LexCED: l'assistente legale basato sull'intelligenza artificiale AI. Chiedigli un parere, provalo adesso!

Resistenza a pubblico ufficiale: quando è reato?

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un uomo condannato per resistenza a pubblico ufficiale. Il caso riguardava minacce gravi rivolte a agenti intervenuti su chiamata della compagna. La Corte ha confermato che il reato si configura quando la minaccia ha lo scopo specifico di impedire l’atto d’ufficio, e che la condotta è rilevante anche se avviene in fasi successive all’identificazione, purché funzionalmente collegate all’intervento.

Prenota un appuntamento

Per una consulenza legale o per valutare una possibile strategia difensiva prenota un appuntamento.

La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)
Pubblicato il 13 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a Pubblico Ufficiale: la Cassazione chiarisce i confini del reato

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale, previsto dall’art. 337 del Codice Penale, è spesso al centro di dibattiti giuridici. Quando una condotta oppositiva nei confronti delle forze dell’ordine supera il limite della legalità? Un’ordinanza recente della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti, analizzando un caso in cui un uomo aveva pesantemente minacciato degli agenti intervenuti per una lite domestica. Vediamo nel dettaglio i fatti e i principi di diritto affermati dai giudici.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine da un intervento delle forze dell’ordine, chiamate da una donna che si sentiva minacciata dal proprio compagno. Giunti sul posto, gli agenti venivano accolti da un atteggiamento aggressivo e oppositivo da parte dell’uomo. Quest’ultimo, secondo quanto ricostruito nei gradi di merito, li aveva minacciati pesantemente con lo scopo esplicito di impedire loro di compiere gli atti del proprio ufficio, ovvero di accertare la situazione e prestare soccorso alla donna.

A seguito di questi eventi, l’uomo veniva condannato in primo grado e in appello per il delitto di resistenza a pubblico ufficiale.

L’impugnazione e i motivi del ricorso

L’imputato decideva di ricorrere in Cassazione, affidando la sua difesa a due principali argomentazioni:

1. Errata qualificazione giuridica: Secondo la difesa, i fatti avrebbero dovuto essere inquadrati nei meno gravi reati di lesioni e minacce, e non in quello di resistenza.
2. Momento della condotta: L’atteggiamento aggressivo si sarebbe manifestato in un momento successivo alla fase di identificazione, e quindi non “mentre” il pubblico ufficiale compiva l’atto d’ufficio, come richiesto dalla norma.

In sostanza, si contestava la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 337 c.p., sia sotto il profilo soggettivo (l’intenzione) sia oggettivo (la contemporaneità dell’azione).

Le motivazioni della Suprema Corte sulla resistenza a pubblico ufficiale

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendolo generico e manifestamente infondato. I giudici hanno colto l’occasione per ribadire alcuni principi fondamentali in materia di resistenza a pubblico ufficiale.

In primo luogo, è stato chiarito che per configurare questo reato è necessario il dolo specifico, ovvero la coscienza e volontà di usare violenza o minaccia con il fine preciso di opporsi al compimento di un atto d’ufficio. Non si tratta di un generico atteggiamento aggressivo o di volgarità, ma di una condotta finalizzata a incidere sull’attività del pubblico ufficiale per costringerlo a omettere un atto dovuto o a compierne uno contrario ai suoi doveri. Nel caso di specie, le minacce erano palesemente dirette a impedire agli agenti di procedere.

In secondo luogo, la Corte ha affrontato la questione temporale. L’inciso della norma “mentre compie l’atto del suo ufficio” non va interpretato in modo restrittivo, come se si riferisse a un singolo istante. Al contrario, esso ricomprende l’intero contesto dell’intervento, incluse le fasi immediatamente precedenti e successive all’atto in senso stretto, purché siano direttamente funzionali al suo completamento. Pertanto, la resistenza posta in essere anche dopo l’identificazione, ma nel corso dell’intervento operativo, rientra a pieno titolo nell’ambito di applicazione dell’art. 337 c.p.

Le conclusioni

La decisione della Cassazione conferma un orientamento consolidato e offre due importanti spunti di riflessione. Primo: la linea di demarcazione tra una semplice minaccia e la resistenza a pubblico ufficiale risiede nello scopo della condotta. Se l’obiettivo è ostacolare l’operato delle forze dell’ordine, si configura il reato più grave. Secondo: l’atto d’ufficio non è un evento istantaneo, ma un processo che può avere una durata. Qualsiasi azione violenta o minacciosa posta in essere durante questo processo, e finalizzata a interromperlo, integra il delitto di resistenza. Questa ordinanza serve quindi da monito sull’importanza di mantenere un comportamento rispettoso e collaborativo durante i controlli e gli interventi delle autorità, poiché condotte aggressive e finalizzate all’ostruzione possono avere conseguenze penali significative.

Quando una minaccia a un agente diventa reato di resistenza a pubblico ufficiale?
Una minaccia integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale quando è caratterizzata dal dolo specifico, ovvero dalla volontà di usarla al fine preciso di opporsi a un pubblico ufficiale per impedirgli di compiere un atto del suo ufficio. Non è sufficiente un generico atteggiamento aggressivo o di volgarità.

Il reato di resistenza può avvenire anche dopo che il pubblico ufficiale ha completato una fase del suo intervento, come l’identificazione?
Sì. La Corte di Cassazione ha chiarito che la locuzione “mentre compie l’atto del suo ufficio” non si limita a un singolo istante, ma include anche le fasi immediatamente precedenti e successive, a condizione che siano direttamente funzionali al completamento dell’atto stesso.

Perché la Corte ha ritenuto che in questo caso non si trattasse di semplici minacce?
Perché la condotta dell’imputato era stata reiterata, aggressiva e oppositiva, ed era chiaramente finalizzata a costringere gli agenti a non procedere con gli atti del loro ufficio, ovvero l’accertamento dei fatti per cui erano stati chiamati. Le minacce erano state ‘pesantemente’ proferite proprio per raggiungere questo scopo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

Desideri approfondire l'argomento ed avere una consulenza legale?

Prenota un appuntamento. La consultazione può avvenire in studio a Milano, Pesaro, Benevento, oppure in videoconferenza / conference call e si svolge in tre fasi.

Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

Il costo della consulenza legale è di € 150,00.

02.37901052
8:00 – 20:00
(Lun - Sab)

Articoli correlati