Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 22082 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 22082 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/05/2025
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
GLYPH
RAGIONE_SOCIALE. NOME
Oggi, 12 61 U. 2025
avverso la sentenza del 22/04/2024 della CORTE APPELLO di TRIESTE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Presidente, NOME COGNOME uditi il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi il ricorso inammissibile e l’avv.to NOME
COGNOME che ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1.Con sentenza in data 22/4/2024 la Corte d’Appello di Trieste, in riforma della sentenza del Tribunale di Gorizia in data 13/4/2022, riqualificato il f cui al capo c) ai sensi dell’art. 25-undecies, comma 2 lett. b) n. 1) e 2 231/01 e riconosciuta l’ipotesi di cui all’art. 12 comma 1 lett. b) della stes rideterminò la pena inflitta alla ricorrente società in quella di 75 quote da € ciascuna. Nei confronti di COGNOME NOME, legale rappresentante della detta so all’epoca dei fatti, fu adottata una sentenza di improcedibilità per prescrizione dei reati lui ascritti, perché estinti per prescrizione.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per Cassazione la RAGIONE_SOCIALE a mezzo del difensore di fiducia, che, con il primo motivo, denuncia la “violazione di legge penale” in relazione: all’ “insussistenza dei reati presupposto di cui al capo a) d’imputazione ovvero all’omessa loro riqualificazione ai sensi dell’art. 256/4 D. L.vo. n. 152/06”; all’ “insussistenza della responsabilit amministrativa della RAGIONE_SOCIALE per difetto dei reato presupposto”; all’ “inconfigurabilità della fattispecie di cui all’art. undecies co. 2 lett. b) n. 1) e 2) D. I.vo 231/01. Si denuncia ancora la “contraddittorietà della motivazione in relazione all’erronea applicazione di norma di legge penale” nonché il “travisamento degli atti”.
Si deduce, al fine di dimostrare l’insussistenza dei reati presupposto configurati a carico di Spessot che:
la società nel 2004 aveva iniziato “l’esercizio delle attività di recupero dei rifiuti in regime semplificato (per i rifiuti non pericolosi previste dai D 05/02/1998) a seguito della “comunicazione di inizio di attività” inviata al competente Ufficio Provincia di Gorizia… (doc. 4)”.
il 17/6/2016, su richiesta della società, era stata rilasciata dalla Provincia d Gorizia l’Autorizzazione Unica Ambientale ai sensi del d.P.R. n. 59/2013, che, al punto 4), prevedeva che l’atto “era valido dalla data del rilascio per un periodo di quindici anni (pag. 11 doc. sub 5)”;
il documento prevedeva che l’autorizzazione sarebbe diventata efficace “fatto salvo che l’esercizio a regime dell’impianto, come prospettato dal progetto, potrà avvenire solo dopo il completamento delle opere previste mentre allo stato attuale la gestione dovrà conformarsi alle previgenti autorizzazioni… (cfr. p. 9 doc. sub 5)”;
le “opere” cui faceva “riferimento l’Autorizzazione erano quelle inerenti le acque reflue” cui faceva riferimento l’art. 2 lett. e) dell’AUA citata;
il teste COGNOME dipendente dei Servizio gestione rifiuti, all’udienza de 19/5/2021, aveva riconosciuto che “la ditta esercita attività di recupero rifiut secondo quanto esplicitato nella comunicazione di inizio attività, dell’agosto 2004…”
Si aggiunge che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello e, prima ancora, dal giudice di prime cure:
“- i rifiuti codice C.E.R. 15.01.06 sono compresi nell’AIA del 2016 depositata sub doc. 5 (p. 1 dell’allegato n. 2);
la Società era autorizzata al trattamento dei rifiuti legnosi, ferrosi secondo i codici di cui all’allegato n. 2 all’AIA 2016, tra cui vi sono anche codice C.E.R. 20.02.01 per cui era autorizzata l’attività di recupero R13 allegato n. 2);
il D.M. dd. 05/02/1998 – e dunque la nota prot. n° 32418/04 dd. 27/12/2004 della Provincia di Gorizia depositata sub doc. 4 – consente la gestione in procedura semplificata di tutti i rifiuti di cui ai codici C.E.R. di cui al cap dell’imputazione (il rifiuto C.ER. 04.04.08 non esiste e, trattandosi di rifiuti roccia, deve essere correttamente inteso come 01.04.08), ad eccezione dei soli codici C.E.R. 17.03.02, 20.02.02, 20.03.07 e 19.12.12″.
