Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 2593 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 2593 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 24/10/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da COGNOME NOME, nata a Napoli 1’11/07/1968 COGNOME NOME, nato a Pontecagnano Faiano il 24/05/1964 COGNOME NOME, nato a Salerno il 24/07/1984 avverso la sentenza dell’08/01/2024 della Corte di appello di Salerno; anche nei confronti di Istituto Interdiocesano per il Sostentamento del Clero delle Diocesi di Salerno, Campagna, Acerno e dell’Abbazia territoriale “INDIRIZZO di Cava dei Tirreni” (parte civile); visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che la sentenza sia annullata con rinvio limitatamente alla posizione di Picentino e che i ricorsi di COGNOME e COGNOME siano dichiarati inammissibili; udito, per la parte civile, l’avv.to NOME COGNOME che ha depositato memoria e nota spese;
uditi gli avv.ti NOME COGNOME per COGNOME e COGNOME; NOME COGNOME per NOME no.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza dell’8 gennaio 2024, la Corte di appello di Salerno ha confermato la sentenza del Tribunale di Salerno del 15 luglio 2022, con la quale gli imputati erano stati condannati – COGNOME NOME, alla pena di anni due e mesi nove di reclusione; COGNOME NOME e COGNOME NOME, alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione; tutti oltre pene accessorie:
A) COGNOME NOME, per i reati previsti dagli artt. 113, 449, 426 e 433 cod. pen., perché, in cooperazione con COGNOME NOME – per il quale si è proceduto separatamente – in qualità di legale rappresentante della ditta RAGIONE_SOCIALE e di persona che possedeva e gestiva l’area di cava sita in Montecorvino Pugliano, per colpa consistita nell’effettuare attività di coltivazione abusiva di cava mediante scavi praticati al disotto della sede stradale, cagionava il crollo di un costone alto circa 40 metri su cui insistevano la predetta sede stradale e due tralicci destinati alla trasmissione di energia elettrica con conseguente distruzione degli stessi ed interruzione del funzionamento dell’impianto destinato ad un servizio di pubblica necessità;
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, per il reato di cui agli artt. 81 e 110, cod. pen., 6, comma 1, lettera e) , della legge n. 210 del 2008, 256, comma 3, e 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, perché, in concorso tra loro COGNOME NOME, in qualità di legale rappresentante della ditta RAGIONE_SOCIALE; COGNOME NOME, marito della COGNOME, in qualità di amministratore di fatto della predetta ditta; COGNOME NOME, nella qualità di legale rappresentante della ditta RAGIONE_SOCIALE – con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, commesse anche in tempi diversi, con più operazioni ed attraverso un articolato allestimento di mezzi ed attività continuative ed organizzate, gestivano abusivamente ingenti quantità di rifiuti speciali non pericolosi che, dopo avere ricevuto e/o prodotto, smaltivano illecitamente in discariche abusive – COGNOME NOME abbandonando anche rifiuti speciali – con la recidiva reiterata e specifica per COGNOME NOME.
Avverso la sentenza, COGNOME NOME e COGNOME NOME hanno proposto, tramite difensore, in un unico atto, ricorsi per cassazione, chiedendone l’annullamento.
2.1 Con un primo motivo di doglianza, si deduce la violazione degli artt. 2639 cod. civ., 125 e 533 cod. proc. pen.
Nello specifico, sostiene la difesa che la Corte di appello, nel fondare l’accertamento della responsabilità penale del Picentino sull’asserita qualifica di amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, desunta dalla ritenuta sussistenza di diversi elementi sintomatici dell’inserimento organico del prevenuto, con funzioni direttive, in diverse fasi della sequenza organizzativa, produttiva e commerciale dell’attività della società, avrebbe erroneamente omesso di considerare la nomina del Picentino come custode giudiziale dell’area di cava, intervenuta in data 21 maggio 2008, al momento del sequestro, atta, come tale, a giustificare, non solo l’assidua presenza dell’imputato ad ogni sopralluogo da parte delle autorità, ma anche il possesso esclusivo delle chiavi del lucchetto del cancello di accesso al sito. Peraltro, non si comprende perché, ritenuto il COGNOME amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE nel capo G) dell’imputazione, costui non figuri poi, nella medesima veste, come concorrente nel reato di cui al capo A).
