Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 19096 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 19096 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 18/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato a CESENA il 11/02/1963 RAGIONE_SOCIALE
avverso la sentenza del 13/05/2024 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto di rigettare i ricorsi;
udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME che ha chiesto di accogliere il ricorso;
udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per la “RAGIONE_SOCIALE“, che ha chiesto di accogliere il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa 1’11 luglio 2022, il Tribunale di Milano, per quanto qui di interesse, aveva condannato COGNOME Guido per i reati di cui agli artt. 416 e 624-625 cod. pen., 2635 cod. civ., 40, comma 1, lett. b, e comma 4, d.lgs. n. 504 del 1995 e 49, comma 1, d.lgs. n. 504 del 1995. Aveva altresì inflitto alla “RAGIONE_SOCIALE” la sanzione pecuniaria per illecito amministrativo, in relazione ai reati di cui agli artt. 416 cod. pen. e 2635 cod. civ., contestati al COGNOME.
Secondo l’ipotesi accusatoria, ritenuta fondata dal giudice di primo grado, COGNOME COGNOME (nella qualità di consulente della “RAGIONE_SOCIALE“) e i dirigenti della “RAGIONE_SOCIALE” COGNOME NOME (coimputato che non ha impugnato la sentenza di appello), COGNOME Leone e COGNOME NOME (in ordine a questi ultimi due si è proceduto separatamente) avrebbero costituito un’associazione per delinquere finalizzata a sottrarre in modo continuativo prodotti petroliferi alla “RAGIONE_SOCIALE“, prelevandoli abusivamente dal deposito di S. Agata Martesana, alla cui direzione erano addetti l’COGNOME e il COGNOME (capo A).
In attuazione del programma criminoso, l’imputato e i correi avrebbero commesso svariati furti (per un valore complessivo di euro 350.000,00), per eseguire i quali organizzavano “doppi carichi”: uno “ufficiale”, effettuato con le autobotti munite di regolari documenti di trasporto, relativi a prodotti regolarmente acquistati e con accisa pagata; l’altro “in nero”, relativo a prodotti trafugati e non pagati alla “RAGIONE_SOCIALE” (capo B).
Con tali condotte, si sarebbero resi responsabili pure dei delitti previsti dall’art. 2635, commi 1 e 3, cod. civ., atteso che il COGNOME avrebbe anche versato agli altri tre somme di denaro, per far compiere loro atti contrari ai doveri inerenti al loro ufficio e all’obbligo di fedeltà (capo C).
Gli associati, infine, in concorso con gli autisti delle autobotti, con le descritt condotte, avrebbero violato anche l’art. 40, comma 1, lett. b, e comma 4, d.lgs. n. 504 del 1995 e l’art. 49, comma 1, d.lgs. n. 504 del 1995, sottraendo al pagamento delle accise i prodotti rubati, che venivano trasportati anche senza i regolari documenti di trasporto (capi F e G).
La “RAGIONE_SOCIALE“, in persona del legale rappresentante COGNOME Elena, era stata ritenuta responsabile «per non aver impedito ed anzi essersi avvalsa del profitto dei delitti di cui sopra, permettendo che COGNOME RAGIONE_SOCIALE organizzasse le condotte criminose indicate e ne riversasse i proventi a vantaggio della società» (capo D).
Con sentenza pronunziata il 30 luglio 2024, la Corte di appello di Milano, per quanto qui di interesse, ha dichiarato l’estinzione di tutti i reati, ad eccezione d quello di cui all’art. 416 cod. pen., rideterminando la pena e riconoscendo al
Bronchi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. In particolare, ha dichiarato estinti per rimessione della querela i reati di furto, ritenendo in essi assorbiti anch quelli di corruzione tra privati, e per prescrizione i reati di cui agli artt. 40, com 1, lett. b, e comma 4, d.lgs. n. 504 del 1995 e 49, comma 1, d.lgs. n. 504 del 1995.
Ha, GLYPH altresì, GLYPH prosciolto GLYPH la GLYPH “Bronchi GLYPH Combustibili GLYPH RAGIONE_SOCIALE” GLYPH dall’illecito amministrativo, in relazione al reato di cui all’art. 2635 cod. civ., riducendo l sanzione inflitta all’ente.
