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Resistenza a pubblico ufficiale: quando è reato?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Procuratore Generale contro una sentenza di assoluzione per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. La Corte ha ribadito che, per la configurabilità del reato, la minaccia o la violenza devono essere concretamente idonee a ostacolare l’atto del pubblico ufficiale e deve sussistere il dolo specifico, ovvero la volontà mirata a opporsi. In assenza di questi elementi, come nel caso di specie, il fatto non costituisce reato.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a Pubblico Ufficiale: Non Basta la Minaccia, Serve l’Idoneità a Ostacolare

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 18583/2024) offre un importante chiarimento sui confini del reato di resistenza a pubblico ufficiale. La Corte ha stabilito che non ogni atto di opposizione verbale o minaccioso integra automaticamente questo delitto. Affinché si configuri il reato, è necessario che la condotta sia concretamente idonea a ostacolare l’operato dell’agente e che sia sorretta da una precisa volontà di opporsi. Analizziamo insieme la decisione per comprendere meglio questi principi.

I Fatti di Causa

Il caso trae origine da una sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Campobasso nei confronti di una donna accusata del reato di cui all’art. 337 del codice penale. Il Tribunale aveva ritenuto che “il fatto non sussiste”, mandandola assolta.

Contro questa decisione, il Procuratore Generale presso la Corte di appello ha presentato ricorso per Cassazione, lamentando un’errata interpretazione della norma penale. Secondo il ricorrente, il Tribunale aveva sbagliato nel ritenere necessaria, ai fini del reato, una concreta ed efficace opposizione all’atto del pubblico ufficiale. Inoltre, il Procuratore sosteneva che la valutazione si fosse concentrata erroneamente sul rifiuto della donna di seguire gli agenti, mentre l’accusa riguardava le minacce da lei proferite, ritenendo irrilevante il suo stato di agitazione.

La Valutazione della Corte sulla Resistenza a Pubblico Ufficiale

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la correttezza della decisione del Tribunale. I giudici di legittimità hanno sottolineato che il ricorso era basato su una rilettura dei fatti e non presentava un confronto critico adeguato con la motivazione della sentenza impugnata, la quale era esente da vizi logici o giuridici.

Il Collegio ha ribadito un principio fondamentale in materia di resistenza a pubblico ufficiale: la condotta, per essere penalmente rilevante, deve essere interpretata alla luce del principio di offensività. Sebbene sia sufficiente l’uso di violenza o minaccia per opporsi (indipendentemente dal successo dell’azione), è indispensabile che tale violenza o minaccia sia reale e presenti una “effettività causale”.

In altre parole, la minaccia deve avere la concreta idoneità a coartare o a ostacolare l’azione del pubblico ufficiale.

L’Elemento Psicologico: Il Dolo Specifico

Un altro aspetto cruciale evidenziato dalla Corte riguarda l’elemento psicologico del reato. Per la resistenza a pubblico ufficiale non è sufficiente una volontà generica, ma è richiesto il dolo specifico. L’agente deve agire con il fine preciso di impedire il compimento dell’atto d’ufficio. Se la condotta, pur oppositiva, è mossa da una finalità diversa, come uno sfogo dettato da agitazione, viene a mancare l’elemento soggettivo necessario per la configurabilità del reato.

Le Motivazioni della Decisione

La Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione del giudice di merito, che aveva assolto l’imputata reputando le sue espressioni verbali inidonee a impedire o ostacolare l’atto d’ufficio. Inoltre, il Tribunale aveva correttamente rilevato l’insussistenza dell’elemento psicologico.

La sentenza impugnata si è quindi basata su un’interpretazione della norma coerente con i principi cardine del diritto penale. La minaccia, per quanto biasimevole, non possedeva quella forza intimidatrice necessaria a paralizzare o a rendere più difficoltosa l’attività dei pubblici ufficiali. Allo stesso tempo, la condotta della donna non era animata dalla specifica intenzione di opporsi, ma era piuttosto l’espressione di uno stato emotivo alterato.

Conclusioni

La sentenza in commento consolida un orientamento giurisprudenziale garantista. Per integrare il delitto di resistenza a pubblico ufficiale non è sufficiente un mero atteggiamento ostile o minaccioso. La legge penale interviene solo quando la condotta assume una connotazione di reale pericolosità, manifestando la concreta capacità di intralciare la pubblica funzione e la specifica volontà di farlo. Questa pronuncia serve da monito a distinguere tra una reazione scomposta, seppur inappropriata, e una vera e propria azione criminale volta a impedire l’operato dello Stato.

Quando una minaccia integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale?
Secondo la Corte, una minaccia integra il reato solo quando è reale e possiede una “effettività causale”, ovvero la concreta idoneità a coartare o ostacolare l’agire del pubblico ufficiale. Espressioni che non hanno questa capacità non sono sufficienti.

È sufficiente minacciare un pubblico ufficiale per essere condannati per resistenza?
No. Oltre all’idoneità della minaccia, la legge richiede il “dolo specifico”, cioè l’intenzione mirata a opporsi al compimento dell’atto d’ufficio. Se la condotta è dettata da altre finalità (come uno sfogo per agitazione), l’elemento psicologico del reato manca.

Qual è il ruolo del principio di offensività in questo reato?
Il principio di offensività impone che la condotta, per essere punibile, debba ledere o mettere in pericolo il bene giuridico tutelato, che in questo caso è il corretto svolgimento della pubblica funzione. Se la minaccia è inidonea a incidere su tale bene, il fatto non è penalmente rilevante.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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