Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 22623 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 22623 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/03/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOMECOGNOME nato in Marocco il 5/6/1992 NOME COGNOME nato in Albania l’1/4/1993
NOME nato in Tunisia il 10/6/1998
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 10/9/2024
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi i ricorsi inammissibili.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza resa in data 10.9 .2024, la Corte d’Appello di Milano, provvedendo in ordine agli appelli proposti da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso la sentenza di condanna pronunciata dal G.i.p. del Tribunale di Varese in data 29.5.2023 all’esito di un giudizio abbreviato , ha rideterminato -previa concessione delle circostanze attenuanti generiche -la pena inflitta a Tali per il reato di cui agli artt. 110, 112, comma 1, n. 1) e 337 cod. pen. (capo 1) in otto mesi di reclusione e la pena inflitta a NOME COGNOME per il
reato di cui agli artt. 110, 112, comma 1, n. 1) e 635, comma 2, cod. pen. (capo 3) in mesi dieci e giorni venti di reclusione, confermando invece la sentenza di condanna di Sfina alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 112, comma 1, n. 1) e 414 cod. pen. (capo 2).
1.1 La sentenza di secondo grado ricostruisce dapprima il contesto nel quale sono maturati i fatti ascritti ai singoli imputati, avvenuti il 22.1.2021 nella Casa circondariale di Varese, ove si era verificata una situazione di agitazione tra i detenuti della sezione a regime custodiale aperto.
Quanto, in particolare, ai tre ricorrenti, la sentenza ha dato atto che dal compendio probatorio del giudizio di primo grado sia emerso:
che NOME COGNOME aveva assunto atteggiamenti polemici, reiterando richieste immotivate e gesti autolesivi per lamentarsi di non essere assistito in modo adeguato dal punto di vista medico e anche insinuando di essere stato destinatario di violenza; aveva istigato la rivolta nel piano terra, in concorso con due detenuti, formulando sollecitazioni violente raccolte dagli altri reclusi che davano corso a condotte di danneggiamento;
che NOME COGNOME era stato autore, in concorso con altri detenuti, di violenza ai danni di due agenti intervenuti al primo piano, i quali erano stati accerchiati con atteggiamento intimidatorio e costretti ad arretrare e a uscire dal piano, nel contesto di un tumulto in corso, nel quale gli appartenenti alla polizia penitenziaria erano di fatto in balia dei detenuti;
che NOME COGNOME si era reso responsabile del reato di danneggiamento aggravato, ripreso anche da una videocamera mentre colpiva con calci il blindo di una cella e mentre scendeva le scale impugnando una spranga di legno.
1.2 Quindi, la sentenza di appello rileva che:
Tali ha presentato appello, contestando l’insussistenza del reato, essendo risultato dalla relazione di servizio dell’assistente COGNOME che l’imputato non avesse usato minaccia o violenza nei suoi confronti; l’accerchiamento era dovuto più semplicemente alla necessità di comprendere che cosa stesse accadendo e, di fatto, Tali non aveva impedito alcun atto di ufficio, né aveva posto in essere alcuna condotta di costrizione nei confronti degli agenti, con i quali si era limitato a parlare;
COGNOME ha presentato appello, contestando, fra l’altro , l’insussistenza del reato per non essere stato identificato con certezza come uno degli autori dei fatti contestati, in quanto non indicato da alcuno dei testi oculari e individuato solo in base alle immagini della video-sorveglianza, che tuttavia non davano certezza in ordine alla identità del soggetto ritratto;
COGNOME ha presentato appello, contestando anch’egli -oltre che il trattamento sanzionatorio -l’insussistenza del reato, in quanto la frase incriminata era stata
da lui pronunciata prima dell’inizio della rivolta, quando la situazione era sì agitata ma sotto controllo, sicché quella condotta non era stata idonea a indurre gli altri detenuti a commettere i successivi delitti.