Avverso la sentenza della Corte di appello, RAGIONE_SOCIALE e la “RAGIONE_SOCIALE hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei loro difensori di fiducia.
Il ricorso di COGNOME NOME si compone di due motivi.
3.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 192 e 546 cod. proc. pen.
Contesta la motivazione del provvedimento impugnato, sostenendo che la Corte di appello non avrebbe adeguatamente valutato tutti i rilievi critici sollevati dall’appellante, con riferimento all’attendibilità delle dichiarazioni rese da COGNOME NOME e ai riscontri esterni valorizzati dal giudice di primo grado, né avrebbe valutato la ricostruzione alternativa dei fatti offerta dalla difesa.
Secondo tale ricostruzione, i prodotti oggetto di contestazione non sarebbero stati illegittimamente sottratti alla “RAGIONE_SOCIALE“, ma sarebbero stati da questa attribuiti alla “RAGIONE_SOCIALE” senza pagamento di corrispettivo, per compensare la scarsa qualità dei prodotti in precedenza forniti, oggetto di specifiche contestazioni. L’accordo transattivo sarebbe stato raggiunto con il COGNOME, che rappresentava la “RAGIONE_SOCIALE“, e non sussisterebbe alcun elemento che consentirebbe di affermare che la società fosse all’oscuro di tale accordo. Tale ricostruzione si basa sul significato da attribuire alle parole “carichi in nero”, utilizzate dal COGNOME e dal COGNOME nelle loro conversazioni. Con l’espressione “in nero”, secondo il ricorrente, dovrebbe intendersi, invero, non l’illegittima sottrazione dei prodotti alla “RAGIONE_SOCIALE“, ma la mera sottrazione dei prodotti al pagamento delle imposte.
Tale versione alternativa non sarebbe stata adeguatamente valutata dalla Corte di appello, che non avrebbe considerato neppure le prove addotte a sostegno dalla difesa e, in particolare, le dichiarazioni rese dai testi, dalle quali emergerebbe che la “RAGIONE_SOCIALE“, all’epoca dei fatti, aveva fornito prodotti di scarsa qualità, la cui commercializzazione, oltre che ad essere oggetto di continue lamentele da
parte dei clienti, avrebbe determinato anche un’indagine della Guardia di finanza, che aveva coinvolto i vertici della “RAGIONE_SOCIALE“.
3.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 416 cod. pen.
Contesta la motivazione della sentenza impugnata, nella parte relativa alla sussistenza dell’associazione per delinquere, sostenendo che la Corte di appello si sarebbe limitata a valorizzare elementi che sarebbero significativi per dimostrare non la stabilità di un presunto vincolo associativo, ma, piuttosto, l’accordo sotteso alla commissione di specifici delitti.
Mancherebbe, secondo il ricorrente, la prova di un accordo di «più ampio respiro», volto alla commissione di una serie non determinata di reati. Dalle intercettazioni telefoniche, infatti, emergerebbe che tutto si sarebbe esaurito nell’accordo siglato tra il COGNOME e il COGNOME, volto alla programmazione e alla realizzazione delle condotte distrattive.
In coerenza con tale limitata portata dell’accordo, non vi sarebbero rapporti tra tutti i presunti associati. Il COGNOME avrebbe ignorato l’identità e addiritt l’esistenza degli altri presunti sodali e tantomeno avrebbe conosciuto il contributo che questi avrebbero fornito alla presunta associazione.
Mancherebbe, inoltre, la dimostrazione dell’esistenza di una qualsiasi struttura organizzativa e della disponibilità di mezzi propri da parte dell’associazione. Con riferimento a quest’ultimo profilo, il ricorrente evidenzia che i mezzi dell’azienda del Bronchi non potrebbero essere ricondotti all’associazione, atteso che non risultava che i correi avessero imposto un «modulo illecito» a tali mezzi.
Mancherebbe completamente la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, atteso che, dal dibattimento, sarebbe emerso che il COGNOME aveva come unico punto di riferimento il COGNOME, non avendo alcuna consapevolezza di cooperare con altri, e che il COGNOME non avrebbe intrattenuto contatti diretti né con il COGNOME né con il COGNOME.
