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Resistenza a pubblico ufficiale: quando è reato?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 44080/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di una donna condannata per resistenza a pubblico ufficiale e rifiuto di fornire le generalità. Il caso riguardava una donna in stato di ebbrezza che, all’intervento dei carabinieri in un bar, si era divincolata e spintonata per fuggire. La Corte ha ribadito che un tale comportamento, finalizzato a neutralizzare l’azione degli agenti e sottrarsi alla presa, costituisce una forma di violenza e non una mera resistenza passiva, integrando così il reato di resistenza a pubblico ufficiale.

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Pubblicato il 15 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a pubblico ufficiale: quando divincolarsi è violenza

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 44080 del 2024, è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale del diritto penale: la resistenza a pubblico ufficiale. Questa pronuncia offre un’importante chiave di lettura per distinguere tra una condotta violenta, penalmente rilevante, e una mera resistenza passiva. Il caso analizzato riguarda una donna che, in evidente stato di alterazione, si oppose all’intervento delle forze dell’ordine, cercando di sottrarsi alla loro presa. Vediamo nel dettaglio i fatti e le conclusioni della Suprema Corte.

I Fatti del Caso

La vicenda ha origine in un bar, dove i carabinieri erano intervenuti su richiesta del titolare a causa della presenza di una persona molesta. Giunti sul posto, gli agenti trovavano una donna in stato di ubriachezza dietro al bancone. Secondo quanto riferito, dopo il rifiuto di servirle altro alcol, la donna aveva gettato a terra oggetti e rovesciato bottiglie.

Alla richiesta di fornire i propri documenti e generalità, la donna reagiva verbalmente in modo aggressivo, per poi uscire dal locale e iniziare a spogliarsi. Nel tentativo di calmarla, gli agenti la afferrava per un braccio. A quel punto, l’imputata iniziava a dimenarsi e divincolarsi energicamente nel tentativo di fuggire, rendendo necessaria la sua immobilizzazione e il trasporto in caserma.

Condannata in primo e secondo grado per i reati di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) e rifiuto di indicazioni sulla propria identità (art. 651 c.p.), la donna proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo che il suo comportamento non integrasse gli elementi costitutivi dei reati contestati.

Le motivazioni: la distinzione nella resistenza a pubblico ufficiale

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, ritenendo le argomentazioni della difesa manifestamente infondate. L’analisi dei giudici si è concentrata sulla corretta interpretazione del concetto di ‘violenza’ nel reato di resistenza a pubblico ufficiale.

La difesa sosteneva che l’atto di ‘divincolarsi’ dovesse essere classificato come una semplice resistenza passiva, non punibile. Tuttavia, la Suprema Corte ha chiarito che l’atto di divincolarsi da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria integra il requisito della violenza quando non è una mera reazione istintiva, ma un vero e proprio impiego di forza fisica. L’obiettivo di tale azione è neutralizzare l’operato del pubblico ufficiale e guadagnarsi la fuga.

Nel caso specifico, la condotta della donna – che si dimenava, spintonava e cercava di scappare – non poteva essere considerata una semplice reazione passiva. Era, al contrario, un’azione deliberata e fisica volta a sottrarsi all’identificazione e al controllo dei carabinieri. Di conseguenza, la Corte d’appello aveva correttamente qualificato i fatti come reato.

Il reato di rifiuto di generalità

Anche il secondo motivo di ricorso, relativo al reato di cui all’art. 651 c.p., è stato respinto. La Corte ha ribadito un principio consolidato: il reato si perfeziona con il semplice rifiuto di fornire al pubblico ufficiale le indicazioni sulla propria identità personale. È irrilevante che l’identità del soggetto sia già nota agli agenti o che possa essere accertata in un secondo momento. L’obbligo di identificazione è immediato e il suo rifiuto, ostacolato dalla resistenza fisica, integra pienamente la fattispecie di reato.

Conclusioni

La sentenza in esame rafforza un importante principio giuridico: non ogni forma di opposizione a un pubblico ufficiale è penalmente irrilevante. L’impiego di forza fisica, come lo spingere o il divincolarsi energicamente per scappare, supera la soglia della resistenza passiva e si configura come la ‘violenza’ richiesta dall’art. 337 c.p. per integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Questa pronuncia serve da monito, sottolineando che una reazione fisica e volontaria finalizzata a impedire un atto d’ufficio ha conseguenze penali precise e non può essere derubricata a un semplice comportamento oppositivo.

Cercare di liberarsi dalla presa di un poliziotto è considerato resistenza a pubblico ufficiale?
Sì, secondo la sentenza, l’atto di ‘divincolarsi’ e dimenarsi per sottrarsi alla presa di un pubblico ufficiale è considerato un impiego di forza fisica. Se tale azione è finalizzata a neutralizzare l’operato dell’agente e a guadagnare la fuga, integra il requisito della violenza e costituisce il reato di resistenza a pubblico ufficiale.

Rifiutarsi di dare le proprie generalità è reato anche se i poliziotti mi conoscono già?
Sì. La Corte di Cassazione ha confermato che il reato di rifiuto di fornire indicazioni sulla propria identità personale (art. 651 c.p.) si perfeziona con il semplice rifiuto. È irrilevante che l’identità del soggetto sia già nota o facilmente accertabile dagli agenti in un secondo momento.

Cosa si intende per resistenza passiva e quando non costituisce reato?
La resistenza passiva è una condotta di mera opposizione non violenta a un atto del pubblico ufficiale (ad esempio, rifiutarsi di muoversi senza opporre forza fisica). La sentenza chiarisce che tale condotta non integra il reato di resistenza, a differenza di un’azione che comporta un ‘impiego di forza’ diretto a neutralizzare l’azione dell’agente, come spingere o divincolarsi per fuggire.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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