Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 3196 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 3196 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/09/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a SOLETO il DATA_NASCITA NOME COGNOME NOME nato a CASARANO il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a SOLETO il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a SOLETO il DATA_NASCITA RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza del 20/04/2022 della CORTE APPELLO di LECCE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo
Il Proc. Gen. conclude per il rigetto per i ricorsi degli imputati e per la società RAGIONE_SOCIALE; per la società RAGIONE_SOCIALE conclude per l’annullamento senza rinvio della sentenza di I e II grado con trasmissione atti al PM per una nuova azione penale.
udito il difensore L’avvocato COGNOME NOME COGNOME si riporta ai motivi di ricorso e ai motivi nuovi depositati e insiste per l’annullamento della sentenza impugnata. L’avvocato NOME COGNOME si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l’accoglimento. L’avvocato COGNOME NOME COGNOME insiste per l’accoglimento del ricorso. L’avvocato NOME COGNOME si riporta ai motivi anche alla luce della relazione del PG.
L’avvocato AVV_NOTAIO COGNOME si riporta ai motivi di ricorso e insiste per l’accoglimento degli stessi.
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Lecce, in data 16.7.2018, aveva condannato, tra gli altri, NOME NOME, NOME NOME, NOME. COGNOME NOME, “RAGIONE_SOCIALE“; “RAGIONE_SOCIALE“, alle pene e alle sanzioni amministrative ritenute di giustizia, in relazione ai reati e agli illeciti amministrativi a essi rispettivamente ascritti, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato, in favore della costituita parte civile, Amministrazione comunale di Soleto, assolveva NOME, NOME. COGNOME NOME dal reato ex art. 640 bis, c.p., di cui al capo 3), e la società “RAGIONE_SOCIALE, dall’illecito amministrativo di cui al capo A), perché il fatto non sussiste; dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME, NOME. COGNOME NOME, in ordine ai reati loro contestati ai capi 3), limitatamente al fatto di cui all’art. 483, c.p., 6), 7), 8), 9), perché estinti per prescrizione; rideterminava in senso più favorevole agli imputati COGNOME, COGNOME, COGNOME ed “RAGIONE_SOCIALE“, l’entità del trattamento sanzionatorio, eliminava le statuizioni di confisca nei confronti di COGNOME, COGNOME e COGNOME, confermando, nel resto, la sentenza impugnata.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione i suddetti imputati, con autonomi atti di impugnazione.
2.1. In particolare NOME NOME, quale rappresentante della ditta “RAGIONE_SOCIALE” e della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“, nel ricorso a firma degli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, lamenta: 1) violazione di legge processuale e vizio di motivazione, in punto di inutilizzabilità dei risultati di tutte le intercettazioni, telefoniche e ambientali, disposte nell’ambito del procedimento a suo carico, iscritto prima del 31.8.2020, in relazione al quale, dunque, trova applicazione la formulazione dell’art. 270, c.p.p., prima della modifica apportata dalla I. n. 7 del 2020. Rileva il ricorrente che, in applicazione dei principi affermati dalla nota sentenza delle Sezioni Unite Cavallo, i risultati delle
menzionate intercettazioni, posti dal giudice di primo grado a fondamento della condanna del ricorrente, confermata in appello, per il reato ex art. 476, co. 2, c.p., di cui al capo 5) e per tutti gli altri reati (ex artt. 640 bis, 319, 321, 323, c.p.) per i quali, invece, è intervenuta in appello dichiarazione di non doversi procedere per decorso del relativo termine di prescrizione, appaiono inutilizzabili. Ciò in quanto tra tali reati e quelli ex artt. 256 e 260, d.lgs. n. 152 del 2006, sulla base dei quali si fonda il decreto genetico di autorizzazione delle intercettazioni n. 20/2011, relativo a una notizia di reato, derivante da un fatto storicamente diverso da quelli per i quali i giudici di merito hanno pronunciato le sentenze di condanna, non sussiste quel rapporto di connessione qualificata ex art. 12, co. 1 lett. b), c.p.p., individuato dalla corte territoriale con motivazione del tutto carente, che solo potrebbe giustificare la deroga al divieto di utilizzabilità fissato dall’art. 270, c.p.p.; 2) l’inutilizzabilità per violazione di legge, con riferimento ai reati ex artt. 483, c.p., di cui al capo 3), e 481, c.p., cosi riqualificato dal tribunale il reato ex art. 476, c.p., di cui al capo 7), dei risultati delle disposte intercettazioni, in quanto per tali reati l’art. 266, c.p.p., non ammette l’uso delle captazioni; 3) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento all’affermazione di responsabilità dell’NOME per il reato di cui all’art. 476, co. 2, c.p., di cui al capo 5), consistente nell’avere l’RAGIONE_SOCIALE, unitamente alla sorella NOME, addetta all’ufficio protocollo del comune di Soleto, NOME COGNOME, progettista dell’impianto, e COGNOME NOME, dipendente dell’NOME, apposto una falsa data di ricezione con timbro di protocollo n. 255 del 12.1.2011 sul progetto esecutivo dell’impianto fotovoltaico, denominato “RAGIONE_SOCIALE NOME“, operazione posta in essere, secondo l’assunto accusatorio, al fine di sostituire l’elaborato inizialmente depositato nel 2009 con altro idoneo a ottenere l’incentivo del G.S.E. . Ad avviso del ricorrente la corte territoriale ha violato la regola di giudizio, di cui all’art. 192, co. 2, c.p.p., in quanto ha posto a base della sua decisione esclusivamente la circostanza del tardivo rinvenimento, in data 6.4.2011, del suddetto progetto dotato del richiamato timbro di
protocollo, negli uffici della parte interessata all’esecuzione dell’impianto e, di lì a poco, presso l’ufficio tecnico del comune di Soleto, in mancanza di ulteriori indizi gravi, precisi e concordanti, senza tacere che la corte territoriale ha omesso di considerare uno specifico motivo di appello, al quale non è stata data risposta, con cui l’imputato aveva sollevato la questione della effettiva esistenza del progetto esecutivo rinvenuto “tardivamente” all’interno della pratica del parco “RAGIONE_SOCIALE NOME” presso gli uffici del comune di Soleto e, in caso di risposta affermativa, se quest’ultimo fosse del tutto sovrapponibile alla copia di cui si assume la falsità del timbro di ricezione.