1.3 Quanto ai detti atti di appello, i giudici di secondo grado hanno considerato:
che Tali è stato ripreso dalle telecamere quando accerchia con altri detenuti gli agenti intervenuti al piano superiore per verificare le condizioni di un detenuto e si nota che in conseguenza di ciò i due sono costretti ad arretrare: questa condotta ha integrato la resistenza, in quanto è stato impedito agli agenti di intervenire in soccorso del detenuto;
che anche NOME è stato ripreso dalla telecamera nell’atto di porre in essere le condotte descritte nella sentenza di primo grado e gli operanti lo hanno riconosciuto con certezza. Non rileva che egli, battendo con una spranga sulle inferriate, non abbia prodotto danni apprezzabili, in quanto con la sua condotta ha dato comunque un contributo morale e materiale alle condotte di danneggiamento poste in essere da tutti i partecipanti alla rivolta, il che rende evidente anche la sussistenza dell’aggravante dell’art. 112 cod. pen.;
-che, dalle annotazioni di servizio e dalle immagini delle telecamere di sorveglianza, risulta che COGNOME abbia avuto un ruolo nel fomentare la rivolta, perché dall’interno della propria cella ha cominciato ad urlare e a incitare gli altri detenuti, ingenerando in essi il falso convincimento che il detenuto COGNOME fosse stato violentemente percosso dagli agenti di polizia penitenziaria. Questa condotta è del tutto idonea a integrare il reato di cui all’art. 414 cod. pen., che è reato di pericolo, per la sussistenza del quale è sufficiente l’idoneità dell’azione a suscitare consensi nei confronti di altre persone.
Avverso la predetta sentenza, ha proposto ricorso, in primo luogo, il difensore di NOME COGNOME articolando tre motivi.
2.1 Con il primo motivo, deduce, ai sensi dell’art. 606, comma, 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., erronea applicazione della legge penale, vizio di motivazione e travisamento dei fatti.
In particolare, eccepisce che la visione del filmato andrebbe integrata dalla valutazione della relazione di servizio redatta dall’agente accerchiato, da cui si evince che la condotta era giustificata dalla necessità dei detenuti di comprendere quali fossero le condizioni di salute del detenuto COGNOME il quale lamentava di essere stato colpito. Inoltre, risulta che non siano state rivolte minacce e che l’arretramento degli agenti sia dipeso non dall’accerchiamento, ma dal contestuale azionamento del sistema antincendio. Anche l’atto di ufficio indicato
nell’imputazione, ovvero il soccorso del detenuto COGNOME non è evincibile dai filmati, né da altri atti di indagine. Di conseguenza, la motivazione è apodittica.
2.2 Con il secondo motivo, deduce erronea applicazione della legge penale e vizio di motivazione, evidenziando che a Tali era contestato il concorso materiale e non morale nel reato di resistenza a pubblico ufficiale, sicché la motivazione della sentenza, secondo cui è penalmente rilevante anche il comportamento di chi assiste alla resistenza attiva posta in essere da altre persone e ne rafforza così l’azione, nulla ha a che vedere con il caso concreto.
2.3 Con il terzo motivo, deduce la apparenza della motivazione dei giudici di appello sulla sussistenza del reato, laddove invece avrebbe dovuto essere pronunciata sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen. per la contraddittorietà e la insufficienza della prova: in questo modo, risulta violato il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
In secondo luogo, il ricorso presentato dal difensore di NOME COGNOME si articola in un motivo unico, con il quale si deduce la violazione dell’art. 125 c od. proc. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Si rileva, in particolare, che non risulta in sentenza che la Corte di Appello abbia visionato i filmati, su cui si basavano le censure dell’atto di appello. Di conseguenza, la motivazione è viziata, per non avere i giudici verificato che le immagini fossero in realtà inintelligibili in relazione alla identificazione dell’imputato.
Quanto alla condotta, la Corte stessa riconosce che COGNOME non ha fornito un apporto diretto di danneggiamento e lo ha ritenuto responsabile a titolo di concorso morale. Tale argomento è manifestamente illogico e contraddittorio, perché in realtà nella sentenza sono stati individuati i soggetti che hanno incitato gli altri alla rivolta e fra questi non vi è NOME, in relazione al quale, quindi, non si comprende quali azioni di istigazione dell’altrui volontà avrebbe posto in essere, tanto è vero che non sono individuate specificamente.
Infine, il ricorso presentato dal difensore di Sfina Safeddine si articola in un motivo unico, con il quale si deduce la erronea applicazione della legge penale in ordine all’art. 414 c od. pen. e la manifesta illogicità della motivazione.
Nell’atto di appello, si era fatto rilevare che difettassero entrambi i requisiti oggettivi del reato di istigazione a delinquere, atteso che la frase pronunciata dall’imputato non poteva considerarsi idonea a determinare altri alla commissione di un delitto, in quanto udita un’ora prima dei disordini, e che in ogni caso si trattava di una esclamazione del contenuto indeterminato.
