Resistenza a Pubblico Ufficiale: Quando il Semplice Rifiuto Diventa Reato
Il confine tra una legittima opposizione e il reato di resistenza a pubblico ufficiale è spesso sottile, ma la giurisprudenza ha tracciato linee guida precise. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su un caso emblematico, chiarendo che il rifiuto di ricevere la notifica di un atto, se accompagnato da minacce, perde ogni carattere di legittimità e integra pienamente la fattispecie penale. Analizziamo insieme la vicenda e le conclusioni dei giudici.
I Fatti di Causa
La vicenda ha origine dal ricorso presentato da un individuo contro la sentenza della Corte d’Appello che lo aveva condannato per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. L’imputato sosteneva di essersi limitato a un semplice rifiuto verbale della notifica di un’ordinanza, accompagnato da minacce generiche. A suo dire, tale condotta non poteva essere qualificata come una vera e propria resistenza, ma come una mera manifestazione di dissenso.
In sostanza, la difesa puntava a derubricare il comportamento da un’azione penalmente rilevante a un semplice atto di opposizione passiva, ritenuto non punibile.
L’Analisi della Corte sul Reato di Resistenza a Pubblico Ufficiale
La Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso, lo ha ritenuto manifestamente infondato. I giudici hanno sottolineato come l’appellante non si fosse confrontato adeguatamente con la puntuale motivazione della sentenza impugnata. La Corte d’Appello, infatti, aveva chiarito in modo inequivocabile che le minacce non erano state generiche, ma specificamente rivolte ai militari presenti per impedire loro di portare a termine il proprio dovere: la notifica di un’ordinanza di sottoposizione a un provvedimento cautelare.
Questo elemento è cruciale. La Corte Suprema distingue nettamente tra una “mera manifestazione del rifiuto della notifica” e un “comportamento oppositivo” finalizzato a ostacolare un atto d’ufficio. Le minacce, in questo contesto, trasformano un potenziale dissenso in un’azione illegittima e intimidatoria.
Le Motivazioni della Corte di Cassazione
La motivazione della Suprema Corte si fonda su un principio cardine del diritto penale: per configurare il reato di resistenza a pubblico ufficiale, è sufficiente che la violenza o la minaccia siano idonee a ostacolare l’atto d’ufficio, anche senza che questo venga effettivamente impedito. Nel caso di specie, il comportamento dell’imputato era chiaramente finalizzato a questo scopo.
La Corte ha specificato che un tale comportamento oppositivo non può essere considerato legittimo. Il rifiuto di adempiere a un ordine dell’autorità, quando si traduce in minacce, cessa di essere una semplice espressione di volontà e diventa un’azione illecita. Di conseguenza, il ricorso è stato dichiarato inammissibile, in quanto le argomentazioni difensive erano palesemente prive di fondamento giuridico e non scalfivano la logica della decisione precedente.
Conclusioni
L’ordinanza ribadisce un principio fondamentale: il cittadino non può opporsi con minacce all’esecuzione di un atto d’ufficio. La distinzione tra un rifiuto passivo e una resistenza attiva è data proprio dalla presenza di un comportamento intimidatorio o violento. Questa decisione serve da monito: anche quelle che possono sembrare minacce “generiche” vengono considerate, nel contesto di un’interazione con pubblici ufficiali, come un mezzo per impedire l’esercizio delle loro funzioni, integrando così il grave reato di resistenza. La Corte ha inoltre condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma a favore della Cassa delle ammende, confermando la piena validità della condanna iniziale.
Quando il rifiuto di ricevere un atto si trasforma in resistenza a pubblico ufficiale?
Secondo la Corte, il rifiuto si trasforma in resistenza quando è accompagnato da minacce rivolte ai pubblici ufficiali con lo scopo di impedire loro di compiere un atto del proprio ufficio, come la notifica di un provvedimento.
Perché le minacce sono state considerate un elemento decisivo nel caso specifico?
Le minacce sono state decisive perché hanno qualificato la condotta dell’imputato non come una mera e legittima manifestazione di rifiuto, ma come un comportamento oppositivo illegittimo, finalizzato a ostacolare l’attività dei militari.
Qual è stata la decisione finale della Corte di Cassazione e perché?
La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile. La decisione è stata motivata dal fatto che le argomentazioni del ricorrente erano manifestamente infondate e non contestavano efficacemente la logica della sentenza d’appello, la quale aveva correttamente qualificato i fatti come reato di resistenza a pubblico ufficiale.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 10764 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 10764 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a BENEVENTO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 27/04/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
OSSERVA
letthitricorsOpropostOnell’interesse di NOME COGNOME avverso la sentenza in epigrafe indicata;
rilevato che il ricorrente contesta la qualificazione della condotta in,/ relazione al reato di resistenza a pubblico ufficiale, deducendo di essersi limitato a rifiutare la notifica di un’ordinanza e di aver rivolto generiche minacce;
ritenuto che il motivo è manifestamente infondato, non confrontandosi con la puntuale motivazione della sentenza impugnata, lì dove si dà atto che le minacce erano rivolte ai militari per impedire il compimento di un atto d’uffici (notifica dell’ordinanza di sottoposizione a provvedimento cautelare), né può ritenersi che tale comportamento oppositivo sia legittimo, in quanto mera manifestazione del rifiuto della notifica;
ritenuto, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 5 febbraio 2024
Il Consigliere estensore
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