Resistenza a Pubblico Ufficiale: Quando le Minacce Configurano il Reato?
La linea di confine tra una legittima protesta e il reato di resistenza a pubblico ufficiale è spesso sottile e dibattuta nelle aule di giustizia. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre spunti cruciali per comprendere quando una condotta oppositiva, e in particolare una minaccia, superi il limite della legalità. Il caso analizzato riguarda un cittadino condannato per essersi opposto con minacce all’attività di alcuni Ispettori del lavoro.
Il Caso in Analisi
Un individuo, a seguito di una condanna per il reato previsto dall’art. 337 del codice penale, proponeva ricorso per Cassazione. La condanna era stata emessa dalla Corte d’Appello per aver minacciato alcuni pubblici ufficiali, nello specifico degli Ispettori del lavoro, durante lo svolgimento delle loro funzioni. La difesa dell’imputato si basava su tre motivi principali, con i quali si contestava la valutazione delle prove, la reale idoneità della sua condotta a integrare il reato e la mancata applicazione di una causa di giustificazione.
I Motivi del Ricorso: Una Difesa a Tre Punte
La strategia difensiva si articolava su tre distinti argomenti:
1. Errata valutazione delle prove: Si contestava il modo in cui i giudici di merito avevano interpretato i fatti, proponendo una rilettura alternativa delle testimonianze e degli eventi.
2. Inidoneità della condotta: La difesa sosteneva che il comportamento dell’imputato fosse una semplice espressione di sentimenti ostili, priva della concreta capacità intimidatoria richiesta per configurare il reato di resistenza a pubblico ufficiale.
3. Reazione ad atto arbitrario: Si invocava l’applicazione dell’art. 393-bis c.p., sostenendo che la reazione fosse giustificata da un presunto atto arbitrario degli ispettori.
L’Analisi della Cassazione sulla Resistenza a Pubblico Ufficiale
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, respingendo tutte le argomentazioni difensive. Gli Ermellini hanno chiarito principi fondamentali sia in materia processuale che sostanziale. In primo luogo, hanno ribadito che il giudizio di Cassazione non è una terza istanza di merito: non si possono riproporre valutazioni sui fatti già esaminate nei gradi precedenti. Il primo motivo è stato quindi liquidato come un tentativo inammissibile di ottenere una nuova valutazione delle prove.
Le Motivazioni della Decisione
Analizzando il cuore della vicenda, la Corte ha smontato la tesi dell’inidoneità della condotta. I giudici hanno sottolineato che non si trattava di una “mera reattiva espressione di sentimenti ostili”, ma di “vere e proprie minacce”. La serietà e la capacità intimidatoria di tali minacce derivavano da riferimenti a “concrete evenienze riconducibili alla sua iniziativa”, finalizzate a condizionare e turbare i militari nell’esercizio delle loro funzioni. Il contesto e l’attività in corso hanno quindi avuto un peso decisivo nel qualificare la condotta come penalmente rilevante.
Anche la terza censura, relativa alla reazione ad un atto arbitrario, è stata giudicata generica. La Corte d’Appello aveva già ampiamente motivato sul punto, evidenziando come la condotta complessiva dell’imputato non permettesse di ritenere che egli nutrisse reali dubbi sulla regolarità dell’operato degli Ispettori del lavoro. Di conseguenza, non sussistevano i presupposti per applicare la causa di giustificazione invocata.
Conclusioni: Cosa Impariamo da Questa Ordinanza
Questa decisione consolida alcuni principi chiave in materia di resistenza a pubblico ufficiale. Primo, per integrare il reato non è sufficiente una semplice opposizione verbale, ma è necessaria una minaccia seria e concretamente idonea a intimidire e a ostacolare l’atto d’ufficio. Secondo, il ricorso in Cassazione deve basarsi su vizi di legittimità (cioè errori nell’applicazione della legge) e non può trasformarsi in un appello mascherato per ridiscutere i fatti. Infine, per invocare con successo la scriminante della reazione ad un atto arbitrario, è necessario fornire prove concrete che dimostrino l’illegittimità dell’azione del pubblico ufficiale e la percezione di tale arbitrarietà da parte dell’agente.
Quando una minaccia a un pubblico ufficiale diventa reato di resistenza?
La minaccia integra il reato di resistenza quando non è una mera espressione di ostilità, ma si sostanzia in minacce vere e proprie, la cui serietà e capacità intimidatoria sono finalizzate a condizionare e turbare il pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni.
È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove di un processo?
No, non è possibile. La Corte di Cassazione non può effettuare una rilettura alternativa delle fonti di prova, poiché il suo ruolo è quello di giudice di legittimità, che valuta la corretta applicazione della legge, non di riesaminare i fatti già accertati nei precedenti gradi di giudizio.
In quali casi l’opposizione a un pubblico ufficiale può essere giustificata?
L’opposizione può essere giustificata se costituisce una reazione a un atto arbitrario del pubblico ufficiale, come previsto dall’art. 393-bis del codice penale. Tuttavia, è necessario che la condotta dell’agente pubblico sia oggettivamente illegale e che l’imputato non abbia dubbi sulla regolarità e finalità dell’operato che sta subendo.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 32288 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 32288 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 26/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a CASTELLIRI il 26/08/1961
avverso la sentenza del 28/06/2024 della CORTE APPELLO di BRESCIA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
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visti gli atti e la sentenza impugnata (condanna per il reato di cui all’art. 337 cod. pen.); esaminati i motivi di ricorso e letta la memoria della difesa nella quale si insiste sugli stessi.
OSSERVA
Il primo motivo, con il quale si censura il criterio di valutazione delle prove, è interamente articolato in fatto e prospetta una rilettura alternativa delle fonti di prova non ammessa in questa sede. Esso, inoltre, è reíterativo di censure formulate in appello, disattese con motivazione congrua con la quale il ricorso non si confronta, limitandosi la difesa a ribadire il proprio dissenso (pagg.6 e 7)
Il secondo motivo, avente ad oggetto la configurabilità del reato di cui all’art. 337 cod. pen. per inidoneità della condotta, propone una lettura alternativa ed estremamente riduttiva del fatto, già respinta in sentenza, laddove i giudici hanno precisato che non di mera reattiva espressione di sentimenti ostili si era trattato, ma di vere e proprie minacce, la cui serietà e capacità intimidatoria derivava dai riferimenti dell’agente a concrete evenienze riconducibili alla sua iniziativa e finalisticamente dirette a condizionare e idonee turbare i militari nell’esercizio delle proprie funzioni, avuto riguardo al contesto e all’attività in corso (pag. 7).
Anche la terza censura, relativa alla omessa applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 393-bis cod. pen., è generica, essendosi la Corte di appello puntualmente soffermata sugli elementi costitutivi della causa di giustificazione invocata ed avendo evidenziato che la condotta complessiva tenuta dall’imputato consentiva di escludere che egli potesse realmente nutrire dei dubbi sulla regolarità e sulla reale finalità dell’operato degli Ispettori del lavoro (pag. 8).
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso il 26/05/2025.