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Resistenza a pubblico ufficiale: quando è inammissibile

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per resistenza a pubblico ufficiale. Le minacce, se dirette a ostacolare un funzionario, integrano tale reato e non semplici minacce, rendendo il ricorso generico e infondato.

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Pubblicato il 1 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a Pubblico Ufficiale: Quando le Minacce non sono un Reato a Parte

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione offre importanti chiarimenti sulla corretta qualificazione del reato di resistenza a pubblico ufficiale, specialmente quando questo si manifesta attraverso minacce. La decisione sottolinea come il fine di ostacolare l’attività di un funzionario sia l’elemento decisivo che distingue questa fattispecie dal meno grave delitto di minaccia, con importanti conseguenze sulla procedibilità del reato e sull’ammissibilità dei ricorsi.

I Fatti del Caso: Il Ricorso in Cassazione

Il caso analizzato dalla Suprema Corte nasce dal ricorso di un cittadino condannato in secondo grado dalla Corte d’Appello per il reato di cui all’art. 337 del codice penale. L’imputato, attraverso il suo difensore, sosteneva un unico motivo di ricorso: la presunta errata qualificazione giuridica dei fatti. A suo dire, il suo comportamento non integrava la resistenza a pubblico ufficiale, bensì il più lieve delitto di minacce. Questa riqualificazione avrebbe portato a una conseguenza decisiva: l’improcedibilità dell’azione penale per mancanza della querela della persona offesa, necessaria per il reato di minacce ma non per quello di resistenza.

L’analisi della Corte sulla Resistenza a Pubblico Ufficiale

La Corte di Cassazione ha rigettato completamente la tesi difensiva, dichiarando il ricorso inammissibile. I giudici hanno evidenziato come le doglianze fossero non solo generiche, ma anche una mera riproposizione di argomenti già correttamente esaminati e respinti nei precedenti gradi di giudizio. La sentenza impugnata, infatti, aveva già spiegato in modo logico e giuridicamente corretto perché le minacce proferite dall’imputato fossero finalizzate a un obiettivo preciso: ostacolare l’attività del pubblico ufficiale. Questo elemento teleologico è ciò che qualifica il fatto come resistenza a pubblico ufficiale.

Il Principio di Diritto: la Finalità della Minaccia è Decisiva

Il cuore della decisione risiede nella distinzione tra la minaccia come reato autonomo e la minaccia come elemento costitutivo del reato di resistenza. La Corte ribadisce che quando le espressioni minatorie sono direttamente volte a impedire o intralciare un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, esse perdono la loro autonomia e vengono assorbite nella più grave fattispecie dell’art. 337 c.p. Non si tratta di due reati distinti, ma di un’unica condotta che integra il reato plurioffensivo di resistenza, volto a tutelare non solo la libertà del funzionario, ma anche il corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione.

La Negata Liquidazione delle Spese alla Parte Civile

Un aspetto interessante dell’ordinanza riguarda la parte civile. Nonostante la sua presenza nel processo, la Corte ha respinto la sua richiesta di liquidazione delle spese legali. La motivazione si basa su un precedente orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 44280/2016), secondo cui, in un procedimento palesemente destinato a una dichiarazione di inammissibilità, l’attività difensiva della parte civile non è considerata strettamente funzionale alla tutela dei propri interessi risarcitori. In altre parole, l’esito era talmente scontato che non era necessaria un’ulteriore attività per contrastare le pretese dell’imputato.

Le Motivazioni della Decisione

Le motivazioni della Corte si fondano su due pilastri principali. In primo luogo, la genericità e la natura riproduttiva del ricorso, che non presentava critiche pertinenti e specifiche alla sentenza d’appello, ma si limitava a ripetere argomenti già disattesi. Questo vizio procedurale è di per sé sufficiente a determinare l’inammissibilità. In secondo luogo, nel merito, la Corte ha confermato la correttezza della valutazione dei giudici di secondo grado: le minacce erano inequivocabilmente dirette a ostacolare l’operato del pubblico ufficiale, integrando così pienamente gli elementi del reato contestato. La richiesta di riqualificazione era, pertanto, manifestamente infondata.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame conferma un principio consolidato: per distinguere tra il reato di minaccia e quello di resistenza a pubblico ufficiale, è essenziale analizzare il contesto e la finalità della condotta. Se la minaccia è uno strumento per opporsi a un atto d’ufficio, si configura il reato previsto dall’art. 337 c.p. La decisione ha comportato la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, rendendo definitiva la sua condanna.

Una minaccia rivolta a un pubblico ufficiale è sempre considerata ‘resistenza a pubblico ufficiale’?
No. Secondo l’ordinanza, la minaccia integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) solo quando è specificamente diretta a ostacolare l’attività del pubblico ufficiale. Se la minaccia è slegata da tale finalità, potrebbe configurare un reato diverso, come quello di minaccia semplice.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché le argomentazioni presentate erano generiche e riproducevano censure già esaminate e respinte correttamente dal giudice di merito. La Corte ha ritenuto che il motivo del ricorso non fosse fondato su vizi validi della sentenza impugnata.

Perché alla parte civile non sono state liquidate le spese legali in Cassazione?
La richiesta di liquidazione delle spese della parte civile è stata respinta perché, in una procedura in cui il ricorso è già palesemente inammissibile, l’attività difensiva della parte civile non è considerata strettamente necessaria a tutelare i propri interessi risarcitori.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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