Il ricorso della “RAGIONE_SOCIALE” si compone di quattro motivi.
4.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.
Rappresenta che la difesa, con l’atto di appello, aveva contestato la sentenza di primo grado, nella parte in cui il Tribunale aveva ritenuto la responsabilità dell’ente in relazione a tutti i reati contestati agli imputati e, dunque, anche in ordine al reato di associazione per delinquere, nonostante nel capo d dell’imputazione, quello relativo alla responsabilità dell’ente, mancasse uno specifico riferimento a quest’ultimo reato. La difesa, in particolare, aveva dedotto
che la contestazione all’ente, come emergeva dalla lettura del capo d della rubrica, non era relativa all’art. 24-ter, comma 2, d.lgs. 231 del 2001 (che prevede la responsabilità dell’ente per i delitti previsti dall’art. 416 cod. pen.), ma solo all’ 25-ter, lett. s-bis (che prevede la responsabilità dell’ente per il reato di cui all’a 2635 cod. civ.). Palese, pertanto, sarebbe stata la violazione del principio di correlazione tra accuse e sentenza.
La Corte di appello, tuttavia, aveva ritenuto infondate le censure della difesa, sostenendo che l’imputazione, anche se priva dello specifico riferimento all’art. 24ter, comma 2, contenesse comunque l’espresso rimando ai delitti contestati nei capi precedenti e, dunque, anche al reato di associazione per delinquere, contestato al capo a.
Tanto premesso, il ricorrente censura tale motivazione, sostenendo che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, il capo d dell’imputazione non conterrebbe l’espresso rimando ai delitti contestati nei capi precedenti, ma semplicemente l’affermazione che l’ente si sarebbe «avvalsa del profitto dei delitti di cui sopra». Dalla descrizione del capo di imputazione, dunque, non emergerebbe in modo sufficientemente chiaro il profilo di responsabilità addebitato all’ente: il supposto vantaggio ricavato dalla società non potrebbe infatti implicare un automatico addebito di responsabilità in capo all’ente per il reato di cui all’art. 416 cod. pen. Mancherebbe, quindi, sotto il profilo descrittivo il rimprovero alla persona giuridica in relazione al reato di associazione per delinquere.
Nel capo d, inoltre, mancherebbe qualsiasi riferimento descrittivo ai profili della “colpa di organizzazione” dell’ente, che assumerebbe grande rilevanza in ordine alla «tipicità dell’illecito amministrativo».
4.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 5, 24-ter e 66 d.lgs. n. 231 del 2001.
4.2.1. Con una prima censura, sostiene che il COGNOME non potrebbe essere inquadrato in nessuna delle categorie soggettive indicate dall’art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001, non essendo inserito nell’organigramma societario e non esercitando, neppure di fatto, alcun potere di gestione dell’ente.
La Corte di appello non avrebbe adeguatamente motivato sul punto, oggetto di specifica doglianza difensiva, limitandosi ad affermare che la sussistenza di tale requisito soggettivo sarebbe desumibile dal fatto che l’imputato era procuratore della società e che lavorava nel settore commerciale dell’azienda di famiglia.
Trascurando in tal modo anche il fatto che la difesa, con l’appello, aveva posto in rilievo che l’oggetto della procura era completamente avulso dall’ambito commerciale e atteneva ad attività estranee a quelle incriminate.
4.2.2. Con una seconda censura, contesta la motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la Corte di appello aveva addebitato il reato soggettivamente all’ente, fondando il proprio «convincimento sul concetto di colpa della persona fisica» e su quello «di omissione del modello d’organizzazione e gestione», in tal modo «confondendo il quoziente soggettivo della persona fisica con la colpevolezza di organizzazione dell’ente».
La Corte d’appello non avrebbe fornito una puntuale motivazione in ordine alla “colpa di organizzazione”, ponendosi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità, che avrebbe affermato che non sarebbe sufficiente la mancanza o l’inidoneità degli specifici modelli di organizzazione o la loro inefficace attuazione, essendo necessaria la dimostrazione, per l’appunto, della “colpa di organizzazione”, che caratterizza la tipicità dell’illecito amministrativo.
