Resistenza Passiva: i Limiti tra Opposizione Lecita e Reato
L’ordinanza n. 23334 del 2024 della Corte di Cassazione offre un’importante occasione per delineare i confini del reato di resistenza a pubblico ufficiale, distinguendo nettamente tra la resistenza passiva, non punibile, e la condotta attiva che integra il delitto. Il caso analizzato riguarda un cittadino che, opponendosi a una visita domiciliare, ha sostenuto che il suo comportamento fosse meramente passivo, ma la Corte ha ribadito un principio fondamentale: la minaccia verbale è un’azione, non un’omissione.
I Fatti: la Visita Domiciliare Interrotta
La vicenda trae origine da un intervento programmato da parte di un’assistente sociale e un agente della Polizia Municipale presso l’abitazione di un soggetto. Giunti sul posto per effettuare una visita domiciliare, i due pubblici ufficiali si sono trovati di fronte a un atteggiamento fortemente ostativo. L’uomo ha manifestato un comportamento definito nelle sentenze di merito come “oppositivo e minaccioso”, arrivando a proferire minacce, anche di morte. Tale condotta ha indotto i due funzionari a desistere dal loro intento e a soprassedere, per evitare un’escalation.
Nei gradi di merito, l’imputato è stato condannato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, previsto dall’art. 337 del Codice Penale.
Il Ricorso in Cassazione: la Tesi della Resistenza Passiva
La difesa dell’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, basando le proprie argomentazioni su una presunta errata valutazione dei fatti. Secondo il ricorrente, il suo comportamento si sarebbe limitato a una “mera resistenza passiva”, ovvero un atteggiamento di semplice non collaborazione, che per costante giurisprudenza non è sufficiente a integrare il reato. La tesi difensiva mirava a declassare la condotta da un’azione penalmente rilevante a una forma di ostruzionismo non punibile.
Inoltre, il ricorso contestava la mancata concessione delle attenuanti generiche, ritenendo che le scuse postume avrebbero dovuto mitigare il trattamento sanzionatorio.
La Decisione della Cassazione sulla Resistenza Passiva
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando integralmente la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno stabilito che i motivi del ricorso non erano ammissibili in sede di legittimità, in quanto si trattava di “mere doglianze in punto di fatto”. In altre parole, la difesa chiedeva alla Cassazione una nuova valutazione delle prove, un compito che non le spetta.
La Corte ha inoltre condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di tremila euro alla cassa delle ammende, come conseguenza dell’inammissibilità dell’impugnazione.
Le Motivazioni: Minaccia non è Resistenza Passiva
Il cuore della decisione risiede nella netta distinzione tra resistenza attiva e passiva. La Corte ha sottolineato come la sentenza impugnata avesse correttamente evidenziato il contegno “oppositivo e minaccioso” dell’imputato. Le minacce, soprattutto quelle di morte, non possono in alcun modo essere ricondotte alla nozione di resistenza passiva. Esse costituiscono una forma di violenza morale che si concretizza in una condotta attiva, volta a coartare la volontà del pubblico ufficiale e a impedirgli di compiere l’atto del proprio ufficio. La condotta dell’imputato, minacciando i funzionari, ha integrato pienamente la fattispecie di cui all’art. 337 c.p., che punisce chiunque usi violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale.
Le Motivazioni: la Conferma sull’Assenza di Attenuanti
Anche per quanto riguarda il diniego delle attenuanti generiche, la Cassazione ha ritenuto la motivazione della Corte d’Appello congrua e immune da vizi logici. I giudici di merito avevano infatti valorizzato elementi negativi specifici, come i “plurimi precedenti penali, anche specifici” dell’imputato. In questo contesto, le “scuse postume” sono state giudicate insufficienti a giustificare una mitigazione della pena, non emergendo dagli atti altri elementi positivi di personalità che potessero bilanciare la gravità della condotta e la pericolosità sociale del soggetto.