In punto di inadeguata valutazione delle risultanze processuali, il ricorrente lamenta che la corte territoriale non si è confrontata con il contenuto di due conversazioni telefoniche intercettate, comprovanti l’assoluta estraneità dell’NOME ai fatti in contestazione, mentre ha valorizzato oltremodo il contenuto della conversazione ambientale n. 971 del 9.4.2011, smentita dalle dichiarazioni del teste COGNOME NOME e della stessa coimputata NOME NOME, che hanno spiegato il funzionamento del sistema di protocollazione; 4) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al reato ex art. 640 bis, di cui al capo 9), commesso in danno della “RAGIONE_SOCIALE“, per avere indebitamente goduto di una tariffa incentivante, pur essendo stato illegittimamente realizzato l’impianto fotovoltaico di cui si discute, in quanto, da un lato, essendo l’affermazione di responsabilità per tale reato fondata sulla ritenuta sussistenza dei fatti di cui ai capi 5), 6), 7) e 8), ritenuti strumentali all’esecuzione della truffa aggravata in danno della RAGIONE_SOCIALE, l’estraneità dell’NOME a tali reati, come rilevato dall’appellante, senza che sul punto la corte territoriale abbia fornito risposta alcuna, implica che egli non possa rispondere anche del reato di cui al capo 9), e, comunque, anche in questo caso deve ribadirsi l’inutilizzabilità delle disposte intercettazioni per violazione del divieto, di cui all’art. 270, c.p.p.; dall’altro, l’impianto fotovoltaico RAGIONE_SOCIALE NOME, a differenza di quanto ritenuto dalla corte territoriale, era del tutto conforme alla normativa di settore e, in particolare a quanto previsto
dall’abrogata legge regionale n. 1 del 2008 e alla successiva legge regionale n. 31 del 2008, risultando, comunque, al momento della domanda inviata al RAGIONE_SOCIALE.E. per ottenere il riconoscimento degli incentivi economici, pienamente conforme alla normativa di settore, nonché allo strumento urbanistico del comune di Soleto, posto che, tra l’altro: a) non era coretto l’assunto accusatorio secondo cui la DIA n. 77/08 presentata per la realizzazione del suddetto impianto si fosse perfezionata solo con l’autorizzazione paesaggistica (non necessaria) conseguita il 27.1.2009 e non il 28.8.2008, decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della DIA presso il comune di Soleto (29.7.2008); b) l’area asservita era estesa almeno il doppio della superficie radiante;
residuava una porzione di superficie destinata ad uso agricolo superiore al 50% di quella complessiva
2.2 NOME NOME, addetta all’ufficio protocollo del comune di Soleto, nel ricorso a firma del difensore AVV_NOTAIO, in relazione al reato ex art. 476, co. 2, c.p., contestatole al capo 5), di cui si è già fatto cenno in ordine alla posizione del fratello NOME NOME, deduce: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento ai principi di valutazione della prova indiziaria sanciti dall’art. 192, co. 2, c.p.p., reiterando le doglianze articolate al riguardo sul punto dal coimputato, rilevando come la corte di appello, da un lato, non abbia dimostrato che sia stata proprio lei ad apporre materialmente il timbro NUMERO_DOCUMENTO del 12.1.2011; dall’altro non ha fornito risposta al quesito posto dall’appellante sulla natura dell’atto di cui si assume la falsità, profilo invero decisivo, ad avviso della ricorrente, in quanto l’apposizione di una data e numero di protocollo già esistente sulla mera copia di un atto antecedente già protocollato non può costituire attività certificativa del pubblico ufficiale, per cui, non avendo tale documento valore di atto pubblico, non può integrare l’esistenza del reato di cui si discute. Su questo profilo la corte territoriale tace, per cui non è dato comprendere se la contestata apposizione sia da considerare un semplice completamento a corredo della pratica già esistente o se modificasse, ed eventualmente in che modo, i dati inseriti nella pratica già esistente.
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Sempre con il primo motivo di ricorso, la ricorrente reitera le medesime doglianze articolate da COGNOME NOME in punto di valutazione di alcune risultanze processuali; 2) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e di determinazione dell’entità del trattamento sanzionatorio.
2.3. NOME COGNOME, nel ricorso a firma degli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOMENOME COGNOME, lamenta: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di utilizzabilità delle disposte intercettazioni negli stessi termini rappresentati nel primo motivo del ricorso di NOME NOME; 2) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento all’affermazione di responsabilità del COGNOME per il reato di cui all’art. 476, co. 2, c.p., di cui al capo 5), consistente nell’avere, unitamente ad NOME, incaricato le dipendenti COGNOME e tale NOME, non identificata, di depositare direttamente presso l’NOME NOME, il progetto esecutivo dell’impianto fotovoltaico, denominato “RAGIONE_SOCIALE“, sul quale quest’ultima doveva apporre la falsa data di ricezione con timbro di protocollo n. 255 del 12.1.2011. Ad avviso del ricorrente non solo non vi è alcuna prova che il NOME abbia incaricato le due dipendenti della “RAGIONE_SOCIALE” di quanto indicato, ma la stessa corte territoriale ha espressamente affermato che fu il solo NOME a impartire il relativo ordine, deducendo, sul piano logico, la colpevolezza del COGNOME, sul presupposto che, trattandosi di falsa protocollazione di elaborati tecnici, egli, in funzione delle sue specifiche competenze di ingegnere tecnico progettista, non poteva essere estraneo all’illecito, con una motivazione, rileva l’imputato, carente, manifestamente illogica e contraddittoria, oltre che resa in violazione del principio di correlazione tra l’imputazione e la sentenza di cui all’art. 521, c.p.p., in quanto il fatto indicato nel capo d’imputazione (avere conferito il menzionato incarico alle due dipendenti) risulta commesso dal solo COGNOME, mentre il COGNOME è stato condannato per un fatto diverso, rappresentato dalla probabile conoscenza dei fatti sol perché tecnico progettista.
2.4. COGNOME NOME, nel ricorso a firma dei difensori, avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, lamenta: 1) violazione di legge e
vizio di COGNOME motivazione COGNOME in COGNOME punto di COGNOME utilizzabilità delle disposte intercettazioni negli stessi termini rappresentati nel primo motivo del ricorso di COGNOME NOME; 2) vizio di motivazione, con riferimento al reato di cui all’art. 483, c.p., capo 3), dichiarato estinto per prescrizione con motivazione del tutto apparente, in quanto la corte territoriale avrebbe dovuto pronunciare una sentenza di proscioglimento nel merito per inoffensività della condotta di falso, posto che, sulla base del contenuto delle stesse intercettazioni di cui si contesta l’utilizzabilità, si desume l’inutilità del falso perpetrato nell’indicare le date di acquisto, consegna, trasporto e installazione dei pannelli fotovoltaici riportate nei 29 D.D.T. consegnati alla G.S.E, che, pur essendo stati emessi dopo la consegna della merce, avvenuta comunque successivamente al 31 dicembre 2010, riportavano dati veritieri; 3) vizio di motivazione, con rifermento al reato ex art. 476, co. 2, c.p., di cui al capo 5), stante l’insussistenza della fattispecie di falso nella sua materialità, in specie per l’inutilità della condotta falsificatoria posta in essere, in relazione alla quale la corte territoriale si è soffermata solo sul profilo dell’elemento soggettivo del reato, omettendo di motivare sul rilievo difensivo volto a evidenziare come l’operazione di retrodatazione della protocollazione sia risultata talmente grossolana da non avere messo in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, ossia la fede pubblica.
In particolare, rileva la ricorrente, il documento portato dalla COGNOME al comune di Soleto era stato originariamente sostituito perché l’COGNOME e il COGNOME si erano resi conto di avere commesso delle imprecisioni nella predisposizione della nuova planimetria depositata; ma soprattutto si è trattato di una falsificazione grossolana, come emerge dalle dichiarazioni rese in dibattimento dal maresciallo COGNOME, atteso che gli imputati, nell’operare la sostituzione del progetto relativo all’adeguamento planimetrico e ubicazione delle cabine del “Parco RAGIONE_SOCIALE NOME” non si resero neppure conto che in data 22.5.2009 il comune di Soleto aveva già inviato alla Regione Puglia la documentazione relativa all’autorizzazione COGNOME paesaggistica, allegando quella originaria, COGNOME poi sostituita.
2.5. La società “RAGIONE_SOCIALE“, cui è stata contesto l’illecito amministrativo previsto dagli artt. 5, co. 1, lett. a), 6 e 24, co. 2, d.lgs. n. 231 del 2001, di cui al capo D), per i fatti commessi nel suo interesse e vantaggio da NOME COGNOME, in qualità di amministratore di fatto in relazione a tutte le condotte contestate nel capo 9), tra le quali è ricompreso il delitto di cui all’art. 640 bis, c.p. e quello di falso di cui al capo 5), nel ricorso a firma dei difensori, avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME, lamenta: 1) violazione di legge e vizio di motivazione sull’esistenza dei reati presupposti ex art. 640 bis, c.p., commesso in danno del G.E.S., di cui difettano gli elementi costitutivi, posto che l’impianto fotovoltaico è stato legittimamente eseguito sulla base della DIA n. 77 del 29.7.2008, valida ed efficace perché già consolidata alla data di entrata in vigore della legge della Regione Puglia 31/2008, mentre, con riferimento alla falsa protocollazione, si tratta di una mera deduzione della corte territoriale, fondata sul contenuto di una conversazione intercettata in cui si fa riferimento alla disponibilità, da parte dell’NOME NOME, di qualche protocollo libero, che, tuttavia, risulta smentito dalle dichiarazioni del teste COGNOME, ritenuto dalla corte territoriale non credibile con motivazione apodittica, senza tacere che è la stessa corte ad ammettere la carenza di prova circa l’avvenuta distruzione della documentazione.
