Resistenza a pubblico ufficiale: Quando le parole non bastano
Il confine tra una legittima protesta verbale e il reato di resistenza a pubblico ufficiale è spesso sottile. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci aiuta a tracciare una linea chiara, stabilendo che le sole offese, per quanto gravi, non sono sufficienti a configurare questo delitto se non sono accompagnate da una condotta che si oppone attivamente all’operato delle forze dell’ordine. Analizziamo insieme questa importante decisione.
I fatti di causa
Il caso trae origine da una condanna emessa dal GIP del Tribunale e successivamente confermata dalla Corte d’Appello di Torino. L’imputato era stato giudicato colpevole per i reati di rapina, oltraggio e, appunto, resistenza a pubblico ufficiale.
Sentendosi ingiustamente condannato per quest’ultima accusa, l’imputato ha presentato ricorso per cassazione. La sua difesa si è concentrata su un punto specifico: la presunta mancanza di prove riguardo a un’effettiva volontà di opporsi all’azione della Polizia Giudiziaria (PG).
Il motivo del ricorso: solo offese, non resistenza
Il ricorrente ha argomentato che la sua condotta si era limitata a proferire frasi offensive nei confronti degli agenti. Secondo la sua tesi, mancava l’elemento essenziale del reato di resistenza: un comportamento attivo, violento o minaccioso, finalizzato a impedire o ostacolare un atto d’ufficio.
In sostanza, la difesa mirava a derubricare la condotta da una resistenza fisica a un mero oltraggio, sostenendo che le parole, da sole, non potessero integrare il più grave reato di resistenza a pubblico ufficiale.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione ha respinto la tesi difensiva, dichiarando il ricorso inammissibile perché manifestamente infondato. Gli Ermellini hanno ritenuto che la Corte d’Appello avesse correttamente valutato i fatti, fornendo una motivazione adeguata e logica.
Le motivazioni
La motivazione della Suprema Corte è cruciale. I giudici hanno specificato che, secondo quanto emerso nel processo di merito, le condotte dell’imputato erano andate ben oltre il semplice piano verbale (trascendenti il piano verbale
). Questo significa che l’imputato non si era limitato a insultare gli agenti, ma aveva posto in essere comportamenti che concretizzavano un’opposizione fisica al loro operato.
Pur non entrando nel dettaglio di tali condotte, la Corte ha validato la ricostruzione del giudice di secondo grado, il quale aveva evidentemente individuato azioni materiali di contrasto. Viene così ribadito un principio fondamentale: per la configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale è necessario un quid pluris
rispetto alla mera offesa. Serve un’azione che, con violenza o minaccia, si opponga concretamente all’attività del pubblico ufficiale.
A seguito della dichiarazione di inammissibilità, e ravvisando una colpa nel proporre un ricorso palesemente infondato, la Corte ha condannato il ricorrente non solo al pagamento delle spese processuali, ma anche al versamento di una somma di tremila euro alla cassa delle ammende, come previsto dall’art. 616 del codice di procedura penale.
Le conclusioni
Questa ordinanza offre un’importante lezione pratica. Chiunque si trovi in un’interazione con le forze dell’ordine deve essere consapevole che, sebbene le sole parole offensive possano integrare altri reati (come l’oltraggio), per essere accusati di resistenza a pubblico ufficiale è necessario compiere atti che si traducano in un’opposizione attiva. La decisione sottolinea come i giudici di merito debbano attentamente distinguere tra la sfera verbale e quella dell’azione fisica, basando la condanna su prove concrete di un comportamento oppositivo che vada al di là delle semplici invettive.
Le semplici offese verbali a un agente di polizia costituiscono il reato di resistenza a pubblico ufficiale?
No, secondo questa ordinanza, la condotta deve superare il piano verbale. Per configurare il reato di resistenza è necessaria un’azione che si opponga attivamente all’operato del pubblico ufficiale, non bastano le sole offese.
Cosa succede se un ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali. Inoltre, se il ricorso è ritenuto inammissibile per colpa del ricorrente (ad esempio, perché manifestamente infondato), può essere condannato a pagare una sanzione pecuniaria alla cassa delle ammende.
Su cosa si è basata la Corte di Cassazione per rigettare il ricorso?
La Corte si è basata sulla valutazione fatta dalla Corte d’Appello, ritenendola adeguata. Quest’ultima aveva evidenziato che l’imputato aveva posto in essere condotte che andavano oltre le semplici parole, concretizzando un’effettiva opposizione all’azione della polizia giudiziaria.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 51849 Anno 2019
Penale Ord. Sez. 7 Num. 51849 Anno 2019
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/12/2019
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a VENARIA REALE il 19/03/1992
avverso la sentenza del 22/09/2017 della CORTE APPELLO di TORINO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
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RITENUTO IN FATTO E DIRITTO
La CORTE APPELLO di TORINO, con sentenza in data 22/09/2017, confermava la condanna alla pena ritenuta di giustizia pronunciata dal GIP del TRIBUNALE di TORINO, in data 14/11/2012, nei confronti di COGNOME NOME in relazione ai reati di rapina, resistenza a p.u. e oltraggio.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo il seguente motivo: violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità dell’imputato rispetto resistenza, difettando dimostrazione dell’intento di opporsi all’azione della PG ed essendos solamente proferite offese.
Il motivo è inammissibile perché manifestamente infondato, avendo la Corte territoriale adeguatamente indicato le condotte, trascendenti il piano verbale, poste in essere dall’imputato (cfr. pa 5). .
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determi della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), a versamento della somma, che ritiene equa, di euro tremila a favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla cassa delle ammende.
Così deciso il 03/12/2019