2.2. Con un secondo motivo di impugnazione, si censura l’erronea applicazione degli artt. 110 e 157 cod. pen., 531 cod. proc. pen., nonché 256 e 260 del d.lgs. n. 152 del 2006.
Dopo avere specificato che, contrariamente a quanto sostenuto dal provvedimento gravato, risulta indinnostrata l’adesione della ditta RAGIONE_SOCIALE all’organizzazione della gestione illecita dei rifiuti, sul rilievo la predetta società, iscritta al registro provinciale delle imprese esercenti attivit di recupero dei rifiuti, sarebbe titolare dell’apposita autorizzazione alla ricezione, trasporto e smaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi – di talché la condotta degli imputati non potrebbe ritenersi protratta per anni – la difesa eccepisce che, dovendosi individuare il dies a quo della prescrizione nella data del sequestro, avvenuto il 21 maggio 2008, il reato di cui al capo G) avrebbe dovuto ritenersi estinto, una volta decorso il termini di sette anni e sei mesi, non potendosi applicare retroattivamente ex art. 2 cod. pen. la normativa introdotta con legge 136 del 2010, che ha determinato il raddoppio dei termini prescrizionali. A quella data, peraltro, non potrebbe attribuirsi agli imputati alcuna condotta di violazione né dell’art. 256 né dell’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, dal momento che il sito era sotto sequestro e non erano state riscontrate violazioni di sigilli.
Secondo la ricostruzione difensiva, del resto, il sequestro operato in data 23 maggio 2011 – assunto dalla sentenza come momento di accertamento dei fatti riguarderebbe una diversa area, gestita non già dalla RAGIONE_SOCIALE, bensì dalla RAGIONE_SOCIALE, legalmente rappresentata da COGNOME NOME: ciò che sarebbe confermato anche dalla testimonianza di COGNOME COGNOME, il quale, indagando sul traffico di rifiuti del 2011, vi avrebbe escluso ogni coinvolgimento della prima società.
2.3. Con un terzo motivo di censura, si prospetta la violazione degli artt. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006 – ora art. 452-quaterdecies cod. pen. – 110 cod. pen. e 125 cod. proc. pen.
Riprendendo parzialmente le argomentazioni già spese nella prima parte del secondo motivo di ricorso, la difesa ribadisce che, nel caso di specie, la Corte di appello di Salerno, oltre a non avere motivato in ordine agli elementi su cui fondare l’ipotesi di concorso di persone nel reato, avrebbe altresì omesso di considerare che l’attività di gestione dei rifiuti della COGNOME, in qualità di amministratrice d RAGIONE_SOCIALE, sarebbe stata regolarmente assentita. Ne consegue che l’unica condotta illecita suscettibile di essere addebitata alla ricorrente avrebbe potuto essere non già l’attività illecita ab origine di raccolta e smaltimento di rifiuti, bensì semplicemente la violazione del limite di altezza di 90 metri di accumulo dei rifiuti.
Violazione che, nel caso di specie, non potrebbe considerarsi accertata, avendo la consulenza dell’ing. COGNOME confermato l’esistenza di aree nelle quali la quota di progetto non era stata ancora raggiunta.
2.4. Con un ultimo motivo di gravame, ci si duole, infine, della violazione degli artt. 113, 426 e 449 cod. pen., 125, comma 3, 192, comma 3, 187 e 533 cod. proc. pen., nonché dell’art. 6 CEDU, sul rilievo che la sentenza impugnata, con evidente travisamento della prova, intenderebbe dimostrare una situazione di fatto mediante prove che in realtà si riferiscono ad un periodo successivo a quello da dimostrare.
