Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 23474 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 23474 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 04/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da
COGNOME NOME nato a Casagiove il 09/09/1963
Ministero dell’Economia e delle Finanze
avverso la sentenza emessa il 20 febbraio 2024 dalla Corte d’appello di Perugia
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto da COGNOME NOME, e, quanto al ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze, per l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente ai profili di censura relativi al danno patrimoniale diretto, con rinvio per nuovo giudizio sul punto alla Corte d’Appello di Perugia e per il rigetto nel resto del ricorso.
lette le richieste del difensore della parte civile NOME COGNOME in proprio e quale legal rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, Avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto dei ricorsi;
lette le richieste dell’Avvocatura dello Stato, nell’interesse del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della
sentenza impugnata, previa la sua eventuale rimessione alle Sezioni Unite stante la particolare importanza della questione dedotta; lette le richieste del difensore dell’imputato NOME COGNOME Avv. NOME COGNOME
COGNOME che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RILEVATO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Perugia, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Perugia, ha così provveduto: ha assolto NOME COGNOME dal reato di cui al capo B) perché il fatto non sussiste; ha dichiarato non doversi procedere in ordine al reato di cui al capo C), riqualificato ai sensi dell’art. 319-quater cod. pen., perché estinto per prescrizione intervenuta prima della sentenza di primo grado; ha revocato le statuizioni civili relative ai capi B) e C); ha rideterminato la pena per il residuo reato di cui al capo D) in anni due e mesi otto di reclusione, nonché la durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici in misura pari alla pena principale; ha confermato le statuizioni civili in relazione al sol capo D), con la revoca della provvisionale già concessa in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Avvero detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME e il Ministero dell’Economia e delle Finanze (nella duplice veste di parte civile per il danno all’immagine e di responsabile civile).
Il ricorso proposto da NOME COGNOME investe il solo capo relativo alla conferma della condanna per il reato di cui al capo D), e, in particolare, i punti concernenti il giudizio di responsabilità, la qualificazione giuridica della condotta ed il diniego de sostituzione della pena detentiva con la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità. Si deducono, a tal fine, tre motivi, di seguito riassunti nei termini strettamente necessari per la motivazione.
2.1. Vizio di motivazione in ordine al giudizio di responsabilità, omessa motivazione sulle doglianze devolute nell’atto d’appello e inosservanza ed erronea applicazione del canone di giudizio dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio” di cui all’art 533, comma 1, cod. proc. pen. Si rileva, al riguardo, che la Corte di appello, omettendo di valutare le censure in merito alla attendibilità delle dichiarazioni rese dalle persona offesa Segatori, ha violato il canone di giudizio sopra richiamato. Nell’atto di appello, infatti, si erano evidenziate le contraddizioni in cui era incorso Segatori e, in particolare l’inverosimiglianza della prospettata immobilizzazione dell’azienda, rispetto alla quale la Corte territoriale ha omesso di valutare l’effettivo potere del ricorrente di variare il pia di verifiche deciso dal Comando provinciale della Guardia di Finanza. Si rileva, inoltre, che, trattandosi di una parte civile, la Corte ha fatto genericamente riferimento ai riscontri
derivanti dalle dichiarazioni degli altri imprenditori vessati, omettendo di considerare che molte di tali dichiarazioni non sono rilevanti poiché il ricorrente è stato assolto dal reat di cui al capo B), mentre il reato di cui al capo C) è stato riqualificato in quello di all’art. 319-quater cod. Pen.
2.2. Violazione di legge in relazione alla qualificazione giuridica della condotta ai sensi dell’art. 317 cod. pen. non essendo ravvisabile un abuso costrittivo quanto, piuttosto, una relazione paritetica tra la parte civile e il ricorrente, riconducibile paradigma della corruzione propria (art. 319 pen) o del reato di indebita induzione cui all’art. 319-quater cod. pen.