Ciò nonostante, la Corte d’Appello ha omesso di confrontarsi con queste specifiche doglianze, limitandosi a una motivazione apparente che richiama una non meglio giurisprudenza consolidata. In particolare, difetta ogni spiegazione della effettiva inidoneità della frase a determinare la commissione di un delitto e ogni valutazione della frase stessa in relazione alle circostanze di tempo e di luogo in cui fu pronunciata.
Con requisitoria scritta trasmessa il 28.2.2025, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati inammissibili, quelli di Sfina e di Ismaili in quanto privi di specificità ed essenzialmente reiterativi di doglianze già esaminate e non accolte dalla Corte di appello, con la cui sentenza non si confrontano adeguatamente, mentre quello di Tali in quanto prospetta sostanzialmente un vizio di travisamento del fatto, che non è deducibile, e, a sua volta, non si confronta criticamente con le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, dilungandosi in considerazioni in fatto dirette a sollecitare un inammissibile riesame delle risultanze istruttorie.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono complessivamente infondati per le ragioni di seguito esposte.
Il primo motivo del ricorso di NOME COGNOME è infondato innanzitutto nella parte in cui, contestando la ricostruzione del fatto, eccepisce la inidoneità della condotta dell’imputato ad integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale.
Sotto questo profilo , la Corte d’Appello conferma , dalla visione delle immagini, che l’accerchiamento degli agenti di polizia penitenziaria ad opera di più detenuti, fra cui Tali, ne determinò l’arretramento .
Il ricorso propone sostanzialmente l’attribuzione a queste immagini visionate dai giudici di merito di un significato diverso da quello posto a base della decisione, sollecitando l’integrazione della visione del filmato con le risultanze dell’annotazione r edatta da uno dei pubblici ufficiali destinatari della condotta.
L’atto in questione è stato allegato al ricorso a fini di autosufficienza e, per vero, non è in alcun modo suscettibile di inficiare la motivazione della Corte d’Appello, in quanto offre, al contrario, pieno riscontro circa il fatto che i due agenti furono circondati da sette detenuti e che, mentre erano intenti a fronteggiarli, un ottavo detenuto ne approfittò per mettere in funzione la manichetta antincendio; ne derivò la fuoriuscita di acqua dall’idrante e il conseguente arretramento degli agenti stessi, riusciti infine ad allontanarsi dalla sezione, ovviamente senza
compiere l’atto di ufficio, solo per effetto dell’intervento dall’esterno di un altro collega.
Si può ben affermare, di conseguenza, che l’obiezione difensiva secondo cui l’unico scopo dei detenuti era quello di sincerarsi a loro volta delle condizioni del detenuto che lamentava un malore sia non più che una non consentita rilettura alternativa degli elementi di fatto, la quale peraltro non trova alcuna convalida negli stessi atti indicati dal ricorrente.
Né ha pregio, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 337 cod. pen., il rilievo secondo cui non risulti che, nel frangente dell’accerchiamento, sia stata esercitata violenza ovvero siano state pronunciate minacce all’indirizzo dei pubblici ufficiali.
La censura trascura di considerare che ad integrare l’elemento materiale del delitto di resistenza a pubblico ufficiale è sufficiente la violenza cosiddetta impropria, che comprende nella sua lata accezione ogni comportamento idoneo ad impedire o ad ostacolare l’esplicazione della pubblica funzione (Sez. 6, n. 2020 del 21/11/1988, dep. 1989, Tropeano, Rv. 180443 -01; v. anche Sez. 4, n. 41936 del 14/7/2006, Campicello, Rv. 235535 -01; Sez. 6, n. 31716 del l’ 8/4/2003, Laraspata, Rv. 226251 -01).
Di conseguenza, la materialità del delitto di cu i all’art. 337 cod. pen. è integrata anche dalla violenza, che, pur non consistendo in una diretta aggressione del pubblico ufficiale, si riverbera negativamente nell’esplicazione della relativa funzione pubblica, impedendola o semplicemente ostacolandola (Sez. 6, n. 7061 del 25/5/1996, COGNOME, Rv. 206021 – 01), in quanto diretta ad esercitare pressioni sulla volontà altrui e, quindi, idonea a privare coattivamente l’offeso della libertà di determinazione e di azione.