Rileva, inoltre, la società ricorrente, con riferimento alle asserite difformità dell’impianto realizzato rispetto a quanto autorizzato con la D.I.A., che esse sono state sanate all’esito dell’ordinanza del tribunale del riesame di Lecce del 23.11.2011, e che, in ogni caso, sarebbero punibili solo a titolo di illecito amministrativo, ai sensi dell’art. 37, d.P.R. 380/2001, senza tacere che in ogni caso le condotte di falso, intervenute nel 2011, appaiono del tutto irrilevanti, posto che l’impianto accusatorio si fonda sull’affermata illegittimità dell’intervento edilizio per assenza di un titolo abilitativo valido ed efficace, che, invece, come si è detto, risulta emesso nel 2008; 2) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza degli elementi costituitivi dell’illecito amministrativo di cui si discute, sotto un triplice profilo.
Da un lato, non risulta dimostrato che l’NOME fosse amministratore di fatto della società, alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità al riguardo.
Dall’altro, difetta il requisito della colpa di organizzazione: se è vero, infatti, che la società non si era dotata di alcun modello di organizzazione, gestione e controllo, è altrettanto vero che sì sarebbe dovuto dimostrare che, ove si fosse adottato il migliore modello organizzativo possibile, il reato non sarebbe stato commesso, circostanza non riscontrabile nel caso in esame, posto che quando la società ricorrente acquistò l’impianto, per poi formulare al RAGIONE_SOCIALE la richiesta del contributo incentivante, l’impianto era già stato completato del tutto legittimamente dalla società venditrice, la “RAGIONE_SOCIALE“, sicché anche in presenza di un modello idoneo, il comportamento da porre in essere al tempo da parte del legale responsabile della società, estraneo al processo, sarebbe stato il medesimo di quello in contestazione.
Infine risulta del tutto omessa la motivazione sul punto relativo a quale sarebbe stato l’interesse e il vantaggio tratto dalla società ricorrente dal comportamento dell’NOME; 3) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione ai criteri adottati per individuare l’entità della sanzione pecuniaria applicata e le sanzioni interdittive irrogate.
Conseguenza dell’accoglimento del ricorso, evidenzia la ricorrente, è la revoca della disposta confisca del profitto del reato.
2.6. La curatela del Fallimento della società “RAGIONE_SOCIALE” (incorporante della “RAGIONE_SOCIALE“), condannata per l’illecito amministrativo di cui al capo C), in relazione al reato presupposto ex artt. 319 e 321, c.p., di cui al capo 8), contestati ad COGNOME NOME e a COGNOME NOME, nel ricorso a firma del difensore, avvocato AVV_NOTAIO, lamenta: 1) violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la corte territoriale non ha accolto l’eccezione volta a far valere la nullità di tutti gli atti del processo, quanto meno sino all’udienza del 3.4.2017, nullità in ogni caso rilevabile d’ufficio, derivante dalla violazione dell’art. 39, d.lgs. n. 231 del 2001, come interpretato dalla
sentenza delle Sezioni Unite Penali n. 33041 del 28.5.2015 (“Gabrielloni”), secondo cui, stante l’incompatibilità del legale rappresentante dell’ente a rappresentare l’ente medesimo nel procedimento a suo carico, sin dalla fase delle indagini preliminari, qualora egli sia contestualmente imputato o indagato per il reato presupposto della responsabilità ascritta alla persona giuridica, come nel caso in esame l’NOME, anche la semplice nomina del difensore di fiducia della persona giuridica da parte del rappresentante legale in conflitto di interessi deve considerarsi ricompresa nel divieto, di cui al citato art. 39, in quanto realizzata da un soggetto che non è legittimato a rappresentare l’ente.
Al riguardo, osserva la ricorrente, che, a seguito del sequestro preventivo disposto dal G.I.P. in data 4.7.2013, nei confronti della “RAGIONE_SOCIALE“, il cui legale responsabile all’epoca era NOME, indagato nel medesimo procedimento, la società aveva nominato quale proprio difensore di fiducia l’AVV_NOTAIO, il quale risultava, al contempo, anche difensore di fiducia dello stesso indagato, come da nomina effettuata da quest’ultimo in data 14.7.2013, venendo eliminata la suddetta incompatibilità solo all’udienza dibattimentale del 3.4.2017, attraverso la rinuncia al mandato da parte del difensore della società “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva incorporato la “RAGIONE_SOCIALE“.
La corte territoriale, che ha equivocato il significato della dedotta eccezione, confondendo il tema dell’incompatibilità del medesimo difensore a rappresentare sia l’ente sia l’imputato, con quello dell’incompatibilità dell’amministratore indagato o imputato a nominare il difensore dell’ente, avrebbe dovuto dichiarare l’inefficacia dell’atto di costituzione in giudizio dell’ente e la nomina del difensore di fiducia, con la conseguenza che gli atti compiuti in nome dell’ente medesimo devono ritenersi inefficaci e comunque nulli; 2) violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto la corte territoriale, non facendo buon governo dei principi elaborati sul punto dalla giurisprudenza di legittimità, premesso che la “RAGIONE_SOCIALE“, società incorporante della “RAGIONE_SOCIALE“, era stata posta in liquidazione in data 14.7.2015,
successivamente cancellata dal Registro delle Imprese in data 27.1.2016 e, infine, dichiarata fallita il 13.1.2017, ai sensi dell’art. 10, I.fall., ha omesso di considerare che la suddetta società deve considerarsi estinta, ai sensi dell’art. 2945, co. 2, c.c., in conseguenza della cancellazione, intervenuta prima della dichiarazione di fallimento, che, avendo determinato la cessazione dell’esistenza della società, equiparabile alla morte dell’imputato persona fisica, ha prodotto anche l’estinzione, ex art. 129, c.p.p., dell’illecito amministrativo e la conseguente improcedibilità dell’azione penale; 3) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento all’illecito di cui al capo A) (dal quale la “RAGIONE_SOCIALE” è stata assolta dalla corte di appello) e all’illecito di cui al capo C), in relazione al reato di cui al capo 8) (corruzione del responsabile dell’UTC del comune di Soleto da parte di NOME NOME).
Con riferimento alla prima fattispecie, in relazione alla quale i reati presupposti sono quelli di cui agli artt. 640 bis e 483, c.p., riguardanti l’impianto fotovoltaico San Giuliano, la ricorrente osserva che la corte territoriale avrebbe dovuto pronunciare sentenza di assoluzione anche per il delitto di falso, (dichiarato, invece estinto per prescrizione), non solo per il delitto di truffa aggravata, alla luce della sentenza della corte di appello di Milano, passata in giudicato, intervenuta per i medesimi fatti, presa in considerazione dalla stessa corte territoriale.
In ordine alla seconda fattispecie, invece, la ricorrente eccepisce che la corte territoriale non ha dimostrato, da un lato, la colpa di organizzazione, vale a dire che in presenza del modello organizzativo, di cui la “RAGIONE_SOCIALE” non era dotata, il reato di corruzione non sarebbe stato commesso; dall’altro, quale sia stato l’effettivo vantaggio perseguito dalla suddetta società rispetto al reato presupposto, profilo che entrambi i giudici di merito affrontano con motivazione insufficiente, in quanto fondata su mere presunzioni e formule generiche, senza tacere che, a differenza di quanto affermato dalla corte territoriale, la sussistenza del reato presupposto è stata contestata dalla “RAGIONE_SOCIALE” e dagli imputati COGNOME e COGNOME NOME, con effetto
estensivo nei confronti della menzionata società, ai sensi dell’art. 587, c.p.p.
Osserva, inoltre, la ricorrente che, non avendo la “RAGIONE_SOCIALE” conseguito nessun vantaggio essendo destinata a essere assorbita da altra società del gruppo e, poi, a essere liquidata, essa deve ritenersi del tutto estranea all’illecita operazione, non essendo emerso in alcun modo che le condotte contestate in concorso all’COGNOME e allo COGNOME siano state poste in essere per favorire l’anzidetta società e non, piuttosto, altre società del gruppo; 4) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento agli artt. 323, c.p.p, in quanto la corte territoriale ha omesso di considerare che l’intervenuta assoluzione della società dall’illecito amministrativo di cui al capo A, relativo al reato presupposto di cui al capo 3), ha determinato il caducarsi di ogni misura cautelare con finalità di confisca disposta in danno della “RAGIONE_SOCIALE“, con particolare riferimento alla RAGIONE_SOCIALE di euro 46.343,00; 5) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione ai criteri adottati per individuare l’entità della sanzione pecuniaria applicata e le sanzioni interdittive irrogate.