2.3. Violazione di legge e vizio della motivazione in ordine al diniego della sostituzione della pena detentiva con la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, fondato su una motivazione, in parte, assertiva, laddove censura la genericità della richiesta, e, in altra parte, illogica, laddove formula una prognosi di reiterazione del reat nonostante l’età del ricorrente e la sua radiazione dalla Guardia di Finanza.
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha censurato i capi relativi alla sua condanna in solido con l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile e il capo relativo alle statuizioni civili in suo favore. Sono stati dedotti quattro motiv seguito riassunti nei termini strettamente necessari per la motivazione.
3.1. Violazione degli artt. 2043, 2049 cod. civ. e 185 cod. pen. nonché vizi della motivazione in relazione alla conferma delle statuizioni civili a carico del Ministero ricorrente e dell’imputato. Si sostiene, al riguardo, che la Corte territoriale h erroneamente affermato la responsabilità civile dell’Amministrazione ricorrente per la condotta del proprio dipendente omettendo di considerare: a) la natura dolosa di tale condotta; b) la sua realizzazione in occasione dell’esercizio delle funzioni demandate, ma in totale contrasto con gli interessi della Pubblica Amministrazione; c) la finalit esclusivamente egoistica di tale condotta; d) l’adozione da parte dell’Ente di tutte le cautele possibili (formazione del dipendente, esercizio delle funzioni all’interno di un team in modo da assicurare un controllo reciproco in funzione di prevenzione di eventuali abusi), e, dunque, a fronte della astratta prevedibilità dell’abuso di potere, la non evitabilità dello stesso.
Sulla base di tali premesse, si sostiene la non imputabilità alla Pubblica Amministrazione della condotta tenuta dall’imputato in quanto, avendo costui agito per finalità personali antitetiche a quelle pubbliche, si è determinata una frattura del rapporto di immedesimazione organica. Si aggiunge, infine, che siffatta condotta non era altrimenti evitabile da parte dell’Ente, che ha adottato tutte le cautele possibili al fine di impedi l’evento.
3.2. Violazione di legge e vizio della motivazione in merito alla non applicabilità nel caso di specie dell’art. 1227 cod. civ. Si rileva, al riguardo, che, benché la volontà
della persona offesa sia stata condizionata dalla condotta concussiva dell’imputato, non essendovi un totale annullamento della sua libertà e volontà, avrebbe potuto impedire il verificarsi del danno subito rivolgendosi, secondo l’ordinaria diligenza, all’autorità giudiziaria e denunciando il fatto. Si tratta, peraltro, di una condotta esigibile, n gravosa, né eccezionale, la cui omissione consente di ravvisare una colpa della parte civile che non ha compiuto alcuna condotta idonea ad interrompere il proposito criminoso dell’imputato.
3.3. Violazione degli artt. 538, 539 e 540 cod. proc. pen. e vizi di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui, accogliendo l’appello del Ministero ricorrente, quale parte civile, ha qualificato l’istanza risarcitoria del dan patrimoniale correlato ai costi sostenuti per il risarcimento dei danni riconosciuti alle alt parti civili, quale azione di garanzia e, considerando detto danno condizionato all’esercizio di eventuali azioni di rivalsa, ha revocato la provvisionale già accordata al Ministero ricorrente. Rileva il ricorrente che, in realtà, non ha esercitato alcuna azione di garanzia, ma una mera azione risarcitoria del danno patrimoniale. Si afferma, dunque, che la fonte dell’obbligazione del COGNOME non è fondata su un rapporto di garanzia, ma sul fatto illecito ascritto e sulle conseguenze che tale fatto ha avuto sull’amministrazione.
3.4. Violazione degli artt. 2043 cod. civ. e 185 cod. pen., contrasto tra motivazione e dispositivo. Rileva il ricorrente che nell’atto di appello aveva impugnato il capo relativo alle statuizioni civili disposte in suo favore, in quanto limitato al solo danno all’immagine, ed aveva allegato di avere subito un danno patrimoniale, oltre che in relazione agli esborsi dovuti in favore delle altre parti civili, anche in relazione ad altri due profili tempo impiegato indebitamente dal dipendente in orario di servizio per attività illecite; il) gli oneri sostenuti per istruire i procedimenti e procedere agli adempimenti sia amministrativi che processuali. Nell’atto di appello si era affermato che tali profili di dann erano di difficile quantificazione e si era chiesto di demandare al giudice civile tal aspetto.
