Resistenza a Pubblico Ufficiale: Quando le Parole Diventano Minacce Concrete
Il reato di resistenza a pubblico ufficiale è spesso al centro di dibattiti giuridici che cercano di definire il confine tra una legittima espressione di dissenso e una condotta penalmente rilevante. Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su questo tema, chiarendo quali elementi trasformano delle parole ostili in vere e proprie minacce idonee a integrare il reato previsto dall’art. 337 del codice penale.
I Fatti del Caso
Il caso analizzato nasce dal ricorso di un uomo, condannato in Corte d’Appello per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. I fatti contestati riguardavano delle minacce proferite dall’imputato nei confronti di alcuni militari durante lo svolgimento delle loro funzioni. La difesa sosteneva che tali espressioni non fossero altro che una reazione istintiva e un’espressione di sentimenti ostili, priva di una reale capacità intimidatoria e quindi non sufficiente a configurare il reato.
I Motivi del Ricorso e la tesi della difesa
L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:
1. Inidoneità della condotta: Secondo la difesa, le parole pronunciate non costituivano minacce serie e concrete, ma una mera manifestazione di ostilità. Si proponeva quindi una lettura alternativa e riduttiva del fatto, sostenendo che mancasse l’elemento oggettivo del reato.
2. Mancata applicazione della particolare tenuità del fatto: In subordine, si lamentava la mancata applicazione dell’art. 131-bis del codice penale, la norma che prevede la non punibilità per fatti di particolare tenuità. La difesa riteneva che, anche qualora il fatto fosse stato considerato reato, la sua gravità era talmente lieve da meritare l’archiviazione.
La Decisione della Suprema Corte sulla resistenza a pubblico ufficiale
La Corte di Cassazione ha rigettato entrambe le argomentazioni, dichiarando il ricorso inammissibile. Gli Ermellini hanno fornito chiarimenti importanti sulla configurabilità del reato di resistenza a pubblico ufficiale e sui limiti del sindacato di legittimità.
Le motivazioni
La Corte ha smontato punto per punto le tesi difensive. Riguardo al primo motivo, i giudici hanno sottolineato che la Corte d’Appello aveva già correttamente valutato la condotta, escludendo che si trattasse di una semplice espressione di sentimenti ostili. Al contrario, era emerso che si trattava di “vere e proprie minacce”, la cui serietà e capacità intimidatoria derivavano dai riferimenti a “concrete evenienze riconducibili alla sua iniziativa”. In altre parole, le minacce erano state formulate in modo tale da essere percepite come reali e finalizzate a condizionare e turbare i militari nell’esercizio delle loro funzioni. La Cassazione ha ribadito che non può sostituire la propria valutazione dei fatti a quella, logicamente motivata, dei giudici di merito.
Anche il secondo motivo è stato giudicato infondato. La Corte ha definito la censura “generica”, poiché la Corte d’Appello aveva già spiegato le ragioni per cui l’art. 131-bis non era applicabile, evidenziando l'”ostatività del reato contestato”. In pratica, la natura stessa del reato commesso impediva di considerarlo di lieve entità.
Le conclusioni
La decisione finale è stata la dichiarazione di inammissibilità del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro alla Cassa delle ammende. Questa ordinanza rafforza un principio fondamentale: per valutare il reato di resistenza a pubblico ufficiale, non ci si può fermare al tenore letterale delle parole, ma occorre analizzare il contesto, la finalità della condotta e la sua concreta capacità di intimidire e ostacolare l’operato del pubblico ufficiale. Inoltre, viene ribadito che il ricorso in Cassazione non è una terza istanza di giudizio sui fatti, ma un controllo sulla corretta applicazione della legge.
Qualsiasi espressione ostile verso un pubblico ufficiale costituisce reato di resistenza?
No. La Corte ha specificato che il caso in esame non riguardava una “mera reattiva espressione di sentimenti ostili”, ma “vere e proprie minacce” la cui serietà era finalizzata a condizionare i militari nell’esercizio delle loro funzioni.
Perché non è stata applicata la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto?
La Corte di Appello aveva già motivato la non applicabilità della norma a causa della “ostatività del reato contestato”, ovvero la natura stessa del reato commesso impediva di considerarlo di lieve entità. La Cassazione ha ritenuto generica la critica a tale motivazione, confermando la decisione.
Qual è stato l’esito del ricorso e le conseguenze per il ricorrente?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile. Di conseguenza, la condanna è diventata definitiva e il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 32296 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 32296 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 26/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a MESSINA il 10/12/1974
avverso la sentenza del 29/01/2025 della CORTE APPELLO di MESSINA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
visti gli atti e la sentenza impugnata (condanna per il reato di cui all’art. 337 cod. pen.);
esaminati i motivi di ricorso.
OSSERVA
Il primo motivo, avente ad oggetto la configurabilità del reato di cui all’art. 337 cod. pen. per inidoneità della condotta, propone una lettura alternativa ed estremamente riduttiva del fatto, già respinta in sentenza, laddove i giudici hanno precisato che non di mera reattiva espressione di sentimenti ostili si era trattato, ma di vere e proprie minacce, la cui serietà e capacità intimidatoria derivava dai riferimenti dell’agente a concrete evenienze riconducibili alla sua iniziativa e finalisticamente dirette a condizionare e idonee turbare i militari nell’esercizio delle proprie funzioni, avuto riguardo al contesto e all’attività in corso (pagg. 3 e 4).
Anche la seconda censura, relativa alla omessa applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., è generica, essendosi la Corte di appello puntualmente soffermata sulla ostatività del reato contestato (pag. 4).
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 26/05/2025.