Con motivi nuovi del 17.7.2023 i difensori di fiducia dell'”RAGIONE_SOCIALE” insistono per l’annullamento della sentenza impugnata.
Con motivi nuovi del 17.7.2023 il difensore di fiducia dell’COGNOME NOME e della COGNOME eccepisce l’inutilizzabilità delle disposte intercettazioni in relazione al reato di cui all’art. 640 bis, c.p., di cui al capo 9), perché non consentite per tale fattispecie.
Con motivi nuovi del 19.8.2023 il difensore di fiducia di NOME NOME insiste per l’annullamento della sentenza impugnata, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato ex art. 476, co. 2, c.p.
La sentenza impugnata va annullata per le ragioni che saranno esposte in prosieguo, essendo fondati, sia i ricorsi proposti nell’interesse di NOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, seppure parzialmente, sia i ricorsi proposti nell’interesse della
società “RAGIONE_SOCIALE” e della curatela del fallimento della società “RAGIONE_SOCIALE“.
4. Al fine di una migliore comprensione dei motivi di ricorso e, in particolare, delle doglianze sintetizzate nelle pagine che precedono sub numeri 1) e 2) per NOME; 1) per NOME e 1) per la COGNOME, va evidenziato che il processo nei confronti dei ricorrenti trae origine da intercettazioni disposte in un procedimento sorto a carico di NOME per un reato in materia ambientale.
Sul punto la corte territoriale, nel replicare al rilievo sull’inutilizzabilità delle intercettazioni disposte nel presente procedimento avanzato in maniera specifica attraverso memorie dalle difese di COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, ha riconosciuto la correttezza dell’assunto difensivo “secondo cui le intercettazioni sono state avviate in relazione all’ipotesi di reato di cui all’art. 260 D.Igs. n. 152/06 (per tale fattispecie criminosa di cui al capo 2 il tribunale è pervenuto a una sentenza di n.d.p. per estinzione del reato) che ha interessato NOME COGNOME ed altri soggetti”.
Il giudice di appello osservava, inoltre, che l’indagine, partita a seguito della scoperta “di un significativo quantitativo di rifiuti affioranti in prossimità dell’impianto fotovoltaico Parco NOME installato su terreni di proprietà di NOME COGNOME“, si era poi estesa, sino a ricomprendere “altri parchi riferibili a impianti fotovoltaici riconducibili alla RAGIONE_SOCIALE, società che faceva capo all’RAGIONE_SOCIALE, operativa nel settore”
Su questi presupposti, pertanto, la corte territoriale aveva ravvisato l’esistenza di un unico disegno criminoso “tra tutti i fatti di reato ascrivibili a NOME COGNOME e riconducibili alla sua attività imprenditoriale di installazione di parchi fotovoltaici in territori comunali diversi nel momento in cui venivano disposte le intercettazioni nei suoi confronti e nei confronti di altri (all’epoca) indagati”, con la conseguenza che doveva ritenersi legittima l’utilizzazione delle intercettazioni disposte nel procedimento originariamente iscritto a carico dell’COGNOME NOME, sussistendo l’ipotesi di connessione prevista dall’art. 12, lett. b), c.p.p., sempre che si trattasse “di reati rientranti nei limiti di ammissibilità
previsti dall’art. 266, c.p.p., ovviamente all’epoca in cui venivano disposte ed eseguite le intercettazioni”.
A giudizio della corte territoriale, in tal modo risultavano rispettati i principi affermati in una nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte, alla luce dei quali, in tema di intercettazioni, il divieto di cui all’art. 270, c.p.p., di utilizzazione dei risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stesse siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12, c.p.p., a quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata “ah origine” disposta, sempreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266, c.p.p. (cfr. Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, Rv. 277395).
In conclusione del suo ragionamento (cfr. pp. 9-10), il giudice di appello aveva, pertanto, affermato la piena utilizzabilità delle intercettazioni di cui si discute con riferimento ai reati di cui agli artt. 640 bis, c.p. (capi 3 e 9); 476, co. 2 c.p. (capo 5); 476 e 479, c.p. (capo 6); 319 e 321, c.p. (capo 8), reati, si badi bene, tutti dichiarati estinti per prescrizione dallo stesso giudice di secondo grado, ad eccezione del delitto ex art. 476, co. 2, c.p., di cui al capo 5), contestato ad NOME NOME, ad COGNOME NOME, al COGNOME e alla COGNOME, mentre, in relazione al reato ex art. 640 bis, c.p., di cui al capo 3), come si è detto, la corte di appello pronunciava sentenza di assoluzione in favore di COGNOME NOME, della COGNOME e del COGNOME, perché il fatto non sussiste.
Ciò posto i rilievi avanzati da COGNOME, dal COGNOME e dalla COGNOME in punto di inutilizzabilità delle disposte intercettazioni devono considerarsi inammissibili.
Non può non rilevarsi, invero, la violazione da parte dei ricorrenti, nel momento in cui essi concentrano la loro attenzione sulla dedotta inutilizzabilità delle indicate intercettazioni, del principio della “prova di resistenza”, alla luce del quale, come affermato dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico,
il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (cfr. ex plurimis, Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, Rv. 269218; Sez. 2, n. 30271 del 11/05/2017, Rv. 270303; Sez. 5, n. 31823 del 06/10/2020, Rv. 279829).
Siffatto onere non risulta specificamente adempiuto dai ricorrenti, in presenza di un articolato percorso motivazionale, in cui l’affermazione di responsabilità degli imputati risulta fondata su di un variegato quadro probatorio (a partire dal contenuto della deposizione del maresciallo COGNOME), di cui le intercettazioni in questione risultano solo uno dei tasselli integranti il complessivo coacervo delle risultanze processuali.
Con riferimento alla doglianza sintetizzata nelle pagine precedenti al punto n. 2) dei motivi di ricorso di NOME va, in particolare, evidenziato come sia del tutto generica l’affermazione difensiva secondo cui la prova della responsabilità dell’imputato per i reati, dichiarati estinti per prescrizione, ex art. 483, c.p. (capo 3) e art. 481, c.p. (capo 7), sia fondata esclusivamente sul contenuto delle intercettazioni di cui si eccepisce l’inutilizzabilità, a fronte di quanto evidenziato dalla corte di appello sulla circostanza che la responsabilità dell’NOME trova fondamento nel materiale probatorio acquisito agli atti, pur prescindendo dalle conversazioni intercettate (cfr. pp. 16; 17; 19 e 20 della sentenza oggetto di ricorso).
Né va taciuto che la dedotta questione di inutilizzabilità implica valutazioni di fatto, tipiche del vaglio riservato al giudice di merito, sull’esistenza del richiamato rapporto di connessione qualificata di cui all’art. 12, lett. b), c.p.p., la cui insussistenza è sostenuta dai ricorrenti con rilievi meramente assertivi.
Valutazioni che, in quanto tali, non sono consentite in sede di legittimità, avendo esse inevitabilmente a oggetto la verifica sulla preventiva
rappresentazione soggettiva integrante un unitario programma delinquenziale, riconducibile all’elemento volitivo ed intellettivo dell’agente, la cui sussistenza solo un accertamento in punto di fatto avrebbe potuto (eventualmente) acclarare (cfr. nel senso che non possono essere dedotte nel giudizio di legittimità, questioni di inutilizzabilità il cui accertamento presupponga valutazioni di fatto, Sez. 6, n. 37767 del 21/09/2010, Rv. 248589; Sez. 4, n. 2586 del 17/12/2010, Rv. 249490).