La sentenza impugnata ha accolto il motivo in merito agli esborsi in favore delle parti civili, con i limiti esposti nel precedente motivo, ma con riferimento agli altri profil danno, si è limitata a revocare la provvisionale in ragione della loro incerta quantificazione, omettendo, tuttavia di pronunciarsi sulla loro sussistenza.
4. Il Procuratore Generale, nel concludere per l’inammissibilità del ricorso di COGNOME e per il parziale rigetto del ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze, con riferimento a tale ultimo ricorso, ha rilevato: a) quanto al primo motivo, che nel caso in esame la condotta di reato è stata posta in essere dall’imputato sfruttando l’occasione offerta dall’adempimento delle sue funzioni di pubblico ufficiale e, come affermato dalle Sezioni Unite civili (si richiama la sentenza n. 13246 del 2019), l’esercizio scorretto di tal funzioni costituisce uno sviluppo non imprevedibile; b) quanto al secondo motivo, che la
Corte territoriale ha legittimamente escluso la configurabilità di concorrenti profili di colp della parte civile, versando la stessa in una posizione di soggezione nei confronti dell’autore della condotta di reato. Con riferimento, invece, al quarto motivo, il Procuratore Generale ne ha chiesto l’accoglimento in quanto la Corte territoriale, pur riconoscendo la configurabilità di profili di danno patrimoniale diretto, li ha ritenuti incerta quantificazione e nulla ha statuito nel dispositivo che contiene la sola condanna a tenere indenne il responsabile civile Ministero dell’economia e delle Finanze di quanto da esso eventualmente corrisposto alle parti civili, senza alcun riferimento agli ulteriori profi di danno patrimoniale diretto.
5. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha trasmesso una memoria di replica alle conclusioni del Procuratore Generale insistendo per la perinnetrazione del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite civili con la sentenza n. 13246 del 2019 e, in particolare, del criterio della occasionalità necessaria. Si sostiene, infatti, che un applicazione generalizzata di tale criterio determina una sostanziale illimitata assunzione di responsabilità della P.A. per il danno cagionato dal proprio dipendente trascurando che l’art. 2049 cod. civ. si riferisce al rapporto di lavoro diverso dal rapporto di immedesimazione organica che connota il rapporto con il dipendente pubblico e al rischio di impresa non applicabile alla attività della P.A. Si aggiunge, inoltre, che tale decisione sembra non tenere conto del dettato costituzionale degli artt. 81 e 97 Cost. in tema di sostenibilità del debito pubblico e degli effetti devastanti che la contestata lettur estensiva della nozione di occasionalità necessaria è destinata a produrre sulle casse era ria li.
Sulla base di tali premesse, si propone di escludere la configurabilità della “occasionalità necessaria” in quattro ipotesi-tipo:
qualora l’autore materiale non sia qualificabile come pubblico dipendente;
qualora il pubblico dipendente produca un danno con comportamenti o provvedimenti che siano espressivi di straripamento di potere (incompetenza assoluta);
qualora il dipendente produca un danno con comportamenti o provvedimenti che attengano alla sua vita privata e/o che non abbiano alcun riferimento alla sua qualifica di pubblico dipendente (es. fuori dall’orario di servizio);
qualora il dipendente, pur nell’esercizio di proprie funzioni (es. durante l’orario d servizio), agisca per finalità e motivazioni assolutamente incompatibili con le finalità istituzionali dell’ente di appartenenza, ipotesi, questa, cui dovrebbe ricondursi la fattispecie in esame, laddove il lavoratore pubblico arrechi un danno a terzi ponendo in essere un reato doloso, «in quanto la commissione di un illecito penale, soprattutto se doloso non può in nessuna occasione essere espressiva di compiti anche latu sensu istituzionali della P.A., in quanto nessuna P.A. ha tra i propri fini ex lege codificati il
delinquere, e, anzi, il sistema normativo si ispira alla repressione di tali illeciti post essere da pubblici dipendenti a tutela proprio della P.A.».