Da tali premesse la difesa perviene alla conclusione che “la ditta operava comunque sulla base di un atto autorizzativo valido” per cui i reati contestati al capo a) d’imputazione, in relazione alle fattispecie di cui all’art. 256 comma 1 lett. a) d. I.vo 152/06, non erano configurabili o, al massimo, dovevano essere qualificati ai sensi dell’art. 256/4 del d. I.vo citato.
Si conclude, quindi, che l’illecito amministrativo configurato a carico della società non era rimasto integrato non ricorrendo l’ipotesi di cui all’alt 25-undecies comma 2 lett. b) n. 1) e 2) d. I.vo 231/01 ovvero ricorrendo l’ipotesi di cui all’ar 256 comma 4 del d.l.vo 152/06 per il quale non è “contemplata la sanzione pecuniaria di cui al citato art. 25-undecies”.
2.1 Con il secondo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 5 d. L.vo 231/01 per “l’insussistenza di un interesse e/o un vantaggio in favore dell’Ente” nonché il vizio di motivazione e il travisamento della prova.
Si deduce che COGNOME era socio unico e amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE e, come dichiarato dalla teste COGNOME, accentrava su di sé il ” potere direttivo, gestionale e il potere di spesa” per cui non er configurabile un interesse aziendale distinto da quella della persona fisica che deteneva il capitale sociale.
Non significativo, invece, risultava il numero di dipendenti valorizzato dalla Corte territoriale per ritenere che sussistesse una dualità soggettiva fra Spessot e l’ente.
Si rappresenta, ancora, che la società non aveva conseguito alcun vantaggio economico non essendo stata rinvenuta sui conti correnti della società una cifra corrispondente a quella, pari a C 300.000,00, ipotizzata come illecitamente risparmiata, dalla Corte territoriale.
2.2 Con il terzo motivo si denuncia la violazione “dell’art. 11/3 d.l.vo 231/01 per l’eccessività della pena” e il vizio motivazionale. Si assume che l’art. 11 comma 3 statuisce che “nei casi previsti dall’art. 12 comma 1, l’importo della quota è sempre di C 103” per cui il valore delle quote di C 300,00 fissato dalla Corte territoriale era contra legem.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata.
Snodo cruciale della sentenza impugnata è rappresentato dall’inefficacia dell’autorizzazione unica rilasciata con la determina 700/2016 per non essere stati eseguiti i lavori previsti negli elaborati progettuali.
Il ricorso, tuttavia, richiama proprio la predetta autorizzazione per sostenere la liceità delle attività di gestione dei rifiuti codice C.E.R. 15.01.06 e C.E. 20.02.01.
Il ricorso, ancora, riporta un passo della deposizione di COGNOME per dimostrare che la società operava, comunque, “sulla base a un atto autorizzativo”. Si ignora però la parte restante della deposizione, la cui valorizzazione è consentita dall’allegazione al ricorso del verbale di stenotipia, rispecchia fedelmente quanto esposto nelle sentenze dei giudici di merito, ossia che “le attività elencate nel capo di imputazione non rientravano in quelle consentite ed i rifiuti trattati non erano ricompresi tra quelli tassativamente indicati dal DM 5/2/1998”.