4.1. L’intervenuta estinzione per prescrizione dei reati di cui agli artt. 323, co. 2, c.p. (capo 13, contestato ai coimputati non ricorrenti COGNOME NOME e COGNOME NOME); 356, c.p. (capo 13/bis, contestato ai coimputati non ricorrenti COGNOME NOME e COGNOME NOME); 640 bis, c.p. (capo 9, contestato ad NOME); 476 e 479, c.p. (capo 6, contestato ad NOME); 319 e 321, c.p. (capo 8, contestato ad NOME); 483, c.p. (capo 3, contestato ad NOME, alla COGNOME e al COGNOME); 481, c.p. (così riqualificata dal tribunale l’originaria imputazione ex art. 476, co. 2, c.p., elevata nei confronti del COGNOME al capo 7), ha spinto la corte di appello a operare una distinzione tra reati in relazione ai quali è stata disposta la condanna degli imputati anche al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore del comune di Soleto, unica parte civile costituita, e reati per i quali tale condanna non è stata pronunciata, al fine di applicare le regole di valutazione probatorie conformi alla natura della decisione assunta, così uniformandosi all’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il giudice di appello, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato per il quale, in primo grado, è intervenuta anche condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede ex art. 539, c.p.p., è tenuto a decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili relativi alla generica condanna risarcitoria e, a tal fine, non deve verificare se si sia perfezionato il reato contestato, bensì accertare se la condotta dell’imputato sia stata idonea a provocare un danno ingiusto ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. secondo il criterio del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente”, conformemente a quanto
sostenuto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 182/2021 (cfr. Sez. 2, n. 11808 del 14/01/2022, Rv. 283377).
Laddove, in relazione alle fattispecie per le quali non è stata pronunciata sentenza di condanna al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, la cognizione della corte territoriale è stata limitata alla verifica dell’eventuale possibilità di giungere a una pronuncia più favorevole agli imputati, ai sensi dell’art. 129, c.p.p. (cfr. pp. 12-14).
Orbene, premesso che tale impostazione non ha formato oggetto di contestazione da parte dei ricorrenti, si osserva, con particolare riferimento alle doglianze prospettate dall’COGNOME in relazione al reato ex art. 640 bis, c.p., commesso in danno non del comune di Soleto, ma della “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarato estinto per prescrizione (sintetizzate nelle pagine precedenti sub n. 4), come correttamente la corte territoriale abbia fatto prevalere la formula di non doversi procedere per sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione su quella più favorevole all’imputato.
Come è noto, infatti, il principio della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, sancito dall’art. 129, co. 2, c.p.p., opera anche con riferimento alle cause estintive del reato, quale è la prescrizione (cfr., ex plurimis, Sez. 3, 01/12/2010, n. 1550, Rv. 249428; Sez. un., 27/02/2002, n. 17179, Rv. 221403; Sez. 2, n. 6338 del 18/12/2014, Rv. 262761; Sez. 4, n. 55519 del 16/11/2018, Rv. 274767).
E invero, qualora il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dall’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato deve prevalere l’esigenza della definizione immediata del processo (cfr. Cass., sez. IV, 05/11/2009, n. 43958, F.)
In presenza di una causa di estinzione del reato, infatti, la formula di proscioglimento nel merito (art. 129, comma 2, c.p.p.) può essere adottata solo quando dagli atti risulti “evidente” la prova dell’innocenza dell’imputato, sicché la valutazione che in proposito deve essere
compiuta appartiene più al concetto di “constatazione” che di “apprezzamento” (cfr. Cass., sez. II, 11/03/2009, n. 24495, G.).
Principi ribaditi anche in un recente arresto, in cui si è evidenziato che a fronte di una sentenza di appello confermativa della declaratoria di prescrizione, il ricorso per cassazione che deduca la mancata adozione di una pronuncia di proscioglimento nel merito, ai sensi dell’art. 129, comma 2, c.p.p., deve individuare i motivi che permettano dì apprezzare “ictu oculi”, con una mera attività di “constatazione”, I”evidenza” della prova di innocenza dell’imputato, idonea ad escludere l’esistenza del fatto, la sua commissione da parte di lui, ovvero la sua rilevanza penale (cfr. Sez. 6, n. 33030 del 24/05/2023, Rv. 285091).
Circostanza che non può ritenersi sussistente nel caso in esame, come risulta dall’articolata formulazione del menzionato motivo di ricorso, con cui il ricorrente lamenta (in definitiva, sollecitando il giudice di legittimità a colmare la denunciata lacuna) un mancato “apprezzamento” a lui favorevole delle acquisizioni processuali da parte della corte di appello, la cui motivazione, per converso, appare incentrata su di un complesso di risultanze processuali, valutate anche in relazione alle fattispecie contestate nei capi 5), 6) e 7), rispetto alle quali, si osserva per inciso, le intercettazioni di cui si lamenta l’inutilizzabilità non costituiscono l’unico elemento di prova.
Identiche considerazioni valgono per le doglianze articolate dalla COGNOME, come sintetizzate nelle pagine che precedono, sub n. 2), con riferimento al reato ex art. 483, c.p., di cui al capo 3), del pari non commesso in danno del comune di Soleto, dichiarato estinto per prescrizione dalla corte di appello, non essendovi spazio per una pronuncia più favorevole fondata sull’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputata, che, con il suddetto motivo di ricorso, richiede un apprezzamento, piuttosto che una semplice constatazione della sua innocenza.
I rilievi difensivi al riguardo vanno pertanto rigettati, perché infondati.
4.2. Vanno, invece, accolti i ricorsi degli imputati con riferimento al reato ex art. 476, co. 2, c.p., di cui al capo 3), l’unico non dichiarato estinto per prescrizione, sia pure con alcune necessarie precisazioni.
In particolare non appare fondato il rilievo del COGNOME in punto di violazione del combinato disposto degli artt. 516 e 521, co. 2, c.p.p.
Da tempo, invero, la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato il condivisibile principio, secondo cui la nozione di “fatto diverso”, differenziata da quella di “fatto nuovo”, comprende non solo un fatto che integri una diversa imputazione restando storicamente invariato, ma anche quello che abbia connotati materiali difformi da quelli descritti nel decreto che dispone il giudizio (cfr. Sez. 3, n. 3253 del 22/02/1996, Rv. 205778), principio ulteriormente sviluppato nel corso della successiva evoluzione giurisprudenziale.
Si è, in particolare, sostenuto che non costituisce contestazione di un “fatto nuovo” ex art. 518, c.p.p., bensì di un “fatto diverso”, ai sensi dell’art. 516, c.p.p., la modifica dell’imputazione da appropriazione indebita a bancarotta fraudolenta – reato complesso in cui sono assorbiti gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 646, c.p. – dovendosi ricomprendere nella nozione di “fatto diverso” non solo un fatto che, pur integrando una diversa imputazione, resti esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali parzialmente difformi da quelli descritti nella contestazione originaria. (In motivazione la S.C. ha chiarito che la nozione di “fatto nuovo” attiene, invece, ad un accadimento del tutto difforme ed autonomo rispetto a quello contestato: cfr. Sez. 5, n. 2295 del 03/07/2015, Rv. 266019).
In questo senso si segnala anche un più recente arresto in cui si è ribadito che per “fatto diverso”, ai sensi dell’art. 521, c.p.p., deve intendersi non solo un fatto che integri una diversa imputazione, restando invariato, ma anche un fatto che presenti elementi essenziali della condotta e/o dell’evento parzialmente difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione della ricostruzione degli elementi essenziali del reato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da rilievi la affermazione del giudice di
merito secondo cui l’annotazione di fatture soggettivamente e giuridicamente inesistenti allo scopo di conseguire una indebita evasione o risparmio di imposta, integra un “fatto diverso” rispetto all’annotazione effettuata allo scopo di consentire tale evasione a terzi: cfr. Sez. 3, n. 8078 del 10/10/2018, Rv. 275839).
Applicando tali principi alla fattispecie in esame, appare evidente come il rilievo difensivo non colga nel segno.
E invero, premesso che dalla motivazione della sentenza impugnata (cfr. pp. 18-19) non si evince che la corte territoriale abbia escluso di ricondurre anche al COGNOME, e non al solo NOME NOME, la decisione di avere incaricato la COGNOME e l’altra donna non identificata di provvedere al deposito del progetto esecutivo dell’impianto fotovoltaico denominato “RAGIONE_SOCIALE“, per consentire alla sorella dell’NOME di procedere materialmente alla falsa protocollazione in addebito, ove anche la corte territoriale avesse fondato la condanna del ricorrente per avere condiviso il progetto criminoso dell’NOME, predisponendo la relazione e gli elaborati tecnici da allegare al progetto da far retrodatare, ovvero rafforzandone l’illecito proposito, ciò non avrebbe assolutamente determinato un mutamento del fatto nei suoi termini essenziali, nemmeno in senso parziale, rimanendo sostanzialmente inalterato il fatto di reato descritto nel decreto di rinvio a giudizio nel suoi elementi oggettivi, laddove sarebbe mutata soltanto la valutazione da parte della corte territoriale del contributo fornito dal COGNOME alla consumazione del reato.