La parte civile NOME COGNOME, in proprio e quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, ha depositato una memoria in cui, nel concludere per l’inammissibilità o, in subordine, per il rigetto sia del ricorso presentato da COGNOME che di quello presentato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha rilevato che, quanto al secondo motivo di ricorso del Ministero, che la vittima del reato di concussione non è assimilabile al creditore civile con conseguente inapplicabilità dell’art. 1227 cod. civ.
L’imputato ha trasmesso una memoria in cui ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I primi due motivi del ricorso proposto da NOME COGNOME da esaminare congiuntamente in quanto tra loro logicamente connessi, sono inammissibili perché generici e meramente reiterativi delle medesime doglianze dedotte in appello.
1.1. In primo luogo, la sentenza impugnata, con argomentazioni immuni da vizi e coerenti con la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’arte, Rv. 253214), ha adeguatamente valutato la credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni rese dalla parte civile Segatori, ponendo l’accento sulla loro coerenza intrinseca ed estrinseca, in ragione della sostanziale corrispondenza del narrato e, in particolare del modus operandi dell’imputato, con quello descritto dalle altre persone offese, particolare, quest’ultimo, ritenuto significativo dalla Corte in considerazione della mancanza di alcun collegamento diretto tra le società danneggiate e/o i loro amministratori. Va, peraltro considerato, con riferimento ai rilievi critici sulle dichiarazi rese dagli altri imprenditori vessati, che le loro versioni hanno, comunque, tenuto al vaglio della Corte territoriale che, per il reato di cui al capo A), non ha accolto la richie di assoluzione dell’imputato, confermando la dichiarazione di estinzione per prescrizione, mentre, in relazione al capo C), si è limitata alla sola riqualificazione della condott criminosa ascritta ai sensi dell’art. 391-quater cod. pen. Va, infine, aggiunto che la sentenza impugnata ha considerato quale riscontro delle dichiarazioni di Segatori anche gli esiti degli accertamenti patrimoniali a carico dell’imputato, elemento, questo, completamente trascurato dal ricorrente.
Con motivazione non manifestamente illogica è stata, inoltre, valutata l’obiezione difensiva in merito alla prospettata carenza di potere dell’imputato di estendere l’ambito della verifica fiscale. La Corte territoriale, infatti, ha affermato, da un lato, che
competenza non poteva escludersi in radice, potendo l’imputato procedere a siffatta estensione sulla base di eventuali rapporti e segnalazioni, e che, comunque, l’idoneità della prospettazione andava valutata nella prospettiva della vittima e nel contesto della relazione non paritetica con il pubblico ufficiale che procedeva alla verifica fiscale a suo carico.
1.2. Altrettanto corretta è la qualificazione giuridica della condotta ascritta a ricorrente.
Va, innanzitutto, premesso che il reato di concussione richiede una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, commessa con abuso dei suoi poteri o delle sue qualità, che incida in modo significativo sulla libertà di autodeterminazione del destinatario, costringendolo alla dazione o alla promessa indebita.
Ciò che conta, ai fini della configurabilità del reato, è che l’agente pubblico si sia avvalso della posizione di preminenza sul privato per cercare di prevaricarne le scelte e le decisioni (Sez. 6, n. 24560 del 04/06/2021, COGNOME, Rv. 281350) atteso che l’avverbio “indebitamente”, utilizzato nell’art. 317 cod. pen., qualifica non già l’oggett della pretesa del pubblico ufficiale, la quale può anche non essere oggettivamente illecita, quanto le modalità della sua richiesta e della sua realizzazione (cfr. Sez. 6, n. 27444 del 01/02/2011, COGNOME, Rv. 250532).
