Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 44069 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 44069 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOMECOGNOME nato in Marocco il 28/10/1986
avverso la sentenza del 12/02/2024 della Corte di appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME COGNOME per mezzo dei difensori, ricorre avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Bologna che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Modena, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata recidiva, ha rideterminato la pena in mesi sei e giorni quindici di reclusione, in ordine ai delitti di cui agli artt. 81, 337 cod. pen.
NOME COGNOME è accusato di avere, all’interno della Casa circondariale di Modena, minacciato con una lametta e attraverso il prospettato compimento di atti autolesionistici, appartenenti alla polizia penitenziaria per impedire loro di avvicinarsi alla cella intimando ai medesimi di accompagnarlo in infermeria (capo A, commesso il 28 febbraio 2018); analoga accusa riguarda la minaccia di
attingere con il lancio di piatti appartenenti alla Polizia Penitenziaria in procinto di far entrare un altro detenuto nella cella in cui era custodito il ricorrente, attivit istituzionale che veniva in tal modo ostacolata (capo B, commesso il 5 aprile 2018).
La difesa deduce violazione di legge ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. con riferimento all’art. 337 cod. pen.
La difesa rileva come durante il primo episodio l’agente COGNOME avesse dichiarato di non essere presente quando COGNOME minacciava di compiere atti autolesionistici, avendo appreso tale notizia da altro collega, intervenuto in precedenza.
Nel secondo episodio NOME aveva minacciato di attingere con dei piatti che aveva in mano il personale di Polizia Penitenziaria in quanto contrario allo spostamento di altro detenuto nella cella in cui era ristretto, riponendo però i piatti subito dopo.
Risulta evidente – assume la difesa – come in occasione del primo fatto contestato non vi fosse lo svolgimento di alcuna attività dell’ufficio, essendosi il COGNOME adirato perché gli era stato impedito di interloquire con il proprio difensore; la condotta del ricorrente aveva prevalentemente carattere oltraggioso ma non finalizzata a contrastare l’operato dei pubblici ufficiali ovvero coartarne la volontà, dovendosi piuttosto ritenere che quello realizzato costituisse una mera espressione di protesta legata alla costrizione patita.
Il gesto di autolesionismo e la minaccia di lanciare i piatti, inoltre, costituiscono condotte che non rivelano alcun intento lesivo o impeditivo dell’intervento degli operanti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per plurime ragioni.
Corretta risulta la motivazione della Corte di appello in ordine a sovrapponibili motivi che, di fatto, mettevano in dubbio, da un lato, che la condotta non avesse ostacolato l’attività dell’ufficio che non sarebbe stata connotata, altresì, dal necessario elemento soggettivo, dall’altro, che le azioni fossero idonee ad arrecare un ostacolo alle funzioni esercitate.
La Corte di appello ha evidenziato come proprio la condotta posta in essere in entrambe le occasioni, in uno con le parole profferite in detti contesti, fosse idonea ad impedire il regolare svolgimento delle attività di controllo, vigilanza e disciplina che il personale di Polizia Penitenziario stava compiendo, essendo le accertate minacce idonee ad ostacolare, nella prima occasione, l’entrata nella cella degli
agenti di Polizia Penitenziari per i necessari controlli, nell’altra a consentire che il medesimo personale vi facesse all’interno altro detenuto.
Deve, infatti evidenziarsi come costituisca principio di diritto ormai consolidato quello secondo cui, ai fini dell’integrazione del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, non è necessario che sia concretamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacol al compimento degli atti indicati (Sez. 6, n. 5459 del 08/01/2020, Sortino, Rv. 278207 – 01); onde accertare, poi, se vi sia o meno stato ostacolo, è stato statuito che, l’inciso “mentre compie l’atto del suo ufficio”, se presuppone una contemporaneità tra la resistenza e l’atto, essa non si esaurisce nell’istante in cui quest’ultimo si GLYPH perfeziona, dovendosi GLYPH ricomprendere anche le fasi immediatamente precedenti e successive, allorché funzionali alla completezza dell’attività istituzionale posta in essere dagli pubblici ufficiali (Sez. 6, n. 1346 del 23/02/2023, COGNOME, Rv. 284574 – 01), mentre è stato rilevato, sotto altro profilo, che il dolo specifico si concreta nella coscienza e volontà di usare violenza o minaccia al fine di opporsi al compimento di un atto dell’ufficio, essendo estranei lo scopo mediato ed i motivi di fatto avuti di mira dall’agente (Sez. 6, n. 35277 del 20/10/2020, COGNOME, Rv. 280166 – 01).
A fronte, pertanto, di palesata integrazione del reato nella condotta minacciosa, anche consistita nella prospettazione di compiere atti di autolesionismo, ipotesi, quest’ultima, che questa Corte ha ritenuto integrare la violenza o minaccia, quando la stessa sia idonea ad ostacolare la pubblica funzione, atteso che anche il male prospettato nella forma dell’autolesionismo è ingiusto (in tal senso, anche se il principio di diritto stato enunciato in ipotesi ex art. 336 cod. pen. che sotto tale aspetto non risulta divergere dalla fattispecie di cui all’art. 337 cod. pen., cfr. Sez. 6, n. 20287 del 24/04/2001, COGNOME, Rv. 218840 – 01), il ricorrente tenta di accreditare una riduttiva lettura del compendio probatorio ed ipotizza l’assenza di incidenza causale della condotta; la descrizione della stessa come di mera reazione emotiva rispetto alla condizione di detenuto, costituisce tesi già sostenuta in sede di gravame che la Corte di appello ha confutato rappresentando come le finalità delle azioni fossero – in entrambe le ipotesi – finalizzate ad ostacolare la funzione istituzionale in quel frangente svolta dal personale di Polizia Penitenziaria.
All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall’art. 616, comma 1, cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al agannento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore ella Cassa delle ammende. Così deciso il 07/11/2024.