Ciò posto va rammentato che, con riferimento al reato ex art. 476, co.,2, c.p., di cui al capo 5), COGNOME NOME, unitamente alla sorella NOME, addetta all’ufficio protocollo del comune di Soleto, NOME, progettista dell’impianto, e COGNOME NOME, dipendente dell’NOME, sono accusati di avere apposto una falsa data di ricezione con timbro di protocollo n. NUMERO_DOCUMENTO sul progetto esecutivo dell’impianto fotovoltaico, denominato “RAGIONE_SOCIALE“, installato nel territorio del comune di Soleto, in modo da ottenerne la retrodatazione al 12 gennaio 2011.
Secondo l’assunto accusatorio tale operazione costituiva uno dei tasselli necessari per consumare la truffa ex art. 640 bis, c.p., di cui al capo 9), in danno della “RAGIONE_SOCIALE“, per ottenere da quest’ultima un incentivo non dovuto.
Orbene, a ben vedere nessuno degli indagati contesta in maniera specifica il dato oggettivo dell’avvenuta retrodatazione, concentrando le proprie doglianze soprattutto, quanto non esclusivamente, sull’inadeguatezza dell’impianto probatorio a fondare un loro diretto coinvolgimento nell’indicata operazione.
Sul punto, tuttavia, la motivazione della corte territoriale non può ritenersi carente, né manifestamente illogica o contraddittoria, essendo, piuttosto, incentrata su di una puntuale valutazione delle risultanze processuali.
Entrambi i giudici di merito (si tratta, infatti, di una “doppia conforme”) hanno evidenziato, con logico argomentare, come il rinvenimento nella disponibilità dell’NOME, nel tardo pomeriggio del 6.4.2011, e poco dopo nell’ufficio dell’ing. COGNOME, dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune di Soleto, del documento denominato “Adeguamenti Planimetrici e ubicazione cabine del Progetto esecutivo di impianto fotovoltaico”, avente protocollo di arrivo n. 255 del 12.1.2011 del Comune di Soleto, sia una circostanza che si coniuga “perfettamente con le ulteriori risultanze processuali a cominciare dalle intercettazioni”.
Al riguardo, invero, rileva senza dubbio, da un lato, la richiamata conversazione n. 971 del 9.4.2011, oggetto di intercettazione ambientale, nel corso della quale l’NOME, commentando con il NOME le indagini svolte dalla Guardia di Finanza, gli rappresentava che la COGNOME e la non meglio identificata “NOME“, su sua disposizione, si erano recate dalla sorella NOME, presso il Comune di Soleto, per procedere alla retrodatazione dell’atto, sulla base di un disegno criminoso in tutta evidenza condiviso anche con il NOME, come si evince dal tenore del loro reciproco dire, i cui profili illeciti non sfuggivano agli interlocutori e alle persone presenti alla conversazione (“La NOME e l’NOME sono andate da mia sorella e si sono fatte mettere il protocollo del…di gennaio”,
affermava espressamente l’COGNOME, mentre un’altra persona, che interveniva saltuariamente nella conversazione, dichiarava significativamente “Eh, ma pure tua sorella arrestano prima o poi”) e, ovviamente, non potevano sfuggire a chi aveva assolto con successo al compito ricevuto; dall’altro, che l’avvenuta retrodatazione era stata resa possibile, nonostante l’utilizzazione presso il Comune di Soleto di un sistema di protocollazione informatica, in quanto, come rivelato dallo stesso COGNOME durante la conversazione n. 978 del 10.4.2011, la sorella, nella sua qualità di impiegata addetta proprio all’Ufficio Protocollo del suddetto Comune, manteneva “qualche numero di protocollo libero per esigenze del fratello per superare l’impasse tecnico ed eseguire un’apposizione postuma ed illegale di un numero di protocollo del Comune di Soleto”, evidenza, che, con logico argomentare, il giudice di appello, per il suo pregnante valore rappresentativo, riteneva tale da smentire quanto affermato dal teste della difesa COGNOME NOME, sulla impossibilità di modificazione della data e del numero nel menzionato sistema di protocollazione informatica.
Senza tacere, infine, osservava la corte territoriale che, sulla base della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero sul computer in uso al NOME, era stato possibile accertare che il file relativo al progetto di cui si discute era stato modificato proprio il 6.4.2011, come poteva evincersi del resto da quanto riferito all’NOME dal NOME nella citata conversazione del 9.4.2011 (cfr. pp. 18-19).
Può, in conclusione, affermarsi che la corte territoriale abbia fatto buon governo dei principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di processo indiziario.
Come è noto, infatti, gli indizi devono corrispondere a dati di fatto certi e, pertanto, non consistenti in mere ipotesi, congetture o giudizi di verosimiglianza – e devono, ex art. 192, co. 2, c.p.p., essere gravi – cioè in grado di esprimere elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto – precisi – cioè non equivoci – e concordanti, cioè convergenti verso l’identico risultato. Requisiti tutti che devono rivestire il carattere della concorrenza, nel senso che in mancanza anche di uno
solo di essi gli indizi non possono assurgere al rango di prova idonea a fondare la responsabilità penale. Inoltre, il procedimento della loro valutazione si articola in due distinti momenti: il primo diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione di ciascuno di essi, isolatamente considerato, il secondo costituito dall’esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, restando riservata al giudice di legittimità la verifica dell’esatta applicazione dei criteri legali dettati dall’art. 192, co. 2, c.p.p., e la corretta applicazione delle regole della logica nell’interpretazione dei risultati probatori (cfr., ex plurimis, Sez. 5, 10.12.2013, n. 4663, Rv. 258721; Sez. 1, n. 20461 del 12/04/2016, Rv. 266941).
In tema di valutazione della prova indiziaria, dunque, il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (cfr. Cass., sez. VI, 19.9. 2013, n. 42482, rv. 256967), come fatto, per l’appunto, dalla corte territoriale, valorizzando in un quadro unitario i singoli elementi di fatto diffusamente esaminati nelle pagine che precedono.
Sicché i rilievi difensivi sul punto appaiono inammissibili, essendo precluso, in sede di legittimità, il percorso argomentativo seguito dai ricorrenti, che si risolve in una mera lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv.
273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
Ciò posto non può non rilevarsi una lacuna motivazionale, che assume valore decisivo ai fini dell’affermazione di responsabilità dei ricorrenti, in ordine al tema sollevato in maniera specifica dalla difesa della COGNOME, ma ovviamente dotato di rilevanza generale riguardando la stessa configurabilità della fattispecie criminosa in esame, in punto di inoffensività della condotta posta in essere, che, ad avviso della ricorrente, non avrebbe messo in pericolo il bene della fede pubblica tutelato dalla norma incriminatrice.
Sul punto, premesso che la retrodatazione di un atto pubblico integra astrattamente l’ipotesi di reato di cui all’art. 476, c.p., in quanto la retrodatazione è solo una modalità di contraffazione del documento (cfr. Sez. 5, n. 1491 del 15/11/2005, Rv. 233042), si osserva come la giurisprudenza di legittimità abbia avuto modo di chiarire che, in tema di falso documentale, il registro di protocollo è atto di fede privilegiata, in quanto in esso il pubblico ufficiale attesta l’avvenuta ricezione di un documento dall’esterno, la data della ricezione e la numerazione progressiva che gli viene attribuita, sicché la materiale apposizione sul documento del timbro riproducente la data di ricezione ed il numero attribuitogli non costituisce altro che una prosecuzione di tale attività certificativa, onde la registrazione e la riproduzione della stessa sul documento costituiscono un’operazione unica e contestuale, avente la stessa natura di atto pubblico. Ne deriva che costituisce falsità punibile, ai sensi dell’art. 476, c.p., l’apposizione di una falsa data di ricezione col timbro di protocollo, destinato a fare fede del ricevimento o della spedizione da parte dell’ufficio pubblico; ne’ rileva che alla falsità della data apposta con il detto timbro non corrisponda uguale annotazione nell’apposito registro, in quanto il timbro di protocollo è lo strumento che proietta sull’atto che proviene ab extemo il crisma dell’attestazione della data di ricezione, facendo fede della stessa (cfr. Sez. 5, n. 8684 del 23/01/2004, Rv. 228752).
