Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 7264 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 7264 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 12/12/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME COGNOME nato a CATANIA il 15/10/1973 COGNOME NOME COGNOME nato a CATANIA il 28/09/1949
avverso la sentenza del 05/04/2024 della Corte d’appello di Catania Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto annullarsi con rinvio la sentenza impugnata quanto a NOME COGNOME e rigettarsi il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Catania, con la sentenza emessa il 5 aprile 2024, riformava solo quanto alla dosimetria della pena quella del Tribunale etneo che, per quanto qui rileva, aveva ritenuto la responsabilità penale di NOME COGNOME e NOME COGNOME.
In particolare, la prima, quale socio unico e rappresentante legale della RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita il 19 maggio 2011 – dal 16
ottobre 2006 al 2 maggio 2007, veniva ritenuta colpevole: (capo A ex art. 223, comma 2, n. 2, I. fall.) di cagionamento a mezzo di operazioni dolose del fallimento della predetta società, omettendo di adottare i provvedimenti ex art. 2482-ter cod. civ. e omettendo di pagare i debiti maturati nei confronti dell’Erario, cagionando un passivo di oltre 3 milioni di euro di debiti tributari; (capo C ex art. 223, 216, comma 1., n. 2, I. fall.) di bancarotta fraudolenta documentale specifica ovvero di tipo generico.
Per entrambi i delitti risultava contestata la continuazione per i plurimi fatti di bancarotta fraudolenta, nonché l’aver cagionato un danno di rilevante gravità.
Quanto al COGNOME, imputato in quanto amministratore di fatto della fallita dal 16 ottobre 2006 fino alla data del fallimento, lo stesso veniva mandato assolto in primo grado dal delitto sub capo B) di bancarotta impropria per avere cagionato a mezzo di operazioni dolose -emissione di fatture per operazioni inesistenti – il fallimento della società, mentre ne veniva affermata la responsabilità penale per il capo C), con esclusione dell’aggravante della rilevante gravità, confermata dalla Corte di appello.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di un unico motivo, quello nell’interesse di NOME COGNOME di tre motivi, che saranno enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il ricorso nell’interesse di COGNOME lamenta vizio di motivazione, rappresentando come la sentenza impugnata abbia trascurato di valutare che, ammessa la qualifica formale di socio unico, l’imputata abbia svolto la funzione della cd. testa di legno, tanto da non essere nota a nessuno dei fornitori.
Errata sarebbe la motivazione allorché ritiene che COGNOME abbia agito con dolo eventuale, non valutando che lo stesso atto di gestione – individuato nella sottoscrizione di una fideiussione personale in favore della società – risulti non indicativo del dolo, bensì dell’assenza di consapevolezza quanto alle condotte illecite poste in essere dall’amministratore di fatto.
La Corte territoriale non avrebbe chiarito quali sono i segnali di allarme che l’imputata avrebbe dovuto cogliere in ordine alla condotta dell’amministratore di fatto, non potendo ritenersi utile a tal fine la sola disponibilità a fungere da prestanome. Se ne dovrebbe trarre l’esclusione della prova del dolo o, al più, la sussistenza della colpa.
Quanto al ricorso di COGNOME, lo stesso è stato articolato come segue.
4.1 Il primo motivo lamenta violazione di legge penale. La Corte di appello non si sarebbe confrontata con l’insussistenza degli elementi tipici della qualità di amministratore di fatto, qualità attribuita all’imputato, richiamando a riguardo un passo della deposizione del curatore.
4.2 II secondo motivo lamenta vizio di motivazione in quanto, emerso che alla Sanfilippo era subentrato quale amministratore COGNOME dal maggio 2007, da tale data non risultava alcuna condotta posta in essere dal COGNOME. Il ricorrente richiama la deposizione del teste di polizia giudiziaria COGNOME che escludeva di aver mai visto COGNOME, aggiungendo che dalla comunicazione notizia di reato sul conto del ricorrente in ordine alle violazioni tributarie, emergeva come COGNOME non avesse svolto alcuna attività dopo la data sopra indicata.
La sentenza impugnata sarebbe incorsa in travisamento della c.n.r. prolungando l’attività di COGNOME fino alla data del fallimento, il che sarebbe anche smentito dall’assoluzione dell’imputato dalle violazioni tributarie e dalla circostanza che il passivo della fallita era immutato – pari a 3 milioni di euro fin dal bilancio del 2015, tanto da escludere, anche per la sentenza di primo grado, che COGNOME avesse causato il fallimento.