Nello specifico, sostiene il ricorrente che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di appello – secondo la quale la COGNOME avrebbe affidato ad un terzo l’esecuzione di opere in un terreno di sua proprietà – sarebbe stato COGNOME NOME ad organizzare i lavori che avrebbero poi determinato la frana; di talché la COGNOME avrebbe dovuto considerarsi del tutto estranea alla vicenda. Lo stesso COGNOME – che, in altro procedimento per il medesimo reato avrebbe patteggiato – avrebbe espressamente dichiarato l’estraneità alla vicenda della COGNOME, non potendosi condividere, sul punto, il giudizio di inattendibilità formulato dai giudic di merito. Sia il giudice di primo grado che la Corte di appello, infatti, avrebbero ritenuto il COGNOME inattendibile quando parla di lavori eseguiti di sua personale iniziativa, all’insaputa della COGNOME prima del crollo,. sulla base di circostanz afferenti invece a fattori emersi soltanto dopo il crollo medesimo, quali : a) il fat che proprio la COGNOME, dopo il crollo, sarebbe stata sempre presente sul posto nell’ambito dei numerosi accessi; b) la circostanza sarebbe stata costei la destinataria di numerose notifiche di provvedimenti amministrativi; c) il dato che proprio il marito della COGNOME sarebbe stato in possesso delle chiavi del sito, ricevute dopo il crollo, poiché nominato custode giudiziale del sito. Secondo la prospettazione difensiva, la sentenza non spiega dove, come e quando ci sia stata
l’autorizzazione da parte della COGNOME al COGNOME NOME, né dove, come e quando COGNOME NOME avrebbe fatto accedere NOME nel sito in cui si è verificato il crollo, atteso che non sono stati rinvenuti né mezzi né operai della RAGIONE_SOCIALE sul posto. Né, del resto, la possibilità per il COGNOME NOME d accedere al sito potrebbe essere desunta semplicemente dal possesso esclusivo, in capo a COGNOME NOME, delle chiavi di accesso al sito, visto che quest’ultimo le avrebbe comunque ricevute solo dopo il crollo.
Avverso la sentenza, anche COGNOME Pietro ha proposto ricorso per cassazione, censurando, con un unico motivo di doglianza, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.
Nel caso di specie, mancando erroneamente di differenziare la posizione del COGNOME da quelle degli altri coimputati, si sarebbe trascurata la sua condotta collaborativa, visto che egli aveva sempre confermato di avere costituito la società RAGIONE_SOCIALE nel marzo del 2009 e di aver preso in affitto la particella di terreno proprietà dell’istituto interdiocesano, sulla quale, sino al giugno dello stesso anno, aveva lavorato . da solo, ribadendo tuttavia che , a far data dal giugno 2009, non aveva più messo piede nell’area interessata dalla gestione illecita. Non si sarebbe considerata la circostanza che il periodo temporale che ha visto interessato il Marchesano avrebbe durata di soli tre mesi, senza che si sia materializzata alcuna condotta decennale.
In data 18 ottobre 2024, la difesa degli imputati COGNOME e COGNOME ha depositato memoria, con la quale, in replica alla requisitoria scritta del pubblico ministero, rinnova la richiesta di accoglimento dei ricorsi.
4.1. Dopo avere affermato che, contrariamente a quanto sostenuto dal Pubblico ministero, l’argomento del concorso di persone nel reato di cui agli artt. 256 e 260 del d.lgs. n. 152 del 2006 era stato espressamente dedotto nei motivi di appello, il difensore ribadisce innanzitutto l’inesistenza della prova del concorso degli odierni imputati con il COGNOME, richiamandosi, per un verso, al difetto di motivazione in ordine all’elemento di collegamento tra i predetti coimputati atteso che il sequestro del 25 gennaio 2011 era stato operato sull’area di proprietà dell’istituto interdiocesano di Salerno condotto in locazione da Marchesano nello stesso tempo in cui l’area in uso a RAGIONE_SOCIALE era sottoposta a precedente sequestro – per altro verso, alla testimonianza di NOME COGNOME la quale, secondo la difesa, escluderebbe la responsabilità dei ricorrenti per i conferimenti di rifiuti del gennaio 2011, tutti trasferiti nella particella in uso al Marchesano.