4.3. Con un terzo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 24-ter e 66 d.lgs. n. 231 del 2001 e 416 cod. pen.
Contesta la motivazione della sentenza impugnata, nella parte relativa alla sussistenza dell’associazione per delinquere, sostenendo che mancherebbero gli elementi costitutivi della fattispecie prevista dall’art. 416-bis cod. pen.
Dall’istruttoria e, in particolare, dalle conversazioni intercettate emergerebbero elementi che sarebbero significativi per dimostrare non la stabilità e la permanenza di un vincolo associativo, ma, piuttosto, un accordo ben determinato per «le apprensioni delle eccedenze in nero».
In coerenza con tale limitata portata dell’accordo, sarebbero intervenuti rapporti solo tra il COGNOME e il COGNOME: gli altri presunti sodali neppure conoscerebbero tra loro.
Mancherebbe, inoltre, la dimostrazione dell’esistenza di una qualsiasi struttura organizzativa e della disponibilità di mezzi propri da parte dell’associazione. I mezzi dell’azienda del Bronchi, infatti, non potrebbero essere ricondotti all’associazione, atteso che non risultava che i correi avessero imposto un «modulo illecito» a tali mezzi.
Mancherebbe completamente la prova della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato e della affectio societatis.
4.4. Con un quarto motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 11 e 12 d.lgs. n. 231 del 2001 e 133 cod. pen.
Contesta il trattamento sanzionatorio e in particolare la commisurazione dell’indice di conversione della quota e il mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 12, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 231 del 2001.
Con particolare riferimento al primo profilo, sostiene che l’importo della singola quota risulterebbe esorbitante rispetto alle reali condizioni economiche e alle dimensioni dell’impresa. La “RAGIONE_SOCIALE“, infatti, sarebbe una un’impresa a conduzione familiare di medie dimensioni.
Con riferimento al secondo profilo, sostiene che la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere l’attenuante in questione, in quanto la società avrebbe integralmente risarcito il danno «nelle more della celebrazione della prima udienza del giudizio d’appello».
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di RAGIONE_SOCIALE deve essere rigettato, mentre, invece, il ricorso della “RAGIONE_SOCIALE” deve essere accolto, essendo fondato il secondo motivo, con conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente al capo d dell’imputazione.
Il ricorso di COGNOME NOME deve essere rigettato.
2.1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Con esso, il ricorrente ha articolato alcune censure che, pur essendo state da lui riferite alla categoria del vizio di motivazione, non evidenziano alcuna effettiva violazione di legge né travisamenti di prova o vizi di manifesta logicità emergenti dal testo della sentenza, ma sono, invece, dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano). Va ribadito che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità l mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (cfr. Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, COGNOME, Rv. 249651). Risultano, poi, inammissibili tutte le censure che il ricorrente muove alla valutazione di attendibilità dei testi, atteso che «non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, valutazione del giudice di merito, cui spetta il giudizio sulla rilevanza e attendibilit delle fonti di prova, circa contrasti testimoniali o la scelta tra divergenti versioni interpretazioni dei fatti» (Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, COGNOME, Rv. 271623; Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, COGNOME Rv. 250362).
Va, in ogni caso, osservato che la Corte di appello, in ordine alla ricostruzione oggettiva dei fatti e alla valutazione delle prove, ha reso una motivazione
adeguata, coerente e priva di vizi logici, rispondendo anche alle censure mosse con l’atto di impugnazione, ritenendo evidentemente “assorbite” le questioni poste dalla difesa completamente incompatibili con la ricostruzione dei fatti ritenuta fondata. Va, al riguardo ribadito che, «nella motivazione della sentenza, il giudice del gravame non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, sicché debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata» (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv. 281935).
Deve essere sottolineato che la Corte di appello ha rigorosamente valutato la versione alternativa offerta dalla difesa, le dichiarazioni rese dal COGNOME e le censure mosse dalla difesa alla sua attendibilità (cfr. pagine 48 e ss. della sentenza impugnata).
Ha, in particolare, messo in rilievo che il COGNOME aveva riferito in maniera analitica l’accordo raggiunto per trafugare i prodotti dal deposito e le modalità con cui l’accordo era stato raggiunto, fornendo anche un documento, nel quale erano stati annotati i vari carichi.