Le Sezioni Unite hanno, infatti, chiarito che il delitto di concussione è caratterizzato, dal punto di vista oggettivo, da un abuso costrittivo del pubblico agente che si attua mediante violenza o minaccia, esplicita o implicita, di un danno contra ius da cui deriva una grave limitazione della libertà di determinazione del destinatario che, senza alcun vantaggio indebito per sé, viene posto di fronte all’alternativa di subire un danno o di evitarlo con la dazione o la promessa di una utilità indebita e si distingue dal delitto d induzione indebita, previsto dall’art. 319-quater cod. pen., la cui condotta si configura come persuasione, suggestione, inganno (sempre che quest’ultimo non si risolva in un’induzione in errore), pressione morale con più tenue valore condizionante della libertà di autodeterminazione del destinatario il quale, disponendo di più ampi margini decisionali, finisce col prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, perché motivato dalla prospettiva di conseguire un tornaconto personale, che giustifica la previsione di una sanzione a suo carico (Sez. U, n. 12228 del 24/10/2013, dep. COGNOME, Rv. 258470).
Le Sezioni Unite hanno, inoltre, perimetrato il confine tra le due modalità di realizzazione della condotta del pubblico agente chiarendo che: a) l’abuso della qualità c.d. abuso soggettivo – consiste nell’uso indebito della posizione personale rivestita dal pubblico funzionario e, quindi, nella strumentalizzazione da parte di costui non di una sua attribuzione specifica, bensì della propria qualifica soggettiva – senza alcuna correlazione con atti dell’ufficio o del servizio – così da fare sorgere nel privato rappresentazion costrittive o induttive di prestazioni non dovute; b) tale abuso della qualità, per assumere
rilievo come condotta costrittiva o induttiva (rilevante ai fini della configurabilità del r di cui all’art. 319-quater cod. pen.), deve sempre concretizzarsi in un “facere” (non è configurabile in forma omissiva) e deve avere una efficacia psicologicamente motivante per il soggetto privato che deve comunque avvertire la possibile estrinsecazione dei poteri del pubblico agente, con conseguenze per sé pregiudizievoli o anche ingiustamente favorevoli e, proprio per scongiurare le prime o assicurarsi le seconde, decide di aderire all’indebita richiesta; c) l’abuso dei poteri – c.d. abuso oggettivo – consiste invece nel strumentalizzazione da parte del pubblico agente dei poteri a lui conferiti, nel senso che questi sono esercitati in modo distorto, vale a dire per uno scopo oggettivamente diverso da quello per cui sono stati conferiti e in violazione delle regole giuridiche di legalit imparzialità e buon andamento dell’attività amministrativa; d) tale abuso può essere realizzato in forma sia commissiva che omissiva, potendo il pubblico funzionario deliberatamente astenersi dall’esercizio dei propri poteri, ricorrendo a sistemi defatigatori di ritardo o di ostruzionismo volti a conseguire la dazione o la promessa di denaro o di altra utilità in cambio del sollecito compimento dell’atto richiesto (cfr. nella successiv giurisprudenza delle Sezioni semplici: Sez. 6, n. 10604 del 12/02/2014, COGNOME, Rv. 259896; Sez. 6, n. 15742 del 20/01/2003, COGNOME, Rv. 225428).
Affinché possa configurarsi il delitto di concussione, occorre, dunque, che, attraverso tale abuso, dei poteri o delle qualità, il pubblico ufficiale, o l’incaricato d pubblico servizio, eserciti forme di pressione di tale intensità da non lasciare margine alla libertà di autodeterminazione del destinatario della pretesa illecita, che, di conseguenza, si determina alla dazione o alla promessa esclusivamente per evitare il danno minacciato.
2.1. Venendo al caso in esame, ad avviso del Collegio la Corte territoriale ha fatto buon governo di tali coordinate ermeneutiche, essendosi sottolineato che COGNOME ha aderito alla richiesta di denaro del ricorrente, non per conseguire un indebito vantaggio, ma solo per scongiurare il male da costui prospettato (l’immobilizzazione dell’azienda). In particolare, si è posto l’accento sulle dichiarazioni rese da COGNOME il quale ha riferi della sua condizione psicologica di timore, non per la verifica fiscale in sé, ma per la prospettata paralisi dell’attività aziendale.