4.2. In secondo luogo, sostiene la difesa che il Procuratore Generale ha erroneamente introdotto un’indebita inversione dell’onere della prova, in violazione dell’art. 546, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., laddove ha censurato il ricorso per non avere spiegato adeguatamente le ragioni per le quali la consulenza dell’ing. COGNOME avrebbe dovuto considerarsi plusvalente rispetto all’elaborato del geologo COGNOME. Tale consulenza, inoltre, sarebbe stata erroneamente valutata dai giudici di merito, i quali avrebbero omesso di considerare che, oltre ai volumi, il perito nominato aveva debitamente calcolato anche le altezze da raggiungere con gli inerti regolarmente autorizzati.
4.3. Quanto, infine, alla ribadita estraneità della Rizzo alla vicenda oggetto di contestazione, afferente ai reati di cui agli artt. 113, 426, 433 e 449 cod. pen., si ritiene che, ancora una volta, manchi la prova, anche solo indiziaria, di un affidamento a terzi, da parte della ricorrente, dell’esecuzione delle opere, non potendosi ritenere sufficiente a tal fine la mera presenza della donna sul posto, peraltro documentata soltanto successivamente al crollo e sempre giustificata dai ruoli ricoperti in occasione della loro verifica in loco. Ciò che, del resto, ritiene la difesa, sarebbe confermato anche dalla circostanza che la medesima situazione non abbia riguardato anche COGNOME NOME il quale, poiché presente sull’area di pertinenza, è stato ritenuto responsabile soltanto dei reati di cui al capo G).
In data 24 ottobre 2024, anche la parte civile Istituto Interdiocesano per il Sostentamento del Clero delle Diocesi di Salerno, Campagna, Acerno e dell’Abbazia territoriale “INDIRIZZO Cava dei Tirreni”, tramite il difensore, depositato memoria difensiva, con la quale chiede che i ricorsi siano dichiarati inammissibili o, in subordine, rigettati. In particolare, si precisa che, a proposit del ruolo di COGNOME NOME, al di là degli accertamenti che comprovano la sua perdurante presenza sulle aree in contestazione, sarebbe stato proprio il coimputato – e fratello – NOME NOME – già conduttore dei terreni di propriet dell’istituto, poi concessi alla RAGIONE_SOCIALE del Marchesano – a ricordare che il frat NOME sarebbe stato direttore della RAGIONE_SOCIALE dal 2003, della quale ha poi curato la gestione insieme alla moglie COGNOME NOME, non potendosi, del resto, spiegare altrimenti a che titolo l’imputato fos se l’unico detentore delle chiavi di apertura dei cancelli, altresì presenziando a tutti gli oltre quaranta intervent effettuati dalle autorità competenti, tenuto peraltro conto che l’assunto che costui fosse il mero custode dei fondi posti sotto sequestro si scontra con il dato documentale secondo cui, quantomeno con riferimento alle proprietà dell’Istituto Interdiocesano, l’area identificata con le particelle 73, 74 e 96, era affidata i custodia al coimputato COGNOME già conduttore della stessa in qualità di legale rappresentante pro tempore della RAGIONE_SOCIALE
CONSIDERATO IN DIRITTO
2.1. Il primo motivo – con il quale si denuncia la violazione degli artt. 2639 cod. civ., 125 e 533 cod. proc. pen. con riferimento alla ritenuta qualifica di amministratore di fatto del COGNOME – è inammissibile, poiché diretto a sollecitare una rivalutazione di merito, come tale preclusa in questa sede.
Rammentato che l’accertamento in esame è oggetto di una valutazione di fatto insindacabile in sede di legittimità, ove sostenuto da congrua e logica motivazione (ex multis, Sez. 5, n. 15065 del 02/03/2011, Rv. 250094; Sez. 5, n. 43388 del 17/10/2005, Rv. 232456; Sez. 5, n. 9222 del 22/04/1998, Rv. 212145), tale deve senz’altro essere ritenuta l’argomentazione della sentenza impugnata.