Le violazioni accertate, quindi, erano relative a profili che attenevano alla corrispondenza tra i rifiuti oggetto della procedura semplificata antecedente all’autorizzazione rimasta inefficace e quelli effettivamente trattati, al rispetto de provenienza e destinazione previsti dalla disciplina tecnica e alla conformità delle operazioni effettuate rispetto al recupero tipizzato dalla disciplina semplificata, così da giustificare ampiamente la conclusione cui perviene la Corte territoriale che riconduce le plurime violazioni accertate nello spettro di applicazione dell’art. 256 comma 1 d.lgs. 152/2006.
2. Manifestamente infondato risulta il secondo motivo del ricorso.
L’applicazione della disciplina del d. Igs. 231/2001 alle società di capitali unipersonali è tema delicato in quanto, in caso di ridotte dimensione dell’azienda, qualora sussista una piena identificazione tra gli interessi personali della persona fisica e l’ente, vi è il concreto rischio di duplicazione della sanzione nei confron del medesimo soggetto.
Come osservato dalla Corte territoriale, la giurisprudenza di legittimità ammette l’inclusione tra i destinatari della disciplina dettata dal d.l.vo 9 giugn 2001, n. 231 delle società unipersonali, “a condizione che sia individuabile un interesse sociale distinto da quello dell’unico socio, tenendo conto dell’organizzazione della società, dell’attività svolta e delle dimension dell’impresa, nonché dei rapporti tra socio unico e società” (Sez. 6, n. 45100 del 16/02/2021, New Events Rv. 282291 – 01).
Di tale approdo giurisprudenziale, che trova conforto nel dato normativo, prevedendo l’art. 6 comma 4 che negli enti di piccole dimensioni i compiti indicati nella lettera b), del comma 1 possono essere svolti direttamente dall’organo
dirigente, ha fatto buon governo la Corte territoriale che ha valorizzato il numero di dipendenti della società e l’organizzazione aziendale, tutt’altro rudimentale e
inconsistente, come comprovato dal numero dei dipendenti e dal valore dei beni che compongono il patrimonio sociale.
Il processo inferenziale attraverso cui si perviene alla dualità soggettiva fra ente e persona fisica sviluppato nella sentenza impugnata non presta il fianco alle
censure difensive dimostrando che l’ente è connotato da interessi propri, da un’organizzazione articolata e da un patrimonio consistente che lo rendono un
soggetto economico e giuridico differente dalla persona fisica che lo amministra e che detiene il capitale sociale.
Anche in relazione al requisito dell’interesse e del vantaggio, la motivazione della corte territoriale non presenta i vizi denunciati, non risultando contestato che
“lo stesso COGNOME ha dichiarato che la società aveva risparmiato C 300.000″. Tale dichiarazione viene, nel ragionamento probatorio della Corte territoriale,
corroborato dalla valorizzazione dei costi sostenuti dalla società per le operazioni di smaltimento dei rifiuti.
La tenuta logica del processo inferenziale contestato non è scalfita dall’argomento difensivo secondo il quale tale risparmio di spesa sarebbe smentito dal mancato rinvenimento nei conti correnti della società di importi corrispondenti agli esborsi non effettuati, non sussistendo il legame di necessaria derivazione fra il risparmio di spesa e la liquidità dell’impresa cui il ricorso ricorre per contesta la riferibilità dei reati all’ente.
3. E’, invece, fondato l’ultimo motivo del ricorso.
La Corte territoriale ha ritenuto ricorrere l’ipotesi di cui all’art. 12 comma lett. b. d.l.vo 231/01 non “essendo stati accertati danni all’ambiente”.
L’art. 11 comma 3 prevede, in questo caso, che il valore della quota debba essere pari a C 103,00; risulta, pertanto, illegale il valore di C 300,00 determinato in sentenza.
Il valore imposto dalla norma da ultimo citata consente a questa Corte di procedere alla rideterminazione della pena senza necessità di investire sul punto la Corte territoriale.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti della società limitatamente alla pena, determinando il valore della singola quota in C 103. Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso il 15/5/2025