4.3 II terzo motivo lamenta violazione di legge in quanto il delitto sub capo C) si sarebbe già estinto per prescrizione, a seguito della esclusione della aggravante ad effetto speciale.
5. Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, vertendosi in tema di impugnazione antecedente il 30 giugno 2024, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall’art. 94 del d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell’art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18.
6. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME ha chiesto annullarsi con rinvio la sentenza per Sanfilippo e rigettarsi il ricorso di COGNOME.
Quanto alla prima, in quanto la Corte di appello non avrebbe fatto buon governo dei principi in materia, che richiedono che l’amministratore prestanome abbia consapevolezza almeno generica delle attività illecite dell’amministratore di fatto, non risultando sufficiente la sola formale qualità.
Quanto al secondo ricorrente, il primo e secondo motivo sarebbero infondati in quanto la prova del ruolo di autore nell’emissione di fatture per operazioni inesistenti della società costituisce prova della qualità di amministratore di fatto, non contraddetta dalla assoluzione intervenuta in primo grado dal delitto di operazioni dolose causative del fallimento. Il terzo motivo sarebbe manifestamente infondato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso nell’interesse di COGNOME è inammissibile, quello nell’interesse di Sanfilippo fondato nei termini seguenti.
Quanto al ricorso COGNOME lo stesso è inammissibile.
2.1 I motivi primo e secondo, strettamente connessi, censurano la sentenza impugnata esclusivamente in ordine alla qualità di amministratore di fatto dell’imputato.
Per un verso si verte in tema di motivi versati in fatto, che abbozzano denunce di travisamento, che in vero però sono promosse in modo non consentito.
Difatti si tratta di censure che richiamano parti di deposizioni, ma l’inserimento nel ricorso di brani di deposizioni rende aspecifico il motivo, in quanto non consente a questa Corte, che non può accedere agli atti se non per error in procedendo, di verificare nell’intero le richiamate deposizioni.
Infatti, qualora la prova omessa o travisata abbia natura dichiarativa, il ricorrente ha l’onere di riportarne integralmente il contenuto, non limitandosi ad estrapolarne alcuni brani ovvero a sintetizzarne il contenuto, giacchè così facendo viene impedito al giudice di legittimità di apprezzare compiutamente il significato probatorio delle dichiarazioni e, quindi, di valutare l’effettiva portata del vizio dedotto (ex multis Sez. 4 n. 37982 del 26 giugno 2008, Buzi, rv 241023; Sez. 3, n. 19957/17 del 21 settembre 2016, COGNOME, Rv. 269801).
Inoltre, il brano riportato con il secondo motivo, in ordine alla dichiarazione di COGNOME che riferisce di non conoscere COGNOME risulta assolutamente estraneo e quindi non decisivo – rispetto alla posizione di COGNOME.
Quanto poi alla prova del ruolo di amministratore di fatto del COGNOME – tratta dalla deposizione in appello di COGNOME e dal contenuto della c.n.r., inerenti l’emissione di fatture per operazioni inesistenti- la Corte territoriale fa buon governo dei principi in materia, come condivisibilmente richiamati dalla Procura generale: difatti, in tema di reati fallimentari, la prova della posizione di amministratore di fatto di una società “schermo” – priva di una reale autonomia e costituita per essere utilizzata come “cartiera” in un meccanismo fiscalmente
fraudolento volto ad evadere il versamento dell’IVA – si traduce in quella del ruolo di ideatore ed organizzatore del suddetto sistema fraudolento, atteso che non è ipotizzabile l’accertamento di elementi sintomatici di un inserimento organico all’interno di un ente solo formalmente operante (Sez. 5, n. 7824 del 30/11/2022, dep. 2023, Bergese, Rv. 284223 – 01; Sez. 5, n. 31823 del 06/10/2020, COGNOME, Rv. 279829 – 02; conf. N. 32398 del 2018 Rv. 273821 – 01).
Anche l’assoluzione dell’imputato in ordine al capo B) – intervenuta in primo grado in ordine a una diversa piattaforma probatoria, poi integrata dalla Corte di appello con la rinnovazione istruttoria – non collide con la responsabilità dell’imputato per il delitto di bancarotta documentale contestato, che non viene ‘attaccato’ in sé dal ricorrente, né quanto alla sussistenza oggettiva né quanto al coefficiente soggettivo.