Nel caso di specie, infatti, la Corte territoriale (pag. 32), correttamente richiamando in via preliminare (pag. 13) le argomentazioni della decisione di primo – con la quale l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato si salda sul piano argomentativo, trattandosi di c.d. “doppia conforme” – ha evidenziato non solo la comprovata presenza del Picentino ad ogni sopralluogo e accesso ai luoghi compiuti dalle autorità preposte, bensì anche il possesso esclusivo, da parte di costui, delle chiavi di accesso al sito ove veniva compiuta l’attività illecita dedot nell’imputazione, così traendo conclusioni afferenti alla comprovata qualifica di amministratore di fatto, del tutto conformi ai principi più volti ribaditi d giurisprudenza di legittimità. Come correttamente rilevato anche dai giudici di merito, del resto, la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 263 cod. civ., postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipi inerenti alla qualifica od alla funzione; nondimeno, “significatività” e “continuit non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale (ex plurimis, Sez. 5, n. 45134 del 27/06/2019, Rv. 277540; Sez. 5, n. 35346 del 20/06/2013, Rv. 265634).
Né a fronte di tali considerazioni il ricorrente ha fornito, nemmeno in via di mera prospettazione, elementi concreti diretti a contestare i dati di fatto a cui la motivazione della sentenza impugnata risulta agganciata, mancando altresì di fornire una specifica argomentazione in ordine alle ragioni per le quali sarebbe stato nominato custode giudiziale dell’area interessata pur essendo estraneo ad unOattività gestoria.
2.2. Il secondo motivo di censura, riferito all’erronea applicazione di norma sostanziale e processuale, con riguardo agli artt. 110 e 157 cod. pen., 531 cod. proc. pen., nonché 256 e 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, è inammissibile, perché formulato in modo aspecifico, oltre che manifestamente infondato.
2.2.1. Nel caso di specie, a fronte di generici rilievi difensivi di t strettamente valutativo e congetturale, diretti a sconfessare la consistenza probatoria delle risultanze indiziarie – senza che il ricorrente fornisca effetti elementi dirimenti – la sentenza della Corte di appello (pagg. 22-24) offre un’autonoma valutazione in ordine alla responsabilità penale dell’imputato relativamente al reato di cui al capo G) dell’imputazione, commesso in concorso con COGNOME NOME, legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE valorizzando correttamente la sussistenza di un compendio probatorio univoco nel senso della colpevolezza degli odierni ricorrenti e che, nel corso del dibattimento di primo grado, ha posto in evidenzia l’effettuazione, da parte degli imputati, di una perdurante e continuativa attività organizzata, accertata mediante sopralluoghi, sequestri e numerosa documentazione acquisita, di gestione illecita di rifiuti
speciali, posta in essere mediante l’utilizzo della RAGIONE_SOCIALE società della quale la COGNOME risulta pacificamente essere la legale rappresentante autorizzata fino al limite di quota di 90 metri di accumulo inerti.
Premesso che, al pari dell’appello, anche il ricorso per cassazione è inammissibile per difetto di specificità dei motivi allorquando non risultino esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fat di diritto poste a fondamento della decisione impugnata (Sez. U., n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Rv. 268822), nel caso in esame, emerge dunque con evidenza la genericità della doglianza mossa dalla difesa di parte ricorrente, la quale manca di prendere in considerazione, anche a fini di critica, le argomentazioni svolte dalla sentenza di secondo grado, pretermettendo, nello specifico, di confrontarsi con la circostanza, invero incontestata, che l’imputata COGNOME erqa la rappresentante legale della società RAGIONE_SOCIALE
Né, del resto, può attribuirsi alcun rilievo al fatto, dedotto dalla difesa nel conclusioni di replica, che il sequestro del 25 gennaio 2011 sia stato operato sull’area di proprietà dell’istituto interdiocesano di Salerno condotto in locazione da Marchesano nello stesso tempo in cui l’area in uso a RAGIONE_SOCIALE era sottoposta a precedente sequestro, gicché il reato ex art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, ascritto agli odierni ricorrenti, fa riferimento non già alla predetta area d proprietà dell’istituto interdiocesano di Salerno, bensì dell’area di cava ubicata nel Comune di Montecorvino Pugliano (foglio 13, particella 23), /ocus commissi delicti del reato di cui al capo A) dell’imputazione, in gestione della stessa imputata COGNOME
2.2.2. Contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, infine, il delitto in esame non può ritenersi estinto per prescrizione, risultando il fatto contestato come commesso in data 25 gennaio 2011 e quindi successivamente all’entrata in vigore della legge n. 136 del 2010, che, inserendo la fattispecie di cui all’art. 260bis del d.lgs. n. 152 del 2006 nel novero dei reati elencati dall’art. 51, comma 3bis, cod. proc. pen., ha determinato il raddoppio del termine massimo di prescrizione da sette anni e sei mesi a quindici anni. Il delitto di attività organizzat per il traffico illecito di rifiuti, già previsto dall’art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006 ed attualmente sanzionato dall’art. 452-quaterdecies cod. pen., infatti, avendo natura di reato abituale proprio, si consuma con la cessazione di tali complessive attività, e non in corrispondenza di ogni singola condotta, di talché, ai fini della prescrizione, deve tenersi conto delle modifiche normativa, anche in peius, nelle more intervenute (ex plurimis, Sez. 3, n. 42631 del 15/09/2021, Rv. 282632; Sez. 3, n. 44629 del 22/10/2015, Rv. 265573).
