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Responsabilità 231: ruolo apicale non provato, annullata

La Corte di Cassazione ha annullato la condanna per responsabilità 231 a carico di una società di combustibili, il cui consulente aveva commesso il reato di associazione per delinquere. La Corte ha stabilito che, per affermare la responsabilità dell’ente, è necessario provare in modo specifico e non generico il ruolo, apicale o subordinato, ricoperto dall’autore del reato all’interno della compagine societaria. La condanna personale del consulente è stata invece confermata.

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Pubblicato il 3 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Responsabilità 231: La Cassazione Sottolinea l’Onere della Prova sul Ruolo del Reo

Una recente sentenza della Corte di Cassazione riaccende i riflettori sulla responsabilità 231 degli enti, chiarendo un punto fondamentale: per condannare una società non basta che un reato sia stato commesso a suo vantaggio, ma è necessario dimostrare con precisione il legame qualificato tra l’autore del reato e l’ente stesso. La pronuncia in esame (Sentenza n. 19096/2025) ha annullato con rinvio la condanna di una società di combustibili, la cui responsabilità era stata affermata in relazione al reato di associazione per delinquere commesso da un suo consulente. Vediamo nel dettaglio i fatti e le motivazioni della Corte.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine da un’indagine su un complesso schema fraudolento finalizzato alla sottrazione continuativa di prodotti petroliferi ai danni di una grande società fornitrice. Secondo l’accusa, un consulente di una società acquirente, in accordo con alcuni dirigenti della società fornitrice, aveva organizzato un sistema di “doppi carichi”: uno ufficiale, regolarmente fatturato e con accise pagate, e uno “in nero”, che permetteva di trafugare ingenti quantità di combustibile.

In primo e secondo grado, sia il consulente che la società per cui operava erano stati condannati. Il primo per associazione per delinquere e altri reati (poi in parte prescritti o estinti), la seconda per la responsabilità 231 derivante dal reato associativo, poiché si riteneva che l’attività illecita fosse stata posta in essere nell’interesse e a vantaggio della società stessa.

La Decisione della Cassazione sulla responsabilità 231

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del consulente, confermando la sua responsabilità penale per il reato di associazione per delinquere. La motivazione della Corte d’Appello è stata ritenuta logica e coerente, respingendo la tesi difensiva secondo cui le cessioni di carburante “in nero” fossero una compensazione per precedenti forniture di scarsa qualità.

Di segno opposto è stata la decisione sul ricorso della società. La Suprema Corte ha accolto uno dei motivi di ricorso, annullando la sentenza di condanna e rinviando il caso ad un’altra sezione della Corte d’Appello per un nuovo esame. Il punto cruciale della decisione riguarda la prova del cosiddetto “legame soggettivo” tra l’autore del reato e l’ente, disciplinato dall’art. 5 del D.Lgs. 231/2001.

Le Motivazioni: Il Ruolo Apicale o Subordinato Deve Essere Provato

La Cassazione ha evidenziato una carenza fondamentale nella motivazione della sentenza impugnata. I giudici di merito si erano limitati a definire l’autore del reato come “consulente” o come persona che “lavorava nel settore commerciale dell’azienda di famiglia”, senza però specificare quale fosse la sua esatta posizione nell’organigramma aziendale.

L’art. 5 del D.Lgs. 231/2001 distingue due categorie di soggetti la cui condotta può far sorgere la responsabilità dell’ente:
1. Soggetti in posizione apicale (lett. a): persone che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione o direzione, anche di fatto.
2. Soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza (lett. b): i dipendenti e i collaboratori subordinati.

Questa distinzione non è puramente formale, ma ha conseguenze sostanziali sulla prova della “colpa di organizzazione” dell’ente. Se il reato è commesso da un soggetto apicale, la colpa dell’ente è presunta, e spetta alla società dimostrare di aver adottato ed efficacemente attuato un modello organizzativo idoneo a prevenire il reato (inversione dell’onere della prova). Se, invece, il reato è commesso da un subordinato, è l’accusa a dover provare che la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha ritenuto che le affermazioni generiche della Corte d’Appello non permettessero di inquadrare il consulente in una delle due categorie. Non era stato chiarito se egli, pur essendo un consulente esterno, esercitasse di fatto poteri di gestione e controllo tali da qualificarlo come “apicale”, né se fosse un mero esecutore sottoposto alla direzione di altri. Questa mancata specificazione ha reso impossibile una corretta valutazione della colpa di organizzazione e, di conseguenza, ha viziato la motivazione sulla sussistenza stessa della responsabilità 231.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio cardine del sistema di responsabilità 231: la responsabilità dell’ente non è una conseguenza automatica del reato commesso da una persona ad esso legata. È un illecito autonomo, che richiede l’accertamento rigoroso di tutti i suoi elementi costitutivi. Tra questi, il rapporto qualificato tra l’autore del reato e la società è un presupposto indefettibile. L’accusa ha l’onere di provare non solo che il soggetto ha agito per conto dell’ente, ma anche quale specifica posizione egli ricoprisse. Solo così è possibile applicare correttamente i criteri di imputazione della colpa di organizzazione e garantire che la società risponda per un “fatto proprio” e non per un “fatto altrui”.

Quando una società risponde per il reato di associazione per delinquere commesso da un suo consulente?
La società risponde ai sensi del D.Lgs. 231/2001 se il reato è stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio e se viene provato in modo specifico il legame qualificato del consulente con l’ente, ossia se agiva come soggetto in posizione apicale (anche di fatto) o come soggetto sottoposto all’altrui direzione, e se sussiste la colpa di organizzazione dell’ente.

È sufficiente dimostrare che una persona lavora per un’azienda per attribuire a quest’ultima la responsabilità 231?
No. Secondo la sentenza, non sono sufficienti affermazioni generiche come “lavorava nel settore commerciale”. È necessario accertare e provare la specifica qualifica soggettiva rivestita dall’autore del reato all’interno della società (apicale o subordinato), poiché da questa qualifica dipendono i criteri per accertare la colpevolezza dell’ente.

Cosa significa “colpa di organizzazione” e perché è importante definire il ruolo di chi commette il reato?
La “colpa di organizzazione” è il rimprovero mosso all’ente per non aver predisposto un sistema di regole e controlli idoneo a prevenire la commissione di reati. Definire il ruolo dell’autore del reato (apicale o subordinato) è fondamentale perché la legge prevede regimi probatori diversi: nel primo caso, la colpa è presunta e l’ente deve provare la virtuosità del suo modello organizzativo; nel secondo, spetta all’accusa dimostrare che il reato è stato causato da una carenza di vigilanza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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