientamento, puntualmente richiamato dal giudice di appello, secondo cui l’omessa trascrizione, sull’originale della sentenza, del dispositivo letto in udienza non integra la nullità di cui all’art. 546, comma 3, cod. proc. pen., che va riferita all’ipotesi in cui il dispositivo difetti totalmente, trattandos mera omissione grafica da parte dell’estensore del provvedimento, sanabile con la procedura di correzione degli errori materiali di cui all’art. 130 cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 4969 del 01/12/2022, dep. 2023, Ortolano, Rv. 284053 – 01).
Il secondo motivo è del tutto generico, risultando svincolato dalla puntuale disamina della motivazione della sentenza impugnata, idonea, come si vedrà, ad offrire congrua risposta alle questioni poste dal ricorso.
I motivi dal terzo al settimo, che possono essere esaminati congiuntamente, devono essere rigettati, pur presentando plurimi profili di inammissibilità.
4.1. La Corte di appello non ha affatto disconosciuto il ruolo di dominus della fallita rivestita da COGNOME, sottolineando anzi la pervasività della sua preminenza in azienda: il che è del tutto in linea con le deduzioni del ricorso fondate sui verbali di sommarie informazioni acquisiti, sulla relazione del curatore e sulle stesse dichiarazioni dell’imputata. Ciò che il ricorso svilisce è invece il compendio di dati probatori espressivi, nella valutazione dei giudici di merito esente da vizi logici, del ruolo comunque svolto da COGNOME nel significativo arco temporale in cui ha rivestito la carica amministrativa della fallita. Sulla base delle indagini della polizia giudiziaria e dei relativi accertamenti è stato acclarato che: l’imputata era l’unico soggetto abilitato a operare
sull’unico conto corrente della società; ella, non in una sola occasione, ma in più riprese, si recò nella veste indicata presso la banca onde effettuare la negoziazione di 32 assegni e un giroconto in suo favore, prelevando somme in contanti; tali operazioni integrano i fatti distrattivi per i quali è intervenuto giudizio di colpevolezza, non essendo risultate – né dalle verifiche della curatela, né dalle indagini della Guardia di Finanza – e neppure allegate dalla stessa imputata finalità sociali nella destinazione di somme esistenti con certezza nel patrimonio della fallita e con altrettanta certezza fuoriuscite da esso. Il settimo motivo fa leva sulla prospettata estraneità dell’imputata, ma i rilievi della sentenza impugnata smentiscono questo assunto, mentre le ulteriori deduzioni circa l’illogicità della motivazione lì dove segnala la mancanza di spiegazioni circa la destinazione delle somme prelevate sono confutate dal consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta per distrazione, è necessario che siano sottratti alla garanzia dei creditori cespiti attivi effettivi e, pertanto, sicurament esistenti (Sez. 5, n. 3615 del 30/11/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 236047), sicché il mancato rinvenimento all’atto della dichiarazione di fallimento di beni o valori societari costituisce valida presunzione della loro dolosa distrazione, a condizione che sia accertata la previa disponibilità, da parte dell’imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori di qualsivoglia presunzione (Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010, De Angelis, Rv. 248425); pertanto, se, in tema di bancarotta fraudolenta, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti, ciò si ricollega alla «peculiarità della normativa concorsuale», che attribuisce all’imprenditore «una posizione di garanzia nei confronti dei creditori», dalla quale discende la diretta responsabilità per la perdita della garanzia, tanto più che l’art. 87, terzo comma, I. fall. «assegna al fallito l’obbligo di verità circa la destinazione dei beni di impresa al momento dell’interpello formulato dal curatore al riguardo», sicché solo apparente è l’inversione della prova a carico del fallito «nel caso di mancato rinvenimento di cespiti da parte della procedura e di assenza di giustificazione al proposito», trattandosi, in realtà, di «sollecitazione al diretto interessato della dimostrazione della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato, risposta che (presumibilmente) soltanto egli, che è (oltre che il responsabile) l’artefice della gestione, può rendere» (Sez. 5, n. 8260 del 22/09/2015, dep. 2016, Aucello, Rv. n. 267710). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4.2. Neppure colgono nel segno il terzo e il sesto motivo, in quanto – fermo quanto già rilevato a proposito del ruolo dei coimputati e, segnatamente di COGNOME – la sentenza impugnata ha richiamato, con riguardo alla sentenza