D’altro canto, vertendosi in tema di bancarotta di tipo specifico – le scritture contabili non sono mai state consegnate – l’imputato ne deve rispondere quale amministratore di fatto, in quanto chi ricopre le funzioni di amministrazione, di fatto e anche in via non esclusiva, ha comunque il dovere di adempiere agli obblighi nell’interesse della società: infatti, in base alla disciplina dettata dall’art 2639 cod. civ., l’amministratore ”di fatto” di una società è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, è penalmente responsabile per tutti i comportamenti a quest’ultimo addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall’art. 40, comma secondo, cod. pen. (Sez. 5, n. 26542 del 19/03/2014, Riva, Rv. 250844; Sez. 5, n. 15065 del 02/03/2011, Rv. 250094).
Ne consegue la genericità e la manifesta infondatezza dei motivi esaminati.
2.2 Quanto al terzo motivo, lo stesso anche è generico e manifestamente infondato.
È generico in quanto a fronte della motivazione della Corte di appello, che richiama i corretti principi di diritto in materia e la sospensione del termine di prescrizione, il ricorso non contesta specificamente tali profili, reiterando il motivo di appello.
È comunque un motivo anche manifestamente infondato, in quanto il termine di prescrizione del reato di bancarotta prefallimentare decorre dal momento in cui interviene la sentenza dichiarativa di fallimento e non dal momento di consumazione delle singole condotte distrattive precedenti a tale declaratoria (da ultimo, Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, COGNOME, Rv. 273800 – 01, in relazione al momento della consumazione ai fini dell’indulto; Sez. 5, n. 45288 del 11/05/2017, COGNOME, Rv. 271114 – 01: in motivazione, si è precisato che tale principio è valido sia nel caso in cui la sentenza di fallimento venga qualificata elemento
costitutivo improprio della fattispecie penale, come la Corte ha affermato incidentalmente, sia qualora la si ritenga condizione obiettiva di punibilità; Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, COGNOME, Rv. 269389 – 01; qualificano come condizione obiettiva di punibilità la dichiarazione di fallimento, Sez. 5, n. 2899 del 02/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274610 – 01; Sez. 5, n. 4400 del 06/10/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272256 – 01; Sez. 5, n. 53184 del 12/10/2017, COGNOME, Rv. 271590 – 01).
Ne consegue che la cessazione della condotta di amministratore di fatto da parte del ricorrente – implicitamente richiamata dalla circostanza che l’ammontare del passivo era tale al 2015 e che successivamente COGNOME non avrebbe posto in essere altre condotte illecite – con la nomina del successivo amministratore di diritto, se anche fosse rispondente al vero, non determina il decorrere del termine di prescrizione se non dal perfezionamento del reato, intervenuto con la sentenza dichiarativa di fallimento.
Pertanto, da tale ultima data, 19 maggio 2021, a seguito del decorso di anni dodici e mesi sei (fino al 19 novembre 2023), tenendo in conto la sospensione di giorni 397, si determina il decorso del termine di prescrizione alla data del 20 dicembre 2024, quindi successivo alla data della sentenza di appello.
Ad ogni buon conto, e quanto all’eventuale maturare del termine di prescrizione dopo la sentenza di appello, l’inammissibilità del ricorso per cassazione, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, per manifesta infondatezza dei motivi, o per altre ragioni diverse dalla rinuncia, non consente il formarsi di un valido rapporto processuale e preclude pertanto la possibilità di rilevare e dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione a norma dell’art. 129 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, COGNOME, Rv. 217266; Sez. U, n. 33542 del 27/06/2001, COGNOME, Rv. 219531; Sez. U. n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, COGNOME; Sez. U n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, COGNOME).
Quanto al ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME lo stesso è fondato.
A ben vedere, la Corte di appello trae la prova della responsabilità della COGNOME, amministratrice prestanome, da tale circostanza e dalla sottoscrizione della fideiussione dei debiti societari della fallita, valutandolo come un atto di gestione.
A ben vedere, però, va anche evidenziato come nella verifica del caso concreto emerge che l’imputata sia stata prestanome del COGNOME per la durata di otto mesi, circostanza ammessa in sede di dichiarazioni spontanee dall’imputata (cfr. sentenza impugnata, fol. 6).
La Corte di appello richiama una giurisprudenza in tema di responsabilità del prestanome – rispetto alla bancarotta patrimoniale per distrazione – che richiede la generica consapevolezza da parte della testa di legno delle condotte distrattive dell’amministratore di fatto, potendo il dolo essere integrato anche nella forma eventuale.