Ne consegue che, dovendo farsi riferimento, ai fini del decorso del termine prescrizionale alla cessazione dell’attività organizzata finalizzata al traffico illec (Sez. 3, Sentenza n. 16036 del 28/02/2019, Rv. 27539), e dunque nella specie
alla data del 25 gennaio 2011, indicata quale termine finale dell’imputazione, la prescrizione non può a tutt’oggi ritenersi decorsa.
2.3. La terza doglianza, relativa alla violazione degli artt. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, 110 cod. pen. e 125 cod. proc. pen., è anch’essa inammissibile per genericità.
Come già precedentemente chiarito sub 2.2.1., la difesa omette di confrontarsi con le argomentazioni svolte dalla sentenza impugnata, la quale, alle pagg. 22-24, ha correttamente valorizzato gli elementi emergenti dal consistente quadro probatorio, dirimenti nel senso della comprovata responsabilità penale, a titolo di concorso con il COGNOME, degli imputati COGNOME e COGNOME, a sfavore dei quali depongono evidentemente: a) la loro assidua e costante presenza nel /ocus commissi delicti nell’ambito dei numerosi accessi e ispezioni compiuti dalle autorità operanti; b) la qualifica della COGNOME di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE; c) l’autorizzazione, concessa all’imputata dalla Regione Campania, a ricevere nella cava di Colle Barone rifiuti speciali non pericolosi.
Tale ultima autorizzazione, d’altra parte, risulta pacificamente concessa soltanto fino alla quota, macroscopicamente superata dagli odierni ricorrenti, di 90 metri di altezza, di talché deve ritenersi evidentemente illecita – come opportunamente fatto dalla Corte di appello – l’ulteriore attività di estrazione, non potendo in alcun modo considerarsi quanto asserito dall’ing. COGNOME la cui consulenza di parte è stata motivatamente ritenuta irrilevante dai giudici di merito (pag. 23) giacché basata sull’individuazione del residuo di zone riempibili attraverso il calcolo del volume di inerti residuo rispetto a quello accumulato, senza tuttavia adeguatamente tenere conto che il limite insuperabile degli inerti accumulabili non deve essere calcolato in termini volumetrici, bensì in altezza. Trattasi di una valutazione di merito che, giacché sorretto da motivazione giuridicamente corretta ed immune da vizi logici, esula dal perimetro del sindacato di legittimità.
2.4. Anche l’ultimo motivo di ricorso – afferente alla violazione degli artt. 113, 426 e 449 cod. pen., 125, comma 3, 192, comma 3, 187 e 533 cod. proc. pen., nonché dell’art. 6 CEDU – deve essere reputato inammissibile, giacché diretto, a fronte di una motivazione che, ancora una volta, appare logica ed esaustiva, ad ottenere valutazioni estranee al sindacato di questa Corte.
Sul punto, occorre ribadire che la Corte territoriale, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, ha correttamente evidenziato come la COGNOME sia sempre stata presente sul posto in occasione dei numerosi accessi ed ispezioni compiuti dalle diverse autorità e come ella sia stata destinataria di tutti i provvedimenti amministrativi di sgombero, sospensivi ed interdittivi, succedutisi nel tempo, per tentare di interrompere l’attività di estrazione abusiva – con una presenza,
pertanto, estesa anche alle fasi antecedenti al primo e al secondo sequestro – così ravvisandosi una chiara responsabilità a titolo di concorso nel reato a suo carico, legata all’inosservanza dei predetti provvedimenti amministrativi.