Si è, altresì, affermato, in altro più recente arresto, che la falsità ricadente sulle annotazioni del registro di protocollo, essendo intrinsecamente attinente alla sua funzione certificativa, che è quella di attestare con fede privilegiata la data e la successione nel tempo della ricezione o della spedizione di atti da parte di un ufficio della P.A., non può integrare gli estremi del “falso innocuo” o essere giustificata con la potenziale mancanza di effetti giuridici pregiudizievoli desumibili dal contenuto dell’atto protocollato. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata nella parte in cui aveva escluso l’innocuità della falsificazione materiale della data di acquisizione al protocollo della rinuncia di alcuni militari a fruire dell’alloggio di servizio in modo da simulare l’assenza di aspiranti al momento in cui il comandante si era assegnato l’uso dell’immobile sebbene l’alterazione concernente il momento dell’avvenuta protocollazione fosse in concreto irrilevante ai fini della possibilità di adottare il provvedimento di assegnazione: cfr. Sez. 3, n. 30265 del 02/04/2014, Rv. 260237).
Va, tuttavia, precisato che la categoria, di elaborazione giurisprudenziale, del “falso innocuo”, non è del tutto estranea alla fattispecie di cui all’art. 476, c.p.
Come chiarito dal prevalente e condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, nei delitti contro la fede pubblica l’innocuità del falso non va ritenuta con riferimento all’uso che si intende fare del documento, ma solo se si esclude l’idoneità dell’atto falso ad ingannare comunque la fede pubblica (cfr. Sez. III, 19/7/2011, n. 34901, rv. 250825; Sez. V, 30/09/1997, n. 11681).
Sussiste, pertanto, il falso innocuo solo quando esso si riveli in concreto inidoneo a ledere l’interesse tutelato dalla genuinità dei documenti e cioè quando non abbia la capacità di conseguire uno scopo antigiuridico, nel senso che l’infedele attestazione (nel falso ideologico) o la compiuta alterazione (nel falso materiale) appaiano del tutto irrilevanti ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio e, pertanto, inidonee al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere; in tal caso, infatti, la falsità non esplica effetti sulla
funzione documentale che l’atto è chiamato a svolgere, che è quella di attestare i dati in esso indicati, difettando l’oggetto tipico della falsità, con la conseguenza che l’innocuità non deve essere valutata con riferimento all’uso che dell’atto falso venga fatto (cfr. Sez. V, 17.10.2013, n. 2809, rv. 258946; Sez. V, 07/11/2007, n. 3564; Sez. 5, Sentenza n. 2809 del 17/10/2013, Rv. 258946; Sez. 5, n. 47601 del 26/05/2014; Rv. 261812; Sez. 5, n. 28599 del 07/04/2017, Rv. 270245; Sez. 5, n. 5896 del 29/10/2020, Rv. 280453).
Orbene, tornando al caso in esame, questo tema non risulta adeguatamente affrontato dalla corte territoriale, pur essendone stata sollecitata con il motivo di appello articolato al riguardo dalla COGNOME, a fronte delle dichiarazioni rese dal maresciallo COGNOME, il quale, escusso in qualità di teste, ha affermato che “in data 22.5.2009 il Comune di Soleto aveva già inviato alla Regione Puglia la documentazione relativa all’autorizzazione paesaggistica e aveva allegato quella originaria”, senza che gli imputati si fossero resi conto “che con una data successiva era già stata trasmessa la vecchia documentazione alla Regione”.
Si tratta, dunque, di approfondire se, in relazione alla circostanza di fatto rappresentata dal COGNOME, la retrodatazione della protocollazione relativa al progetto esecutivo del parco fotovoltaico “RAGIONE_SOCIALE NOME” sia stata o meno rilevante ai fini del significato dell’atto e del suo valore probatorio, vale a dire sia stata o meno idonea al conseguimento delle finalità che con l’atto falso si intendevano raggiungere.
Sul punto, pertanto, l’impugnata sentenza va annullata con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Lecce, che provvederà a colmare l’evidenziata lacuna motivazionale, adeguandosi ai principi di diritto ora richiamati.
Il disposto annullamento, riguardando il profilo dell’accertamento della responsabilità per il reato di cui al capo 5), rende del tutto privi di rilevanza i rilievi sulla dosimetria della pena prospettati dalla NOME NOME e non consente di condannare i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, non essendosi verificata la loro completa soccombenza.
5. Va accolto il ricorso della curatela del Fallimento della società “RAGIONE_SOCIALE” (incorporante della “RAGIONE_SOCIALE“), essendo fondato il primo motivo di ricorso, in esso assorbita ogni ulteriore doglianza.
Al riguardo non può non richiamarsi il principio enunciato dalla sentenza Sez. U, n. 33041 del 28/05/2015, Rv. 264310, secondo cui, in tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell’ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall’art. 39 del d.lgs. n. 231 del 2001.
A tale pronuncia ha fatto seguito la sentenza Sez. 5, n. 50102 del 22/09/2015, Rv. 265587 – resa in una fattispecie analoga a quella per la quale qui si procede – la quale ha ribadito che il richiamato art. 39, comma 1, prevede l’incompatibilità del legale rappresentante dell’ente a rappresentarlo nel procedimento a suo carico qualora egli sia contestualmente anche imputato per il reato presupposto della responsabilità addebitata alla persona giuridica. Incompatibilità che discende dalla presunzione iuris et de iure della sussistenza di un conflitto di interessi tra ente e suo rappresentante, destinata a rivelarsi già nel primo atto di competenza di quest’ultimo e cioè la scelta del difensore di fiducia e procuratore speciale, senza la cui nomina il soggetto collettivo non può validamente costituirsi.
Questa Corte aveva precedentemente precisato che l’ente può comunque costituirsi nel procedimento sostituendo il rappresentante divenuto incompatibile ovvero nominandone uno ad hoc, ed anche qualora decida invece di rimanere inerte – cioè di non provvedere ad alcun tipo di sostituzione del rappresentante legale (non importa per quale ragione) comunque rimane tutelato dalla previsione dell’art. 40 dello stesso d.lgs., che impone la nomina di un difensore d’ufficio, che ne garantisca l’assistenza in ogni fase del procedimento (cfr. Sez. 6, n. 41398 del 19/06/2009, Rv. 244405).
Quanto all’effettiva portata dell’incompatibilità e alla sorte degli atti compiuti per conto dell’ente dal legale rappresentante incompatibile, deve essere richiamato il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui l’incompatibilità prevista dall’art. 39 citato ha carattere assoluto, come dimostra a contrario l’espressa deroga contenuta nel d.lgs. n. 231 del 2001, art. 43, comma 2, in tema di notificazioni all’ente, il quale fa espressamente salve quelle eseguite mediante consegna al legale rappresentante incompatibile. Ne consegue che il rappresentante incompatibile non può compiere alcun atto difensivo nell’interesse dell’ente e che quest’ultimo, se materialmente posto in essere, deve considerarsi inefficace. In particolare sono privi di efficacia non solo l’atto di costituzione, ma altresì anche l’eventuale nomina di un difensore di fiducia effettuata indipendentemente dalla formale costituzione, con l’ulteriore conseguenza che gli atti compiuti dal difensore in esecuzione di un mandato privo di efficacia devono essere ritenuti inammissibili (cfr. Sez. 2, n. 52748 del 09/12/2014, Rv. 261967; Sez. 6, n. 29930 del 31/05/2011, Rv. 250432; Sez. 6, n. 41398 del 19/06/2009 Rv. 244409; Sez. 6, n. 15689, del 05/02/2008, Rv. 241011). Se dunque l’atto di costituzione e la nomina del difensore e procuratore speciale effettuati dal rappresentante incompatibile sono privi di efficacia, ne consegue che il giudice deve procedere a nominare per l’ente un difensore d’ufficio.