del Tribunale di Monza, la sentenza di primo grado, che si integra con quella conforme di secondo grado (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997, Ambrosino, Rv. 209145), lì dove ha rilevato che l’imputata è stata condannata solo per le distrazioni dalla stessa personalmente realizzate. Sul punto, il ricorso non scalfisce il rilievo dei giudici di merito e, invero, rivela un profilo di aspecifici dal momento che non deduce, con la necessaria puntualità, il fatto contestato in termini di appropriazione indebita, per il quale COGNOME è stata assolta
4.3. Il quarto e il quinto motivo propongono le deduzioni incentrate sulla relazione del curatore e sulle sommarie informazioni acquisite con il consenso delle parti, ma, come si è visto, il ragionamento della sentenza impugnata non è affatto inficiato, sul piano logico-argomentativo, dal riconoscimento del ruolo di dominus della fallita in capo al coimputato. Ne consegue l’infondatezza anche di tali motivi.
Anche l’ottavo e il nono motivo, attinenti alla bancarotta documentale, non meritano accoglimento. Al riguardo, la sentenza impugnata ha rilevato, alla luce degli elementi sopra in sintesi richiamati, che gli indicatori univoci dell’adesione da parte di COGNOME alla gestione di COGNOME, in uno con il dato rappresentato dalla carica amministrativa ricoperta per una lunga durata, escludono sia l’inconsapevolezza dell’imputata circa la situazione contabile, sia la sua impossibilità di agire, in adempimento dei doveri connessi alla carica, almeno per vigilare sulla corretta tenuta delle scritture sociali. Nei termini indicati, l sentenza impugnata ha congruamente motivato circa la conferma dell’affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, il che rende ragione, per un verso, dell’infondatezza dell’ottavo motivo e, per altro verso, dell’implicita – ma univoca – esclusione della riqualificazione in melius riproposta dal nono motivo.
Il decimo motivo è infondato alla luce dei rilievi svolti supra (§ 4.1.), ai quali è sufficiente rinviare.
L’undicesimo motivo è inammissibile per plurime, convergenti ragioni.
La Corte di appello ha motivato la conferma del diniego del beneficio della non menzione, rilevando che l’imputata ha riportato una condanna definitiva per appropriazione indebita. Il ricorso denuncia un travisamento per invenzione, allegando, a sostegno della censura, un certificato penale dal quale COGNOME risulta incensurata. Ora, il testo dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen., introdotto dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, nel far riferimento ad “atti del processo” che devono essere “specificatamente indicati” dal ricorrente, detta
una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 lett. c) cod. proc. pen., con l’effetto di porre a carico del ricorrente un peculiare onere di inequivoca individuazione e di specifica rappresentazione degli atti processuali che intende far valere, nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi (Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, Casula, Rv. 233711; conf. ex plurimis, Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994). Il ricorso non ha adempiuto a questo onere, in quanto il certificato penale allegato è datato 20/02/2018, ossia risale a una data di gran lunga anteriore anche alla sentenza di primo grado, sicché è all’evidenza inidoneo a dimostrare il denunciato travisamento: sotto questo profilo, il ricorso è aspecifico. D’altra parte, il certificato penale presente in atti e datato 28/09/2023 riporta una sentenza di condanna per appropriazione indebita aggravata divenuta irrevocabile il 25/07/2021, sicché, sotto questo profilo, il motivo è manifestamente infondato.
Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 18/01/2024.