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Resistenza a pubblico ufficiale: quando il ricorso è nullo

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per resistenza a pubblico ufficiale. La Corte ha stabilito che non si trattava di semplice fuga, ma di un’azione fisica di contrasto. Inoltre, ha ribadito che la misura della pena non può essere contestata se è inferiore alla media prevista dalla legge, confermando la condanna e sanzionando il ricorrente per l’appello infondato.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a pubblico ufficiale: la Cassazione traccia i confini dell’inammissibilità

Un’ordinanza recente della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sui limiti del ricorso contro una condanna per resistenza a pubblico ufficiale. La Suprema Corte ha analizzato il caso di un individuo che contestava sia la configurabilità del reato sia l’entità della pena, fornendo principi guida fondamentali per distinguere la semplice fuga da un’opposizione penalmente rilevante e per valutare la congruità della sanzione.

I Fatti di Causa

Il caso nasce dal ricorso presentato da un uomo contro la sentenza della Corte d’Appello che aveva confermato la sua condanna per i reati di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), possesso di documenti falsi (art. 497-bis c.p.) e rifiuto di fornire le proprie generalità (art. 651 c.p.). L’imputato aveva deciso di portare la questione davanti alla Suprema Corte di Cassazione, lamentando vizi di motivazione nella decisione dei giudici di secondo grado.

I Motivi del Ricorso

L’appellante basava il suo ricorso su due argomenti principali:

1. Errata configurazione del reato: Sosteneva che la sua condotta non integrasse gli estremi del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, ma si fosse limitata a un tentativo di fuga non violento.
2. Pena eccessiva: Riteneva che la sanzione inflittagli fosse sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti commessi.

La Decisione della Cassazione sulla Resistenza a Pubblico Ufficiale

La Corte di Cassazione ha rigettato completamente le argomentazioni della difesa, dichiarando il ricorso inammissibile. La decisione si fonda su un’analisi rigorosa di entrambi i motivi di doglianza, ribadendo principi consolidati della giurisprudenza di legittimità.

La distinzione tra fuga e opposizione fisica

Sul primo punto, i giudici hanno sottolineato che il motivo era ‘manifestamente infondato’. È emerso infatti che l’imputato non si era limitato a fuggire, ma aveva posto in essere una vera e propria ‘azione antagonista di tipo fisico’ nei confronti degli agenti di polizia intervenuti per eseguire un ordine di carcerazione. Questa distinzione è cruciale: la semplice fuga non è sufficiente a configurare il reato, ma un’opposizione attiva e fisica, volta a impedire l’atto d’ufficio, ne costituisce l’elemento materiale.

I limiti alla contestazione della pena

Per quanto riguarda il secondo motivo, la Corte ha specificato che non era ‘consentito’. Secondo un orientamento giurisprudenziale costante, il giudice è tenuto a fornire una motivazione dettagliata sulla determinazione della pena solo quando questa si discosta notevolmente verso l’alto rispetto al ‘medio edittale’, ovvero la media tra il minimo e il massimo previsti dalla legge. Nel caso specifico, la pena inflitta era non solo adeguatamente motivata, ma anche ‘ampiamente inferiore’ a tale soglia. Di conseguenza, le lamentele del ricorrente sono state liquidate come semplici valutazioni di merito, non ammissibili in sede di legittimità.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La motivazione della Corte si articola su due pilastri fondamentali del diritto processuale penale. In primo luogo, la valutazione della fondatezza del ricorso. Il primo motivo è stato definito ‘manifestamente infondato’ perché le prove indicavano chiaramente un comportamento attivo di opposizione, non una mera fuga passiva. La Corte non riesamina i fatti, ma controlla la logicità della motivazione della sentenza impugnata, che in questo caso era solida.

In secondo luogo, la Corte ha riaffermato i limiti del proprio sindacato sulla quantificazione della pena. La determinazione della sanzione è una prerogativa del giudice di merito, che esercita un potere discrezionale. La Cassazione può intervenire solo in caso di manifesta illogicità della motivazione o quando la pena sia talmente elevata da richiedere una giustificazione rafforzata, circostanza non verificatasi nel caso di specie dove la pena era, al contrario, mite.

Le Conclusioni e Implicazioni Pratiche

L’ordinanza ha conseguenze pratiche rilevanti. Anzitutto, conferma che per integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale è necessaria una condotta attiva di contrasto, non essendo sufficiente il solo tentativo di sottrarsi all’arresto. In secondo luogo, scoraggia ricorsi pretestuosi sull’entità della pena, specialmente quando questa si attesta su livelli inferiori alla media legale. Infine, la declaratoria di inammissibilità ha comportato per il ricorrente la condanna al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro alla Cassa delle ammende, a dimostrazione dei rischi economici connessi a un’impugnazione infondata.

La semplice fuga integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale?
No. Secondo la Corte, per configurare il reato è necessaria un’azione attiva di opposizione fisica (‘azione antagonista di tipo fisico’) e non un mero tentativo di darsi alla fuga per sottrarsi all’arresto.

È sempre possibile contestare in Cassazione la misura della pena ritenuta eccessiva?
No. La Corte ha chiarito che tale contestazione non è consentita quando la pena inflitta è ampiamente inferiore al ‘medio edittale’ (la media prevista dalla legge). Una motivazione dettagliata sulla pena è richiesta solo quando questa è di gran lunga superiore a tale media.

Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità di un ricorso in Cassazione?
La dichiarazione di inammissibilità comporta, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della Cassa delle ammende, in questo caso stabilita in tremila euro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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