Ha evidenziato, sotto il profilo dell’attendibilità intrinseca, la circostanza ch il COGNOME si era determinato a confessare i fatti, all’amministratore delegato della “RAGIONE_SOCIALE“, solo perché questo gli aveva mostrato gli esiti delle investigazioni private disposte dalla società, a seguito della segnalazione di anomalie da parte di un dipendente. Sempre sotto il medesimo profilo, ha evidenziato che: il COGNOME, nel corso del procedimento, aveva fornito dichiarazioni, in primo luogo, auto-accusatorie, essendosi egli attribuito la paternità dell’accordo criminoso; le dichiarazioni erano state ribadite in più occasioni e infine nel corso del dibattimento; il COGNOME non avrebbe avuto alcun interesse nell’autoaccusarsi del furto dei prodotti invece di confermare di aver posto in essere un accordo transattivo, per ripianare le contestazioni sollevate dalla “RAGIONE_SOCIALE“.
Sotto il profilo della attendibilità estrinseca, la Corte territoriale ha posto rilievo che le dichiarazioni rese dal COGNOME trovavano pieno riscontro nelle conversazioni intercettate, negli esiti delle investigazioni private disposte dalla società e nelle dichiarazioni rese da COGNOME NOME, COGNOME e COGNOME NOME.
Come detto, la Corte territoriale ha ampiamente valutato anche la versione alternativa offerta dalla difesa, ritenendola non solo poco verosimile, ma anche
contraddetta dal comportamento tenuto dall’amministratore delegato della società, che, appena ricevuta la notizia sulle anomale movimentazioni di prodotti petroliferi da parte degli automezzi della “RAGIONE_SOCIALE“, aveva dato mandato a un’agenzia investigativa al fine di verificare la fondatezza della notizia. Condotta che è del tutto incompatibile con la circostanza che la società fosse a conoscenza dell’accordo. Ha posto, poi, in rilievo che la presunta scarsa qualità dei prodotti petroliferi, che sarebbe stata contestata dai clienti della “RAGIONE_SOCIALE, non sarebbe stata dimostrata, avendo trovato scarso riscontro dibattimentale, nelle sole dichiarazioni rese dalla teste COGNOME, che aveva genericamente riferito di lamentele della clientela, che, peraltro, non erano documentate.
2.2. Il secondo motivo del ricorso del RAGIONE_SOCIALE e il terzo motivo del ricorso della “RAGIONE_SOCIALE” – che possono essere trattati congiuntamente, proponendo analoghe questioni – sono infondati.
La Corte di appello, invero, ha reso una motivazione adeguata e priva di vizi logici in ordine alla sussistenza del reato associativo.
Ha escluso che potesse parlarsi di un mero concorso di reati, avvinti dal medesimo disegno criminoso, atteso che l’accordo non prevedeva la commissione di più determinati reati, ma la predisposizione di un’organizzazione per la realizzazione di una serie indeterminata e non preventivabile di reati, da consumare, di volta in volta, quando si sarebbero verificate le occasioni opportune e vi sarebbe stata la disponibilità dei prodotti nel deposito (cfr. pagine 53 e ss. della sentenza impugnata).
Ha, poi, posto in rilievo che c’era una precisa distribuzione dei compiti tra i vari associati, delineando in maniera chiara anche il ruolo svolto dai promotori, e che vi era disponibilità dei mezzi della “RAGIONE_SOCIALE“, utilizza sistematicamente per gli illeciti trasporti.
La Corte di appello, poi, ha risposto anche al rilievo difensivo relativo alla mancanza di conversazioni telefoniche tra tutti gli associati, evidenziando il fatto che l’originario accordo tra il COGNOME e il COGNOME era stato formalizzato solo dopo che quest’ultimo aveva avuto la disponibilità dell’COGNOME e del COGNOME. Poi, in coerenza con i diversi ruoli assunti nell’ambito della struttura associativa e dei compiti che avevano nelle aziende di riferimento, i contatti intervenivano tra il COGNOME e il COGNOME e poi tra quest’ultimo, intraneo alla “RAGIONE_SOCIALE“, e i colleghi COGNOME ed COGNOME per l’attuazione delle concrete sottrazioni dei combustibili.