Tali principi trovano applicazione nel caso in esame, in cui, come denunciato dalla ricorrente risulta che, a seguito del sequestro preventivo disposto dal giudice per le indagini preliminari, in data 4.7.2013, nei confronti della “RAGIONE_SOCIALE“, il cui legale responsabile all’epoca era NOME, indagato nel medesimo procedimento, la società aveva nominato quale proprio difensore di fiducia l’AVV_NOTAIO, il quale risultava, al contempo, anche difensore di fiducia dello stesso indagato, come da nomina effettuata da quest’ultimo in data 14.7.2013, venendo eliminata la suddetta incompatibilità solo all’udienza dibattimentale del 3.4.2017, attraverso la rinuncia al
mandato da parte del difensore della società “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva incorporato la “RAGIONE_SOCIALE“.
Appare, dunque, dunque evidente che la società è rimasta priva di un difensore, perché quello di fiducia, nominato dall’amministratore incompatibile, non era legittimato a svolgere alcuna attività difensiva in favore dell’ente per le ragioni esposte in precedenza, né tantomeno a rappresentarlo in udienza ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001, art. 39, comma 4.
Sussiste, pertanto, la nullità assoluta eccepita dalla ricorrente, verificatasi già nella fase delle indagini preliminari, con la conseguenza che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio nei confronti della società e l’annullamento deve necessariamente essere esteso anche a quella di primo grado, fino a travolgere l’udienza preliminare e il decreto che ha disposto il rinvio a giudizio dell’ente, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il tribunale di Lecce per l’ulteriore corso.
All’annullamento senza rinvio consegue la cessazione delle misure cautelari reali, se disposte e ancora in esecuzione, nei confronti della ricorrente.
6. Del pari va accolto il ricorso proposto nell’interesse della società “RAGIONE_SOCIALE“.
Sul punto si osserva che per costante orientamento di questa Corte, in tema di responsabilità degli enti, in presenza di una declaratoria di prescrizione del reato presupposto, il giudice, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b) d.lgs. n. 231 del 2001, deve procedere all’accertamento autonomo della responsabilità amministrativa della persona giuridica nel cui interesse e nel cui vantaggio l’illecito fu commesso che, però, non può prescindere da una verifica, quantomeno incidentale, della sussistenza del fatto di reato (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 22468 del 18/04/2018, Rv. 273399).
L’autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica che ha commesso il reato-presupposto, prevista dall’art. 8, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, deve essere intesa, pertanto, nel senso
che, per affermare la responsabilità dell’ente, non è necessario il definitivo e completo accertamento della responsabilità penale individuale, ma è sufficiente un mero accertamento incidentale, purché risultino integrati i presupposti oggettivi e soggettivi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 8 del medesimo decreto, tale autonomia operando anche nel campo processuale (In applicazione del principio la Corte ha escluso che, nella specie, il giudice fosse tenuto a valutare, a favore dell’ente, atti difensivi prodotti in favore degli imputati: cfr. Sez. 4, n. 38363 del 23/05/2018, Rv. 274320).
Ciò posto, la motivazione della corte territoriale appare, nella sua laconicità (cfr. p. 21), invero insoddisfacente, facendo in definitiva meccanicamente derivare la responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo di cui agli artt. 5, co. 1, lett. a), 6 e 24, co. 2, d.lgs. n. 231 del 2001, dalla ritenuta responsabilità dell’COGNOME NOME per il reato ex art. 640 bis, c.p., di cui al capo 9) (dichiarato estinto per prescrizione), sul presupposto che l’COGNOME, nella sua qualità di amministratore di fatto dell'”RAGIONE_SOCIALE“, abbia agito anche nell’interesse della suddetta società e non solo nel suo esclusivo interesse, non adottando e non efficacemente attuando, inoltre, “prima della commissione dei fatti modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi”.
Si tratta di una motivazione carente sotto diversi profili.
Innanzitutto la corte territoriale nel replicare alle specifiche doglianze formulate dalla società ricorrente sul ruolo apicale rivestito dall’NOME NOME, ritenuto dai giudici di merito amministratore di fatto dell'”RAGIONE_SOCIALE“, doglianze puntualmente riportate dallo stesso giudice di appello (cfr. p. 7), ha reso una motivazione apparente, essendosi limitata a fare riferimento a quanto affermato sul punto dal giudice di primo grado, richiamando il numero delle pagine, da 250 a 252, della relativa motivazione dedicate a tale questione (cfr. p. 21).
E invero, in presenza di un atto di appello non inammissibile per carenza di specificità, il giudice d’appello non può limitarsi al mero e tralaticio rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado, in quanto, anche
laddove l’atto di appello riproponga questioni già di fatto dedotte e decise in primo grado, egli ha l’obbligo di motivare, onde non incorrere nel vizio di motivazione apparente, in modo puntuale e analitico su ogni punto a lui devoluto (cfr. Sez. 2, n. 52617 del 13/11/2018, Rv. 274719; Sez. 6, n. 43972 del 01/10/2013, Rv. 256922).
Ma, soprattutto, la corte territoriale ha del tutto omesso di conformare l’indagine che le competeva ai principi, costituenti orientamento diffuso nella giurisprudenza di questa Corte, condiviso dal Collegio, alla luce dei quali ai fini della configurabilità della responsabilità da reato degli enti, non sono “ex se” sufficienti la mancanza o l’inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione della “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo e che è distinta dalla colpa dei soggetti autori del reato (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, Rv. 283247; Sez. 4, n. 21704 del 28/03/2023, Rv. 284641).
La semplice configurabilità in capo ai soggetti apicali della responsabilità penale per uno dei reati “presupposti”, pertanto, non è sufficiente per affermare la responsabilità dell’ente collettivo per il conseguente illecito amministrativo.
Spetta al giudice, infatti, svolgere un giudizio di idoneità del modello di organizzazione e gestione adottato o che avrebbe dovuto essere adottato, sulla base del criterio epistemico-valutativo della cd. “prognosi postuma”, proprio della imputazione della responsabilità per colpa, collocandosi idealmente nel momento in cui l’illecito è stato commesso, al fine di verificare se il “comportamento alternativo lecito”, ossia l’osservanza del modello organizzativo virtuoso, per come esso è stato attuato in concreto o avrebbe dovuto essere, avrebbe eliminato o ridotto il pericolo di verificazione di illeciti della stessa specie di quello verificatosi, non richiedendosi una valutazione della “connpliance” alle regole cautelari di tipo globale.
Il giudice, in altri termini, è chiamato a operare una verifica in concreto dell’adeguatezza del modello di organizzazione, gestione e controllo,
attuato o che avrebbe dovuto essere attuato, verificando se il reato della persona fisica rappresenti la concretizzazione del rischio che la regola cautelare organizzativa violata mirava ad evitare o, quantomeno, tendeva a rendere minimo; ovvero deve accertare che, se il modello “idoneo” fosse stato rispettato, l’evento non si sarebbe verificato (cfr., ex Sez. 5, n. 21640 del 02/03/2023, Rv. 284675).
Ovvero, come pure è stato detto, è compito del giudice individuare la specifica disciplina di settore, anche di rango secondario, che ritenga violata o, in mancanza, le prescrizioni della migliore scienza ed esperienza dello specifico ambito produttivo interessato, dalle quali i codici di comportamento ed il modello con essi congruente si siano discostati, in tal modo rendendo possibile la commissione del reato da parte del soggetto collettivo (cfr. Sez. 6, n. 23401 del 11/11/2021, Rv. 283437).
Indagine, va imponendosi, sentenza, con provvederà a principi di diritto ora affermati. ribadito, del tutto omessa dalla corte di appello, pertanto, l’annullamento sul punto dell’impugnata rinvio ad altra sezione della corte di appello di Lecce, che colmare l’evidenziata lacuna normativa, uniformandosi ai
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, limitatamente al reato di cui all’art. 476, co. 2, c.p., di cui al capo 5), con rinvio per nuovo esame sul punto ad altra sezione della corte di appello di Lecce. Rigetta nel resto i ricorsi dei predetti imputati. Annulla, altresì, senza rinvio la medesima sentenza, nonché la sentenza di primo grado, nei confronti di “RAGIONE_SOCIALE“, disponendo la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il tribunale di Lecce per quanto di competenza. Annulla, infine, la predetta sentenza nei conforti di “RAGIONE_SOCIALE“, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Lecce.
Così deciso in Roma il 13.9.2023.