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Resistenza a pubblico ufficiale: quando è inammissibile

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un cittadino condannato per resistenza a pubblico ufficiale e violenza. La decisione si fonda sul fatto che i motivi del ricorso erano una mera ripetizione di argomenti già respinti in appello e manifestamente infondati. L’ordinanza conferma che la violenza fisica per evitare un’identificazione e le minacce verbali integrano pienamente i reati contestati.

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Pubblicato il 6 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a Pubblico Ufficiale: Quando il Ricorso in Cassazione è Inammissibile

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale è una fattispecie che si presenta con una certa frequenza nelle aule di giustizia. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la n. 10814/2024, offre un’importante lezione su quali siano i limiti di un ricorso e i motivi per cui può essere dichiarato inammissibile. Il caso analizzato riguarda un cittadino che, dopo la condanna in Corte d’Appello per violenza e resistenza, ha tentato la via del ricorso in Cassazione senza successo. Vediamo perché.

I Fatti del Caso

Un individuo veniva condannato dalla Corte d’appello di Bari per i reati previsti dagli articoli 336 (Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale) e 337 (Resistenza a un pubblico ufficiale) del codice penale. Secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’uomo aveva tenuto una condotta violenta, consistita in calci e pugni, per opporsi a un tentativo di fermo e identificazione da parte di un pubblico ufficiale. Inoltre, aveva proferito espressioni intimidatorie per costringere l’agente a desistere dal compiere un atto del proprio ufficio.

Contro questa sentenza, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, lamentando un’errata applicazione della legge penale e un vizio di motivazione da parte della Corte d’appello.

La Condanna per Violenza e Resistenza a Pubblico Ufficiale

La Corte di Cassazione ha esaminato i motivi del ricorso, ritenendoli però del tutto infondati e, soprattutto, meramente riproduttivi di censure già analizzate e respinte correttamente nel precedente grado di giudizio. Questo aspetto è cruciale: il ricorso in Cassazione non è un terzo grado di giudizio dove si possono riproporre all’infinito le stesse argomentazioni, ma un controllo di legittimità sulla corretta applicazione del diritto.

La Decisione della Suprema Corte

Con l’ordinanza in esame, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile. Questa decisione comporta non solo la conferma definitiva della condanna, ma anche l’obbligo per il ricorrente di pagare le spese processuali e una sanzione pecuniaria di tremila euro a favore della Cassa delle ammende.

Le Motivazioni

Le motivazioni alla base della decisione sono chiare e dirette. La Corte ha spiegato che i motivi addotti dal ricorrente erano inammissibili per due ragioni principali:

1. Ripetitività delle Censure: Le argomentazioni presentate erano una semplice riproposizione di quelle già vagliate e motivatamente respinte dalla Corte d’appello. Non venivano sollevati nuovi profili di illegittimità, ma si tentava di ottenere un nuovo esame del merito dei fatti, cosa non consentita in sede di legittimità.
2. Manifesta Infondatezza: I motivi erano palesemente infondati. Per quanto riguarda il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.), la Corte d’appello aveva correttamente motivato che la condotta violenta (calci e pugni) era chiaramente finalizzata a impedire l’identificazione. Per il reato di violenza o minaccia (art. 336 c.p.), era stato accertato che le espressioni intimidatorie erano state usate per costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto del suo ufficio.

La motivazione della Corte d’Appello è stata giudicata congrua, esaustiva e priva di vizi logici, rendendo quindi l’impugnazione priva di qualsiasi fondamento giuridico.

Le Conclusioni

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale del nostro sistema processuale: il ricorso in Cassazione non può essere utilizzato come un terzo appello. Per avere una possibilità di successo, è necessario sollevare vizi di legittimità concreti, come un’errata interpretazione della norma di legge o un difetto di motivazione evidente e illogico, e non limitarsi a ripetere le stesse difese già respinte. La condanna per resistenza a pubblico ufficiale viene confermata quando i fatti dimostrano una volontà attiva e violenta di opporsi a un atto legittimo dell’autorità, e le minacce verbali sono sufficienti a integrare il reato di cui all’art. 336 c.p. quando mirano a coartare la volontà del pubblico ufficiale.

Quando un ricorso in Cassazione per resistenza a pubblico ufficiale rischia di essere dichiarato inammissibile?
Un ricorso viene dichiarato inammissibile quando i motivi si limitano a riproporre le stesse censure già esaminate e respinte dal giudice precedente (in questo caso, la Corte d’appello), senza presentare nuovi vizi di legittimità, e quando sono considerati manifestamente infondati.

Quale condotta integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) secondo questa ordinanza?
Secondo l’ordinanza, una condotta violenta, come sferrare calci e pugni, finalizzata a impedire a un pubblico ufficiale di compiere un atto del suo ufficio, come un fermo per l’identificazione, integra pienamente il reato di resistenza.

Cosa è sufficiente per configurare il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.)?
In base alla decisione, è sufficiente proferire espressioni intimidatorie con lo scopo specifico di costringere il pubblico ufficiale a compiere o a omettere un atto del proprio ufficio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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