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Resistenza a pubblico ufficiale: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione ha annullato una sentenza di assoluzione per il reato di resistenza a pubblico ufficiale. La Corte ha chiarito che, per configurare il reato, non è necessario che la condotta violenta o minacciosa impedisca concretamente al pubblico ufficiale di compiere il suo dovere, essendo sufficiente che sia posta in essere con lo scopo di opporsi all’atto d’ufficio, indipendentemente dall’esito.

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Pubblicato il 25 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a pubblico ufficiale: quando la minaccia è sufficiente?

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale, previsto dall’articolo 337 del codice penale, è uno dei temi più dibattuti nelle aule di giustizia. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sentenza n. 37735/2025) ha fornito un’importante occasione per ribadire i principi fondamentali che ne definiscono i contorni. La Corte ha annullato una sentenza di assoluzione, chiarendo che per integrare il reato non è necessario che l’azione del pubblico ufficiale sia concretamente impedita, ma è sufficiente l’uso di violenza o minaccia finalizzata a tale scopo.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine da un’assoluzione pronunciata dal Tribunale di Bari nei confronti di un cittadino accusato di resistenza a pubblico ufficiale. In primo grado, il giudice aveva ritenuto che il fatto non sussistesse. La decisione si basava sulla presunta insufficienza di prove riguardo al fatto che la condotta dell’imputato – consistente nel proferire espressioni offensive verso agenti della Polizia Locale durante un controllo – fosse stata palesemente aggressiva e intimidatoria. Secondo il Tribunale, non era stato provato che tale comportamento fosse idoneo a ingenerare timore o a limitare la libertà morale degli agenti nel compimento del loro dovere.

Contro questa decisione, il Procuratore della Repubblica ha proposto ricorso per cassazione, lamentando un’errata interpretazione e applicazione della legge penale.

La controversa interpretazione della resistenza a pubblico ufficiale

Il fulcro del ricorso del Pubblico Ministero si concentrava su due punti cruciali:
1. L’elemento oggettivo: il P.M. sosteneva che il giudice di primo grado avesse errato nel definire la condotta di minaccia o violenza, richiedendo un’intensità tale da impedire di fatto l’atto d’ufficio.
2. L’elemento soggettivo: veniva criticata l’esclusione apodittica (cioè, data come ovvia e non argomentata) dell’intenzione dell’imputato, senza un’adeguata analisi delle circostanze concrete.

La difesa dell’imputato, dal canto suo, aveva sostenuto in una memoria difensiva che si fosse trattato di un errore di persona da parte degli agenti operanti.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso del Pubblico Ministero, annullando la sentenza di assoluzione e rinviando il caso per un nuovo giudizio al Tribunale di Bari. La motivazione della Corte si basa su un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità.

I giudici hanno affermato che l’interpretazione del Tribunale, secondo cui la violenza o minaccia debba essere “idonea ad impedire concretamente al funzionario il compimento dell’atto”, è in netto contrasto con l’orientamento consolidato. La Cassazione ha ribadito il principio secondo cui, in tema di resistenza a pubblico ufficiale, non è necessario che la libertà di azione del pubblico ufficiale sia effettivamente bloccata. È sufficiente che l’agente usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio. L’esito di tale azione, positivo o negativo che sia, è irrilevante ai fini della configurabilità del reato.

Inoltre, la Corte ha giudicato fondato anche il secondo motivo di ricorso, relativo all’elemento soggettivo. Il giudice di merito aveva escluso l’intenzionalità della condotta in modo sbrigativo e non motivato, senza procedere a un doveroso esame delle circostanze e delle modalità con cui le frasi offensive erano state pronunciate.

Conclusioni: Cosa Significa Questa Sentenza

Questa pronuncia della Cassazione è di fondamentale importanza perché riafferma con chiarezza la portata dell’articolo 337 del codice penale. Stabilisce che l’essenza del reato di resistenza a pubblico ufficiale non risiede nel risultato ottenuto (l’impedimento dell’atto), ma nell’azione di opposizione stessa, quando questa si manifesta con violenza o minaccia. Questo significa che anche una minaccia verbale o un atteggiamento aggressivo, pur non riuscendo a bloccare l’operato delle forze dell’ordine, può essere sufficiente per integrare il delitto. La sentenza serve da monito: l’intento di opporsi a un atto legittimo di un pubblico ufficiale, manifestato con modalità aggressive, è di per sé penalmente rilevante, a prescindere dal successo o meno dell’azione di resistenza.

Per commettere il reato di resistenza a pubblico ufficiale è necessario impedire fisicamente l’azione dell’agente?
No, secondo la Corte di Cassazione non è necessario che sia concretamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale. È sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto del suo ufficio, indipendentemente dall’esito.

Quale tipo di condotta integra la ‘violenza o minaccia’ richiesta dalla norma?
La sentenza chiarisce che una condotta palesemente e intenzionalmente aggressiva e intimidatoria, anche se solo verbale, può essere sufficiente. L’elemento chiave è che sia idonea a ingenerare timore o a limitare la libertà morale del soggetto passivo.

Perché la sentenza di assoluzione del Tribunale è stata annullata?
È stata annullata perché il giudice di primo grado ha interpretato erroneamente l’art. 337 c.p., richiedendo che la minaccia fosse concretamente idonea a impedire l’atto d’ufficio. Inoltre, ha escluso l’intenzionalità della condotta senza una motivazione adeguata e senza esaminare le circostanze del fatto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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