3. Il terzo motivo è infondato.
La Corte territoriale, con motivazione non manifestamente illogica, ha negato la sostituzione della pena detentiva in considerazione della rilevanza ostativa del precedente specifico da cui è gravato l’imputato, elemento, questo, posto a fondamento della prognosi negativa in merito alla idoneità della pena sostitutiva ad assicurare la finalità rieducativa della pena e la prevenzione di ulteriori reati.
Va, peraltro, considerato che, con riferimento alla finalità preventiva, contrariamente a quanto pare sostenere il ricorrente, l’art. 58 legge n. 689/1981 non correla il giudizio prognostico alla prevenzione di reati della stessa specie di quello per
cui si procede, ma al «pericolo di commissione di altri reati», per cui appaiono non pertinenti i rilievi critici ancorati all’età del ricorrente e alla sua radiazione della Gua di Finanza.
Venendo all’esame del ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, il primo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Il ricorso, infatti, si limita ad una mera riproposizione dell’indirizzo ermeneutico disatteso dalle Sezioni Unite civili in relazione ad un caso in cui il dipendente aveva commesso il reato di peculato e, dunque, a un reato connotato dal perseguimento di un interesse incompatibile con quello della Pubblica Amministrazione.
Il Supremo Consesso, risolvendo il contrasto ermeneutico relativo proprio ai limiti della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione di appartenenza dell’agente, ha affermato che lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del suo dipendente anche quando questi abbia approfittato delle proprie attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle della amministrazione di appartenenza, purché la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi – non sarebbe stato possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviati o abusivi od illeciti, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo (Cass. Sez. U., 16/05/2019, n. 13246, Rv. 654026 ).
Tale conclusione, hanno precisato le Sezioni Unite, prescinde da ogni colpa del preponente, cosicché deve superarsi la rigida alternatività, con rapporto di mutua esclusione, fra i criteri di imputazione pubblicistico o diretto e privatistico o indiretto è, inoltre, affermato che l’art. 28 Cost. non preclude l’applicazione della normativa del codice civile, essendo volto all’esclusione dell’immunità dei funzionari per gli atti d esercizio del potere pubblico ed alla contemporanea riaffermazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione; ne consegue, pertanto, che la concorrente responsabilità della P.A. e del suo dipendente per i fatti illeciti posti in essere da quest’ultimo al di fu delle finalità istituzionali deve seguire, in difetto di deroghe normative espresse, le regol del diritto comune.
In continuità con tale principio di diritto, va, dunque, ribadito che è configurabil la responsabilità civile della pubblica amministrazione anche per le condotte delittuose del dipendente dirette a perseguire finalità esclusivamente personali, purché l’adempimento dei compiti e delle mansioni alle quali lo stesso è stato preposto costituiscano un’occasione necessaria che l’autore del reato sfrutta per il compimento degli atti penalmente illeciti (cfr. Sez. 1, n. 25158 del 03/02/2022, Rv. 283477 – 02; Sez.
3, n. 8968 del 07/11/2019, Rv. 278400). Ai fini della responsabilità civile per fatto illecito commesso dal dipendente, è, dunque, sufficiente un rapporto di occasionalità necessaria tra il fatto dannoso e le mansioni esercitate dal dipendente, rapporto che è stato adeguatamente evidenziato dalla sentenza impugnate che il motivo di ricorso non ha messo in alcun modo in discussione, limitandosi ad insistere sulla finalità egoistica della condotta dell’imputato e sulla sua inevitabilità da parte del Ministero ricorrente.
6. Il secondo motivo è infondato.
6.1. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni civili di questa Corte ilfondamento dell’art. 1227 cod. civ. va ricondotto, non già al profilo soggettivo dell’autoresponsabilità, bensì al profilo oggettivo della causalità, in quanto rispondente all’esigenza che al danneggiante non faccia carico il danno per quella parte che non è a lui causalmente imputabile, per essere stata prodotta dal fatto (appunto, concorrente) del danneggiato (così, da ultimo, Cass. civ., Sez. 3, n. 2847 del 5/2/2025, Rv. 673799, in motivazione).