Nel caso in esame, va evidenziato che occorra definire qual sia il contenuto del dolo della bancarotta fraudolenta documentale nell’ipotesi in cui il reato sia imputato all’amministratore formale, che si rivela in realtà essere un mero prestanome degli effettivi gestori della società fallita.
Come richiamato in motivazione da Sez. 5, n. 44666 del 04/11/2021, La Porta, Rv. 282280 – 01, «deve ritenersi pacifico che l’assunzione solo formale della carica gestoria non consenta l’automatica esenzione dell’amministratore per i reati previsti dagli artt. 216 comma 1 n. 2), 217 comma 2 e 220 legge fall., atteso che questi e non altri è il diretto destinatario ex art. 2392 c.c. dell’obbligo relativo alla regolare tenuta e conservazione dei libri contabili (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 43977 del 14/07/2017, COGNOME, Rv. 271754). Da qui il corollario per cui, qualora egli deleghi ad altri in concreto la tenuta della contabilità o comunque consenta che altri assumano di fatto la gestione della società, egli non è esonerato dal dovere di vigilare sull’operato dei delegati o degli amministratori di fatto e, conseguentemente, dalla responsabilità penale, eventualmente in forza del disposto di cui all’art. 40 comma 2 c.p., se viene meno a tale dovere (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 36870 del 30/11/2020, COGNOME, Rv. 280133)».
D’altro canto, però «e non sussiste alcuna automatica esenzione di responsabilità per l’amministratore solo “formale”, nemmeno può, però, altrettanto automaticamente affermarsi la sua responsabilità dolosa per le condotte incriminate dalla legge fallimentare sulla base della mera carica ricoperta e dell’integrazione dell’elemento materiale del reato. Ed è questo il senso dell’orientamento che è venuto consolidandosi nella giurisprudenza di questa Corte, per cui è necessaria la dimostrazione, non solo astratta e presunta, ma effettiva e concreta della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di procurare un ingiusto profitto a taluno, attentandosi altrimenti al principio costituzionale della personalità della responsabilità penale (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 44293 del 17/11/2005, COGNOME, Rv. 232816; Sez. 5, Sentenza n. 642 del 30/10/2013, dep. 2014, Demajo, Rv. 257950; Sez. 5, n. 40176 del 02/07/2018, COGNOME, non massimata; Sez. 5, n. 40487 del 28/05/2018, COGNOME, non massimata; Sez. 5, n. 34112 del 01/03/2019, NOME, non massimata)».
Seppur in relazione alla bancarotta generica, Sez. 5 La Porta afferma che «Sul piano della prova, è ovvio che l’assunzione solo formale della carica costituisce un importante indizio della configurabilità del dolo richiesto per la sussistenza del reato menzionato e che, in alcuni casi, le concrete circostanze in cui è avvenuta, l’indizio può trasformarsi in prova diretta dell’elemento psicologico tipico. Ma per l’appunto è l’analisi delle circostanze concrete del fatto che possono restituire la prova della componente rappresentativa del dolo ed è dunque compito del giudice rifuggire da rigidi automatismi probatori evidenziando le specifiche ragioni per cui sia possibile ritenere, nei termini suindicati, che l’amministratore formale sia consapevolmente concorso nella realizzazione del reato».
A ben vedere nel caso in esame si verte in tema di bancarotta documentale specifica, per sottrazione di tutte le scritture, cosicchè è richiesto il dolo specifico di voler pregiudicare i creditori. Ebbene, se è consentito ed è ammissibile il concorso in un reato a dolo specifico di chi abbia agito con dolo eventuale, in quanto la struttura di quest’ultimo si caratterizza per un contenuto rappresentativo e volitivo tali da includere, con effettività e concretezza, anche la specifica finalità richiesta ai fini dell’integrazione del reato (Sez. 3 , n. 23335 del 28/01/2021, COGNOME, Rv. 281589 – 06, in tema di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio), deve anche richiamarsi Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, COGNOME, Rv. 261104 – 01: il dolo eventuale ricorre quando l’agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l’eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi. Le Sezioni Unite, poi, chiariscono come per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'”iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento (cosiddetta prima formula di Frank). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
A ben vedere, essendo necessaria la verifica nel caso concreto di tali principi, in relazione alla bancarotta documentale per sottrazione l’oggetto del dolo è proprio tale ultima condotta, cosicchè occorre comprovare che l’imputata avesse la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto, nel caso di specie della omessa istituzione ovvero della sottrazione o distruzione delle scritture con finalità di pregiudizio per i creditori o di ingiusto profitto per talun (cfr. anche Sez. 5, n. 32413 del 24/09/2020, Loda, Rv. 279831 – 01, nel caso di bancarotta fraudolenta documentale e di fallimento per effetto di operazioni dolose di una società “cartiera”, in cui la prova del dolo dell’amministratore di diritto è stata desunta dalla dichiarata conoscenza della indisponibilità di un magazzino a fronte di un elevato fatturato; Conf. Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014, Rv. 26322501).