Le Conclusioni: i Confini del Reato di Resistenza
L’ordinanza ribadisce un principio cruciale: la linea di demarcazione tra un’opposizione lecita e il reato di resistenza a pubblico ufficiale è netta. La resistenza passiva si esaurisce in un comportamento di inerzia, di non collaborazione (ad esempio, rifiutarsi di aprire la porta senza proferire minacce). Quando a tale comportamento si aggiunge l’elemento della minaccia, anche solo verbale, la condotta trascende nel penalmente rilevante. Questa decisione serve da monito: la libertà di dissentire o di opporsi agli atti della pubblica amministrazione non può mai tradursi in intimidazioni o minacce, che costituiscono un’aggressione alla funzione pubblica e, come tali, vengono giustamente sanzionate.
Quando un comportamento di opposizione a un pubblico ufficiale diventa reato?
Un comportamento di opposizione diventa reato di resistenza (art. 337 c.p.) quando supera la mera ‘resistenza passiva’ (come la non collaborazione) e si traduce in una condotta attiva di violenza o minaccia, anche solo verbale, finalizzata a impedire al pubblico ufficiale di compiere un atto del suo ufficio.
Le scuse presentate dopo aver commesso il fatto possono garantire una riduzione della pena?
Non necessariamente. Come emerge da questa ordinanza, le ‘scuse postume’ possono non essere ritenute sufficienti per concedere le attenuanti generiche e mitigare la sanzione, specialmente in presenza di elementi negativi come i precedenti penali specifici dell’imputato.
Perché la Corte di Cassazione può dichiarare un ricorso inammissibile senza esaminare i fatti?
La Corte di Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito. Il suo compito è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione, non riesaminare le prove o ricostruire i fatti. Se un ricorso si limita a contestare la valutazione delle prove già fatta dai giudici di primo e secondo grado (‘doglianze di fatto’), viene dichiarato inammissibile.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 23334 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 23334 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 31/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME EBOLI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 20/12/2023 della CORTE APPELLO di MESSINA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
visti gli atti e la sentenza impugnata; dato avviso alle parti; esaminati i motivi del ricorso di COGNOME NOME; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
Ritenuto che i motivi dedotti nel ricorso in relazione alla condanna per il reato di cui all’art. 337 cod. pen. – peraltro riproduttivi di censure già adeguatamente vagliate e disattese dai giudici del merito con corretti argomenti giuridici (Sez. 1, n. 29614 del 31/03/2022; Rv. 283376) – non sono consentiti dalla legge in sede di legittimità, perché costituiti da mere doglianze in punto di fatto sviluppate sulla scorta di un’alternativa valutazione delle risultanze di prova derivanti dalle dichiarazioni rese dai verbalizzanti e senza un effettivo confronto con gli elementi posti a fondamento della sentenza impugnata (si veda la motivazione a pag. 3) in cui viene evidenziato il contegno “oppositivo e minaccioso” posto in essere dall’imputato a danno dell’assistente sociale e dell’agente della Polizia municipale, affatto limitato alla “mera resistenza passiva”, richiamando il comportamento del COGNOME (l’imputato li minacciava, anche di morte, di tal che i predetti decidevano di soprassedere, non procedendo alla visita domiciliare), integrante una condotta rientrante nella fattispecie di cui all’art. 337 cod. pen. L’esclusione delle attenuanti generiche è stata congruamente motivata (e dunque la relativa statuizione è insindacabile in questa sede) avendo la Corte di appello richiamato in particolare i “plurimi precedenti penali, anche specifici … né dagli atti emergono elementi positivi valorizzabili in tal senso, non essendo sufficienti le scuse postume giustificare una mitigazione del trattamento sanzioNOMErio”;
Considerato che all’inammissibilità dell’impugnazione segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende, che si ritiene conforme a giustizia liquidare come in dispositivo.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
DEPOSITATA Così deciso il 31 magglo 2024