In particolare, si è affermato che il requisito della colpa, pure richiesto dalla norma, va considerato, non come criterio di imputabilità del fatto illecito commesso dal danneggiato contro sé stesso, bensì «come mero (e, tuttavia, imprescindibile) requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato.»
Ai fini della riduzione del risarcimento, occorre, dunque, l’accertamento che il danno-evento sia stato in parte causato dal fatto (colposo) del danneggiato.
6.2. Applicando tali coordinate ermeneutiche alla fattispecie in esame, rileva il Collegio che dalla ricostruzione fattuale contenuta nelle due sentenze di merito non emerge alcun contributo della parte civile nella causazione del danno patrimoniale subito. Tale contributo, peraltro, non viene individuato neanche dal Ministero ricorrente, che si è limitato ad insistere sulla omessa denuncia del reato, senza, tuttavia, considerare, da un lato, che la persona offesa del reato di concussione non ha alcun obbligo di denuncia (cfr. art. 364 cod. pen.) e, dall’altro lato, lo stato di costrizione in cui versava la p civile in conseguenza della minaccia formulata dal ricorrente e delle prospettate ricadute pregiudizievoli per la sua attività.
7. Il terzo motivo è inammissibile trattandosi di un punto non impugnabile in sede di legittimità. Va, infatti, ribadito che non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (Sez. 2, n. 44859 del 17/10/2019, COGNOME, Rv. 277773 – 02).
Il quarto motivo è inammissibile in quanto privo del necessario requisito della specificità.
La sentenza impugnata ha, infatti, confermato le statuizioni civili contenute nella sentenza di primo grado che aveva condannato il Ministero ricorrente al risarcimento del danno all’immagine cagionato dall’imputato. La Corte territoriale, inoltre, accogliendo l’appello del Ministero, ha condannato l’imputato a tenere indenne il ricorrente da quanto eventualmente corrisposto in favore della parte civile Segatori.
In buona sostanza, la sentenza impugnata ha accolto le istanze risarcitorie del Ministero in relazione alle voci di danno per cui ha ritenuto sussistente un principio di prova, sia pure non comprensivo anche della loro quantificazione.
Rispetto a tale decisione, il ricorrente lamenta l’omessa considerazione di ulteriori voci di danno, formulando, tuttavia, delle doglianze aspecifiche e di carattere meramente assertivo. Si tratta, peraltro, della medesima generica doglianza che era stato formulata con l’atto di appello in cui, pur indicandosi le ulteriori voci di danno patrimoniale riporta nel motivo in esame, si ometteva di allegare le specifiche circostanze fattuali idonee a dare concretezza alla pretesa risarcitoria, avuto riguardo, ad esempio, alla eventuale sostituzione dell’imputato con altro dipendente per svolgere le mansioni rimaste inadempiute in correlazione con la commissione della concotta criminosa, o all’effettivo avvio dei procedimenti interni, alla data di inizio e fine degli stessi ed ai costi sostenut
Stante la assoluta aspecificità del motivo dedotto, il suo mancato esame da parte della Corte di appello non può comportare l’annullamento della sentenza, trattandosi di una censura insuscettibile di accoglimento (cfr. Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, COGNOME, Rv. 263980).
Sulla base di quanto sopra esposto, vanno, dunque, rigettati sia il ricorso proposto da COGNOME che quello proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Stante la soccombenza del Ministero anche in relazione al capo relativo alle statuizioni civili in favore di COGNOME, lo stesso va condannato, in solido con COGNOME, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile COGNOME NOME, che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso proposto da COGNOME Giuseppe e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Rigetta, altresì, il ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre, l’imputato e il responsabile civile Ministero dell’Economia e delle
Finanze, in solido tra loro, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile COGNOME NOME, che liquida in complessivi euro
quattromila, oltre accessori di legge.
Così deciso il 4 aprile 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente