Resistenza a Pubblico Ufficiale: Quando Scatta il Concorso di Reati
La distinzione tra il reato di violenza o minaccia e quello di resistenza a pubblico ufficiale è un tema cruciale nel diritto penale, spesso oggetto di dibattito nelle aule di giustizia. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (Num. 23352/2024) ha fornito importanti chiarimenti su quando queste due fattispecie possano addirittura concorrere, delineando i confini applicativi degli articoli 336 e 337 del codice penale. Analizziamo insieme questa decisione per comprenderne la portata.
I Fatti del Caso e i Motivi del Ricorso
Il caso trae origine dal ricorso presentato da un imputato avverso una sentenza della Corte di Appello che lo aveva condannato per i reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale, unificati dal vincolo della continuazione (art. 81 c.p.). L’imputato, attraverso il suo difensore, sollevava due principali motivi di doglianza:
1. Errata applicazione della legge penale: Sosteneva che i fatti dovessero essere inquadrati in una sola delle due fattispecie (art. 336 o art. 337 c.p.), e non in entrambe.
2. Mancata motivazione: Lamentava che la Corte di Appello non avesse adeguatamente motivato il diniego della concessione delle attenuanti generiche.
Il ricorrente chiedeva quindi alla Suprema Corte di annullare la sentenza impugnata, ritenendo che la sua condotta non potesse integrare contemporaneamente entrambi i reati.
La Decisione della Cassazione sulla Resistenza a Pubblico Ufficiale
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione dei giudici di merito. Gli Ermellini hanno ritenuto che i motivi presentati fossero costituiti da ‘mere doglianze in punto di fatto’, non ammissibili in sede di legittimità, dove il giudizio è limitato alla corretta applicazione del diritto. La motivazione della Corte di Appello è stata giudicata completa, logica e priva di vizi.
Le Motivazioni della Corte
La decisione della Suprema Corte si fonda su due pilastri argomentativi principali, uno relativo alla distinzione tra i reati e l’altro concernente le attenuanti generiche.
La Distinzione Temporale tra Violenza e Resistenza
Il punto centrale della motivazione riguarda il concorso tra il reato di violenza o minaccia (art. 336 c.p.) e quello di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.). La Corte ha avallato la ricostruzione dei giudici di merito, secondo cui la condotta dell’imputato si era sviluppata in due momenti distinti e separati:
1. Prima Fase (Art. 336 c.p.): L’imputato, con violenza e minaccia, ha impedito agli operatori della Polizia Penitenziaria di compiere un atto del loro ufficio. Questa azione si è collocata prima che l’atto d’ufficio avesse inizio, con lo scopo di costringere i pubblici ufficiali a ometterlo.
2. Seconda Fase (Art. 337 c.p.): Successivamente, l’imputato si è opposto agli stessi agenti durante il compimento di un distinto atto del loro ufficio, cercando di impedirlo mentre era in corso di esecuzione.
La Cassazione ha ribadito un principio di diritto consolidato: si configura il reato di cui all’art. 336 c.p. quando la violenza o la minaccia sono esercitate anteriormente all’inizio dell’esecuzione dell’atto, per costringere il pubblico ufficiale a non compierlo. Si versa, invece, nell’ipotesi di cui all’art. 337 c.p. (resistenza) quando la condotta violenta o minacciosa è posta in essere durante il compimento dell’atto d’ufficio, al fine di ostacolarlo.
Il Diniego delle Attenuanti Generiche
Anche il secondo motivo di ricorso è stato respinto. La Corte ha ritenuto immune da censure la motivazione con cui erano state negate le attenuanti generiche. Il giudice di primo grado, la cui decisione era stata confermata in appello, aveva basato il diniego sulla ‘gravità del fatto, delle modalità dell’azione, e della sua indole delinquenziale’. Inoltre, aveva definito l’imputato come un ‘soggetto recidivo che ostacola la concessione di ogni beneficio di legge’.
Pur riconoscendo come ‘atecnica’ la definizione di ‘recidivo’ in quel contesto specifico, la Cassazione ha considerato tale valutazione idonea a giustificare l’assenza dei presupposti per il riconoscimento delle attenuanti. In sostanza, quando un giudice fornisce una motivazione adeguata sulla determinazione della pena, basata su elementi concreti di gravità, la richiesta di attenuanti generiche, fondata su motivi analoghi, può ritenersi implicitamente disattesa.
Conclusioni
L’ordinanza in esame ribadisce con chiarezza il criterio distintivo tra il reato di violenza e quello di resistenza a pubblico ufficiale: l’elemento temporale. La collocazione della condotta illecita prima o durante l’esecuzione dell’atto d’ufficio determina la qualificazione giuridica del fatto. La decisione sottolinea inoltre che, in presenza di condotte distinte nel tempo e finalizzate a scopi diversi (prima impedire, poi opporsi), i due reati possono pienamente concorrere. Infine, conferma che per ottenere le attenuanti generiche non basta una richiesta formale, ma è necessario che non vi siano elementi di gravità, legati al fatto e alla personalità dell’imputato, che il giudice ha il dovere di valutare nel commisurare la pena.
Qual è la differenza fondamentale tra il reato di violenza a pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) e quello di resistenza (art. 337 c.p.)?
La differenza risiede nel momento in cui avviene la violenza o la minaccia. Si ha violenza (art. 336 c.p.) se questa è esercitata prima dell’inizio dell’atto d’ufficio per costringere il pubblico ufficiale a ometterlo. Si ha invece resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) se la violenza o minaccia avviene durante il compimento dell’atto per impedirlo.
I reati di violenza e resistenza a pubblico ufficiale possono essere contestati insieme per lo stesso episodio?
Sì, la Corte ha ritenuto che i due reati possono concorrere quando la condotta dell’imputato si articola in due momenti distinti: una prima fase in cui si impedisce il compimento di un atto d’ufficio (violenza ex art. 336) e una seconda fase in cui ci si oppone agli agenti durante il compimento di un diverso atto del loro ufficio (resistenza ex art. 337).
È sufficiente che il giudice motivi la gravità del fatto per negare le attenuanti generiche?
Sì, secondo la Corte la richiesta di concessione delle attenuanti generiche può ritenersi implicitamente respinta quando il giudice motiva adeguatamente la determinazione della pena, basandosi su elementi come la gravità del fatto, le modalità dell’azione e l’indole del soggetto.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 23352 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 23352 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 31/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto
da:
COGNOME NOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 14/09/2023 della CORTE APPELLO di CAMPOBASSO
dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
visti gli atti e la sentenza impugnata; dato avviso alle parti; esaminati i motivi del ricorso di NOME; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
Ritenuto che i motivi dedotti nel ricorso avverso la condanna per i reati di cui agli artt. 81, 336 e 337 cod. pen. non sono consentiti dalla legge in sede di legittimità, perché costituiti da mere doglianze in punto di fatto ed incentrati sulla denuncia del vizio di omessa motivazione che la lettura del provvedimento impugnato rivela essere completa e logicamente ineccepibile e dalla quale si evince l’insussistenza dei dedotti vizi di motivazione. Invero, la Corte territoriale ha, i modo congruo, ritenuto sussistente il concorso tra le due fattispecie, evidenziando che “la condotta complessivamente posta in essere dal NOME debba essere distinta in due differenti momenti, e ciascuno dei relativi comportamenti ha integrato un (distinto) illecito penale”: una prima fase nella quale l’imputato con violenza e minaccia impediva agli operatori della Polizia penitenziaria di compiere un atto di ufficio; una seconda fase nella quale il predetto si opponeva agli agenti durante il compimento di un distinto atto del loro ufficio. Risultano dunque integrati entrambi i reati, atteso che in tema di rapporti tra le fattispecie previste dagli artt 336 e 337 cod. pen., quando la violenza o la minaccia dell’agente nei confronti del pubblico ufficiale è posta in essere durante il compimento dell’atto d’ufficio, per impedirlo, si ha resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., mentre si versa nell’ipotesi di cui all’art. 336 cod. pen. se la violenza o la minaccia è portata contro il pubblico ufficiale per costringerlo ad omettere un atto del suo ufficio anteriormente all’inizio di esecuzione (Sez. 6, n. del 7992 del 17/06/2014, COGNOME, Rv. 262623 – 01). In relazione al secondo motivo del ricorso, nel quale si lamenta la mancata motivazione della Corte di appello in ordine alla richiesta di concessione delle attenuanti generiche, va rilevato che la motivazione sul punto del Tribunale (alla quale la sentenza impugnata si richiama nell’indicare che la decisione del primo giudice “nel resto è confermata”) è immune da censure. Invero, la sentenza di primo grado ha dato atto che nella determinazione della pena si è tenuto conto “della gravità del fatto, delle modalità dell’azione, e della sua indole delinquenziale”, e ha altresì precisato che trattasi di “soggetto recidivo che ostacola la concessione di ogni beneficio di legge”; indicazione che, al netto della atecnica definizione di “recidivo” (la Corte territoriale ha rilevato che detta aggravante non era stata contestata, riducendo pertanto la pena), appare idonea anche al fine di giustificare l’assenza dei presupposti per il riconoscimento delle attenuanti generiche (sul punto v, ex multis, Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019, Corte di Cassazione – copia non ufficiale
COGNOME, Rv. 275057 – 01: «la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche deve ritenersi disattesa con motivazione implicita allorché sia adeguatamente motivato il rigetto della richiesta di attenuazione del trattamento sanzionatorio, fondata su analogo ordine di motivi»).
Considerato che all’inammissibilità dell’impugnazione segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende, che si ritiene conforme a giustizia liquidare come in dispositivo.
P. Q M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila euro in favore della cassa delle ammende.
Così deciso il 31 maggio 2024
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