Quanto alla sussistenza dell’elemento soggettivo, la Corte territoriale ha posto in rilievo il fatto che l’imputato era stato l’ideatore, assieme al COGNOME, del pat criminoso ed era sicuramente consapevole della cooperazione del COGNOME,
quest’ultimo individuato, con accertamento irrevocabile, come colui che teneva i contatti con gli autisti dell’azienda del Bronchi ed operava nel deposito in modo da consentire la sottrazione dei prodotti petroliferi.
Il ricorso della “RAGIONE_SOCIALE” deve essere accolto, essendo fondato il secondo motivo.
3.1. Il primo motivo, relativo alla presunta violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, è infondato.
Nella rubrica del capo d dell’imputazione, effettivamente, non è richiamato l’art. 24-ter, comma 2, d.lgs. 231 del 2001 (che prevede la responsabilità dell’ente per i delitti previsti dall’art. 416 cod. pen.), ma l’art. 25-ter, lett. r-bis. Va, tu evidenziato che, nella descrizione in fatto, vi è l’espresso rimando ai delitti contestati nei capi precedenti e, dunque, anche al reato di associazione per delinquere, contestato al capo a. Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, il profilo di responsabilità addebitato all’ente viene descritto in modo chiaro, atteso che viene contestato alla società di «di non aver impedito» e di «essersi avvalsa … del profitto dei delitti di cui sopra».
Al riguardo, deve essere ribadito che, in tema di contestazione dell’accusa, si deve avere riguardo alla descrizione del fatto più che all’indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia descritto, la mancata o erronea individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità salvo che non si traduca in una compressione dell’esercizio del diritto di difesa (cfr. Sez. 1, n. 30141 del 05/04/2019, COGNOME, Rv. 276602; Sez. 3, n. 5469 del 05/12/2013, Russo, Rv. 258920).
Quanto alla mancanza nell’imputazione di qualsiasi riferimento alla “colpa di organizzazione” dell’ente, va rilevato che tale censura, al più, poteva essere dedotta sotto il profilo del difetto di specificità dell’imputazione, che andava tempestivamente eccepito, ma non certo sotto quello della violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
3.2. Il secondo motivo è fondato.
La Corte di appello, infatti, in ordine alla qualifica soggettiva rivestit dall’imputato nell’ambito della “RAGIONE_SOCIALE“, si è limitata a far riferimento a una procura speciale, di cui non ha specificato il contenuto, alle generiche dichiarazioni rese dai testi e dallo stesso imputato, che aveva ammesso di lavorare nel settore commerciale dell’azienda di famiglia.
Si tratta di affermazioni generiche, dalle quali non è possibile desumere se il COGNOME rivestisse nell’ambito della società una delle specifiche qualifiche soggettive, che, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 231 del 2001, consentirebbero di estendere la sua responsabilità all’ente e, tantomeno, da esse è possibile
desumere quale, tra le diverse categorie soggettive indicate dalla norma, venga specificamente in rilievo.
Al riguardo, va rilevato che l’art. 5, d.lgs. n. 231 del 2001, al fine dell configurabilità della responsabilità amministrativa dell’ente, oltre al compimento del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente, richiede l’ulteriore elemento del rapporto qualificato tra l’autore del reato presupposto e l’ente. Il reato, invero deve essere stato commesso da persone che «rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso» (art. 5, lett. d.lgs. n. 231 del 2001) oppure da persone «sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a» (art. 5, lett. b, d.lgs. n. 231 2001). Solo in presenza del legame soggettivo tra reo ed ente e quello teleologico tra reato ed ente è possibile configurare la responsabilità amministrativa dell’ente, in quanto solo in presenza di tali legami si può ritenere che l’ente risponda per un fatto proprio e non per un fatto altrui.
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la struttura dell’illecit addebitato all’ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale «la relazione funzionale sussistente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell’organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo». La sussistenza di tali relazioni «consente di affermare che l’ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui» (così, in motivazione, Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 283247; Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, COGNOME).
Con specifico riferimento al legame soggettivo tra autore del reato presupposto ed ente, alla lettera a dell’art. 5, viene dato rilievo alle persone che rivestono un ruolo apicale nell’ambito dell’ente, comprese quelle che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo sull’ente. Come emerge dal chiaro dato letterale e come confermato dalla giurisprudenza di legittimità, possono venire in rilievo anche i reati commessi da soggetti che non rivestano incarichi formali, quando questi, di fatto, esercitano sull’ente poteri di gestione o di controllo sul medesimo (cfr., in motivazione, Sez. 5, n. 3211 del 20/10/2023, COGNOME, Rv. 285847).
Alla lettera b dell’art. 5, viene, invece, dato rilievo anche al rapporto tra l’ent e i soggetti subordinati a quelli che rivestono un ruolo apicale.
Va evidenziato che assume rilievo anche l’individuazione della specifica categoria soggettiva indicata dall’art. 5 e, in particolare, la riconduzione del
rapporto tra ente e autore del reato alle ipotesi previste dalla lettera a oppure a quelle previste dalla lettera b dell’art. 5.
Va, invero, rilevato che il legislatore, per evitare il rischio di configurare un sorta di responsabilità oggettiva, ha correttamente previsto criteri di imputazione soggettiva della responsabilità degli enti, desumibili essenzialmente dagli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 231 del 2001 e 30 d.lgs. n. 81 del 2008. La giurisprudenza di legittimità, al riguardo, ha elaborato la nozione di “colpa di organizzazione” dell’ente, consistente, essenzialmente, nel non avere predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. La condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione di uno dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn). La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che «la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto n. 231/2001 e all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall’accusa» (così, in motivazione, Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, RAGIONE_SOCIALE, Rv. 283247; Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, COGNOME). Rimane, quindi, la rilevanza dei modelli di organizzazione e della disciplina prevista dagli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001, che è diversamente articolata proprio sulla base del tipo di legame tra l’autore del reato e l’ente, atteso che l’art. 6 prevede una disciplina per i casi in cui i reati siano stati commessi da soggetti apicali e l’ar 7 ne prevede una differente per i casi in cui i reati siano stati commessi da soggetti subordinati a quelli che rivestono ruoli apicali. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Da quanto finora esposto emerge la rilevanza del rapporto tra autore del reato ed ente, in mancanza del quale il reato non può essere ricondotto neppure sotto il profilo oggettivo all’ente, e della riconduzione di tale rapporto alle ipotesi previst dalla lettera a) oppure a quelle previste dalla lettera 9dell’art. 5, che assume rilevanza anche al fine della ricostruzione della “colpa di organizzazione”.
Ebbene, su tali fondamentali profili, la Corte territoriale si è limitata a del generiche e confuse asserzioni, facendo riferimento, in alcuni casi, al ruolo di consulente della società che sarebbe stato rivestito dal Bronchi e, in altri, al fatto che egli avrebbe lavorato nel settore commerciale dell’azienda di famiglia.
Asserzioni che non consentono di ritenere accertato il rapporto tra autore del reato ed ente e, tantomeno, di stabilire la particolare tipologia del suddetto rapporto e,
cioè, se il COGNOME rivestisse, formalmente o di fatto, un ruolo apicale all’interno della “RAGIONE_SOCIALE” oppure fosse persona sottoposta alla direzione o
alla vigilanza di uno dei soggetti che rivestiva un ruolo apicale all’interno dell società.
La sentenza impugnata, pertanto, limitatamente al capo d, relativo alla responsabilità amministrativa dell’ente, deve essere annullata, con rinvio per
nuovo esame.
Risulta assorbito il quarto motivo, che è relativo al trattamento sanzionatorio.
4. La sentenza impugnata, essendo fondato il secondo motivo del ricorso della
“RAGIONE_SOCIALE“, deve essere annullata, limitatamente al capo d della rubrica, con rinvio per nuovo esame, avente a oggetto esclusivamente la
responsabilità amministrativa dell’ente, ad altra sezione della Corte di appello di
Milano. Il ricorso di COGNOME NOME, invece, deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle
spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al capo d e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta il ricorso di COGNOME Guido e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 18/02/2025.