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Responsabilità amministratore prestanome: la Cassazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4207/2024, conferma la responsabilità amministratore prestanome per reati tributari. Un soggetto, condannato per omessa dichiarazione fiscale, ha proposto ricorso sostenendo di essere un mero prestanome inconsapevole. La Corte ha rigettato il ricorso, affermando che l’accettazione della carica di amministratore, anche se solo formale, comporta doveri di vigilanza e controllo non delegabili, rendendo il soggetto responsabile del reato di evasione fiscale.

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Pubblicato il 28 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Responsabilità amministratore prestanome: Essere ‘testa di legno’ non salva dal carcere

Recentemente, la Corte di Cassazione ha emesso una sentenza fondamentale sulla responsabilità amministratore prestanome in materia di reati tributari. Con la decisione n. 4207 del 2024, i giudici hanno ribadito un principio cruciale: accettare formalmente la carica di amministratore di una società comporta doveri e responsabilità penali che non possono essere elusi, neanche sostenendo di essere una semplice ‘testa di legno’ all’oscuro delle operazioni societarie.

I fatti di causa

Il caso ha origine dalla condanna di un individuo per il reato di omessa dichiarazione dei redditi e dei tributi di una società a responsabilità limitata di cui risultava essere l’amministratore di diritto. La Corte di Appello di Genova aveva confermato la sua responsabilità, pur riducendo la pena.
L’imputato ha quindi presentato ricorso in Cassazione, basando la sua difesa su un punto centrale: egli era un mero prestanome, del tutto inconsapevole della sua nomina e del ruolo, tanto che le firme sui documenti contabili e societari erano state falsificate. A suo dire, non poteva quindi essergli attribuita la responsabilità per le omissioni fiscali della società.

I motivi del ricorso: una difesa a tutto campo

La difesa ha articolato il ricorso in quattro motivi principali:
1. Vizio di motivazione: La Corte d’Appello avrebbe ignorato le prove della falsità (apocrifia) delle firme, un elemento che, secondo la difesa, dimostrava la totale estraneità dell’imputato alla gestione societaria.
2. Violazione di legge sul dolo: Si contestava la valutazione dell’elemento soggettivo. Per il reato di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. 74/2000) è richiesto il dolo specifico di evasione, ovvero l’intenzione precisa di non pagare le imposte. La difesa sosteneva che la Corte avesse erroneamente ritenuto sufficiente un dolo eventuale.
3. Diniego della sospensione condizionale: L’imputato lamentava il mancato riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena, motivato dalla Corte sulla base di un precedente penale, a dire della difesa ormai estinto e risalente nel tempo.
4. Diniego delle pene sostitutive: Infine, si contestava il rifiuto di applicare pene alternative al carcere, come il lavoro di pubblica utilità, ritenendo la motivazione carente.

L’analisi della Corte sulla responsabilità amministratore prestanome

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibili tutti i motivi del ricorso, fornendo chiarimenti essenziali sulla responsabilità amministratore prestanome.

L’accettazione della carica e i doveri di vigilanza

Il punto cardine della decisione è che la semplice accettazione della carica di amministratore, anche se si è un mero prestanome, attribuisce al soggetto precisi doveri di vigilanza e controllo. L’amministratore di diritto è il primo destinatario degli obblighi fiscali previsti dalla legge, come la presentazione della dichiarazione dei redditi. Non può sottrarsi a questa responsabilità affermando di non essere il gestore di fatto.
La Corte ha specificato che la responsabilità penale non deriva da una generica posizione di garanzia (art. 40 c.p.), ma dalla violazione di un obbligo di legge che grava direttamente su chi ricopre la carica. Accettare di fare da prestanome significa, per la giurisprudenza, accettare il rischio che dalla propria omissione di controllo derivino eventi penalmente rilevanti, come l’evasione fiscale.

La prova del dolo specifico

Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, la Corte ha ritenuto che il dolo specifico di evasione fosse stato correttamente desunto dai giudici di merito da una serie di elementi concreti: la consapevolezza del ruolo ricoperto, l’evidente illegalità dell’attività svolta dalla società, la mancata presentazione di una querela contro chi avrebbe falsificato le firme e la conoscenza degli accertamenti fiscali in corso. La reiterazione dell’omissione e il complesso dei rapporti tra amministratore di diritto e di fatto sono stati considerati prove sufficienti della volontà di evadere le imposte.

La valutazione dei precedenti penali

Infine, la Corte ha confermato la legittimità del diniego sia della sospensione condizionale della pena sia delle pene sostitutive. I giudici hanno chiarito che, ai fini di una prognosi sulla futura condotta del reo, un precedente penale è sempre valutabile, anche se il reato è estinto. La decisione di negare i benefici è stata considerata correttamente motivata sulla base del precedente specifico e della gravità del reato commesso.

Le motivazioni

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile in quanto le censure sollevate miravano a una rivalutazione del merito dei fatti, attività preclusa nel giudizio di legittimità. La sentenza impugnata è stata giudicata logica e coerente. I giudici hanno ribadito che l’amministratore di diritto di una società è gravato dall’obbligo di presentare le dichiarazioni fiscali. L’accettazione della carica, anche come semplice ‘prestanome’, comporta l’assunzione di doveri di vigilanza e controllo. Il mancato rispetto di tali doveri fonda la responsabilità penale per i reati tributari, potendosi configurare il dolo specifico di evasione anche sulla base della consapevolezza di partecipare a un’operazione illecita e dell’accettazione del rischio che ne derivino violazioni fiscali. La Corte ha inoltre confermato che il diniego dei benefici penali era stato adeguatamente motivato in base alla gravità del reato e a un precedente penale dell’imputato, valutabile anche se estinto.

Le conclusioni

La sentenza n. 4207/2024 consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso: la responsabilità amministratore prestanome è piena e diretta. Chi accetta di figurare formalmente al vertice di una società non può poi chiamarsi fuori quando emergono illeciti, specialmente in ambito fiscale. Questa decisione serve da monito: le cariche formali non sono prive di contenuto e comportano oneri e responsabilità da cui è impossibile sfuggire.

Un amministratore ‘prestanome’ può essere ritenuto responsabile per i reati fiscali della società?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, la semplice accettazione della carica di amministratore, anche se solo formale, attribuisce doveri di vigilanza e controllo. L’amministratore di diritto è il diretto destinatario degli obblighi fiscali e risponde penalmente della loro violazione, come l’omessa dichiarazione.

Quale tipo di dolo è necessario per il reato di omessa dichiarazione fiscale?
È necessario il ‘dolo specifico’, ovvero l’intenzione non solo di omettere la dichiarazione, ma di farlo con il fine specifico di evadere le imposte. La Corte ha chiarito che questa intenzione può essere provata anche attraverso elementi indiretti, come la macroscopica illegalità dell’attività sociale e la consapevolezza del proprio ruolo, anche se passivo.

Un precedente penale, anche se il reato è estinto, può impedire la concessione di benefici come la sospensione condizionale della pena?
Sì. La Corte ha stabilito che, ai fini della valutazione per la concessione di benefici, il giudice può tenere conto di precedenti penali anche se il relativo reato è stato dichiarato estinto. Tale precedente costituisce un elemento valido per formulare una prognosi negativa sulla futura condotta del condannato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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