L’analisi degli elementi addotti dalla Corte di appello – accettazione della carica quale prestanome e sottoscrizione della fideiussione – risultano carenti e insufficienti a integrare la prova del dolo eventuale richiesto, anche alla luce delle verifiche sollecitate dalle Sezioni unite.
A ben vedere, il solo dato dell’accettazione della carica non è in sé sufficiente, mentre la sottoscrizione della fideiussione, che comunque esponeva l’imputata ulteriormente da un punto di vista patrimoniale, ha valore ambivalente, come osserva la ricorrente: potrebbe anche dimostrare l’assoluta inconsapevolezza dell’imputata, stante il valore dell’atto pregiudicante per la stessa come garante, il che potrebbe rappresentare in sé un dato rilevante solo a fronte di compensi significativi in cambio dell’aver ‘prestato il nome’.
In tal senso nessuna indagine è stata effettuata, anche quanto ai ‘segnali di allarme’ che l’amministratrice di diritto, negli otto mesi di amministrazione formale, avrebbe dovuto cogliere.
Ne consegue l’annullamento con rinvio sia per il delitto di bancarotta documentale, sia anche per quello di bancarotta a mezzo di operazione dolose, che richiederebbe la conoscenza – nei termini indicati finora – delle condotte di evasione delle imposte che condussero al fallimento la società. Difatti, come accade per la bancarotta distrattiva, se è vero che l’amministratore in carica risponde penalmente dei reati commessi dall’amministratore di fatto, dal punto di vista oggettivo ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico (art. 2392 cod. civ.) di impedire, e, è anche vero che dal punto di vista soggettivo occorre sia raggiunta la prova che egli aveva la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distraeva, occultava, dissimulava, distruggeva o dissipava i beni sociali, esponeva o riconosceva passività inesistenti e, nel caso in esame, svolgesse attività di
o
emissione di fatture per operazioni inesistenti, ponendo in essere le operazioni dolose (Sez. 5, n. 11938 del 09/02/2010 – dep. 26/03/2010, COGNOME e altri, Rv. 246897 ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha ampiamente argomentato in ordine all’effettiva consapevolezza da parte degli amministratori di diritto delle condotte dell’imputato, desumendone la prova dagli stessi verbali del consiglio di amministrazione).
Ovviamente, a differenza del dolo da distrazione, nel caso delle operazioni dolose il ‘fuoco’ del dolo deve riguardare le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall. che consistono, nel caso di specie, nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, COGNOME Rv. 273337 – 01; conf. n. 12426 del 2014 Rv. 259997 – 01, n. 29586 del 2014 Rv. 260492 – 01, n. 47621 del 2014 Rv. 261684 – 01, n. 15281 del 2017 Rv. 270046 – 01; nello stesso senso Sez. 5, n. 22765 del 18/02/2021, COGNOME, n.m.).
In particolare, quanto al profilo causale va richiamato il principio che la fattispecie di fallimento cagionato da operazioni dolose, prevista dall’art. 223, comma secondo, n. 2, legge fall., presuppone una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo, ma da un fatto di maggiore complessità strutturale, riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato e si distingue dalle ipotesi generali d bancarotta fraudolenta patrimoniale, di cui al combinato disposto degli artt. 223, comma primo, e 216, comma primo, n. 1), legge fall. – in cui, invece, le disposizioni di beni societari (qualificabili in termini di distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione) sono caratterizzate, secondo una valutazione “ex ante”, da manifesta ed intrinseca fraudolenza, in assenza di qualsiasi interesse per la società amministrata (Sez. 5, n. 12945 del 25/02/2020, Mora, Rv. 279071 – 01; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti, Rv. 247314 – 01).
E dunque il dolo in questione deve riguardare la generica consapevolezza di tale complessità delle operazioni.
Ne consegue la dichiarazione di inammissibilità del ricorso di COGNOME con condanna come da dispositivo, nonché l’annullamento con rinvio per COGNOME ad altra sezione della Corte di appello di Catania.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Catania.
Dichiara inammissibile il ricorso di NOME COGNOME che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 12/12/2024