Con questi argomenti, infatti, la sentenza di secondo grado ha fatto corretta applicazione del consolidato principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di reati edilizi, la prova della responsabilità del proprietario committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dalla piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo e dall’interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto, quali, per esempio, la presenza di quest’ultimo in loco e lo svolgimento di attività di vigilanza nell’esecuzione dei lavori (ex plurimis, Sez. 3, n. 38492 del 19/05/2016, Rv. 268014). Oltre a ciò, la mancata osservanza di un provvedimento amministrativo con cui si intimi o si vieti al legale rappresentante pro tempore di una persona giuridica un certo comportamento, comporta la sua responsabilità penale per culpa in vigilando rispetto agli autori materiali della tipicità, senza che possa avere rilevanza il fatt che l’azione commessa od omessa non sia ascrivibile al comportamento del destinatario del provvedimento (ex multis, Sez. 3, n. 22791 del 02/04/2004, Rv. 228615; Sez. 3, n. 7771 del 28/05/1996).
Anche laddove si volesse accedere alla tesi difensiva della sostanziale assunzione di responsabilità da parte del Picentino, peraltro, non si potrebbe in ogni caso escludere la responsabilità penale della COGNOME atteso che, come correttamente segnalato anche dai giudici dell’appello (pagg. 20-21), il proprietario del terreno che abbia affidato ad un terzo l’esecuzione di opere edilizie sullo stesso è colposamente responsabile, nella qualità di titolare degli obblighi di sicurezza, per quel che concerne l’approntamento della zona di lavoro (ex plurimis, Sez. 4, n. 34830 del 02/07/2010, Rv. 248475; Sez. 3, n. 7209 del 25/01/2007, Rv. 235882) e, quindi, anche di una frana conseguente al mancato compimento dei necessari interventi di contenimento e di regimentazione dei lavori di scavo ed estrazione.
3: Il ricorso di COGNOME NOMECOGNOME con il quale si censurala mancata applicazione delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., è parimenti inammissibile, in quanto afferente al trattamento punitivo, che, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, appare sorretto da logica motivazione.
La decisione del giudice di secondo grado, infatti, ben rappresenta e giustifica le ragioni per cui va negato il riconoscimento del beneficio ex art. 62-bis cod. pen. all’imputato, esprimendo una motivazione priva di vizi logici e coerente con le
emergenze processuali, in quanto tale insindacabile in sede di legittimità (Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, Rv.275509-03; Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Rv. 242419). La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis cod. pen., del resto, è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in Cassazione, neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (ex multis, Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Rv. 248244).
Ebbene, nella specie, i giudici di merito hanno compiutamente motivato il diniego delle invocate circostanze (pag. 36 del provvedimento gravato) evidenziando come la protrazione dell’illecito per dieci anni, tenuta in spregio rispetto ad ogni diffida delle competenti autorità, non renda possibile alcuna riduzione della pena, non potendosi ritenere sufficienti a tal fine né l’asserito comportamento collaborativo dell’imputato – perché la strategia difensiva si è, in realtà, sempre riferita ad ammissioni di circostanze già accertate aliunde né la circostanza che la condotta concretamente tenuta dall’odierno imputato si sia perpetrata per soli tre mesi, trattandosi di deduzione ancora una volta meramente asserita e labiale, formulata senza la necessaria specificità e, dunque, troppo generica per inficiare il percorso logico della decisione.
4. Per questi motivi, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in C 3.000,00. In conseguenza della loro soccombenza, i ricorrenti devono anche essere condannati alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, da liquidarsi in ‘complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna inoltre gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa
sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Istituto Interdiocesano Sostentamento del Clero delle Diocesi di Salerno, Campagna, Acerno e dell’Abbazia territoriale “INDIRIZZO Cava dei Tirreni” (parte civile), che in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 24/10/2024.