È da considerarsi infondata, infine, la doglianza attinente all’individuazione dell’atto di ufficio il cui compimento i detenuti avrebbero impedito .
L’atto di ufficio non era quello di soccorrere il detenuto colpito da apparente malore, ma piuttosto quello -nel già problematico contesto di tensione determinatosi nel carcere -di verificare le sue condizioni, giacché vi era il legittimo sospetto che fingesse.
In ogni caso, l’atto di ufficio è quello indicato all’inizio del capo di imputazione relativo al reato di cui all’art. 337 cod. pen. , ovvero l’atto di ripristinare le condizioni di sicurezza nel carcere e di arginare sul nascere la protesta collettiva dei detenuti, nel cui complessivo ambito rientra lo specifico atto in questione, cui Tari e gli altri soggetti con lui concorrenti intendevano opporsi.
Quanto appena considerato in relazione al primo motivo di ricorso, rende evidente la manifesta infondatezza del secondo motivo, che lamenta una condanna di Tali per concorso morale a fronte della contestazione di concorso materiale.
Ciò che rileva, sotto questo profilo, è che la condotta specificamente contestata nel capo di imputazione a Tari e ai concorrenti nel reato ex art. 337 cod. pen. -l’avere accerchiato ‘con chiaro intento intimidatorio’ i pubblici ufficiali -è stata ritenuta provata.
I giudici di secondo grado hanno operato un espresso riferimento al fatto che tale condotta ha ‘impedito agli agenti di intervenire’. Circondare fisicamente due persone che stanno ponendo in essere un’azione e inibirgliene in tal modo il concreto compimento è una specifica condotta materiale, che è ascrivibile alla stretta fase di esecuzione del reato.
Trattandosi di condotta collettiva eseguita contestualmente e allo stesso modo da sette persone, non si pone questione della eventuale valenza morale del contributo di taluno di essi in senso rafforzativo del proposito criminoso altrui: tutti hanno agito in forza di un comune proposito criminoso iniziale, cui hanno dato seguito in maniera sincronica.
In ogni caso, anche a stare alla -si ripete -non giustificata censura del ricorrente, la consolidata giurisprudenza di legittimità milita univocamente nel senso che non sussiste la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza nel caso in cui l’imputato, al quale sia stato contestato di essere l’autore materiale del fatto, sia riconosciuto responsabile a titolo di concorso morale, giacché tale modifica non comporta una trasformazione essenziale del fatto addebitato, né può provocare menomazioni del diritto di difesa, ponendosi in rapporto di continenza e non di eterogeneità rispetto alla originaria contestazione (Sez. 2, n. 30488 del 9/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284953 -01; Sez. 2, n. 12207 del 17/3/2015, Abruzzese, Rv. 263017 -01; Sez. 5, n. 15556 del 9/3/2011, Bruzzese, Rv. 250180 -01).
Il motivo, pertanto, è inammissibile.
3. Anche il terzo motivo è manifestamente infondato.
Si tratta, infatti, di motivo generico, che non indica le critiche specifiche mosse alla sentenza e si risolve in una sommaria e indeterminata doglianza di motivazione apparente e di violazione del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Verosimilmente congegnato come il portato finale degli argomenti sviluppati nei precedenti motivi di ricorso, non formula censure attinenti ad aspetti peculiari della motivazione della Corte d’Appello di Milano: non si rinviene la precisa prospettazione delle ragioni di diritto o degli elementi di fatto da sottoporre a
verifica e si attacca a grandi linee l’inadeguatezza della pronuncia, senza che sia possibile enucleare i capi o i punti che si impugnano e quali ben determinati argomenti della sentenza si criticano.
In questo modo, dunque, il motivo si consegna alla censura di inammissibilità per difetto di specificità.
Quanto al ricorso di NOME COGNOME la circostanza che non risulti dalla sentenza impugnata se i giudici di appello abbiano o meno proceduto alla visione dei filmati acquisiti è del tutto ininfluente, giacché la questione che viene posta è quella della precisa identificazione del ricorrente come partecipante alla complessiva condotta di danneggiamento dei beni della Casa circondariale di Varese.
Dovendosi escludere (e non essendo stato nemmeno addotto nel ricorso) che i componenti del collegio fossero nella condizione di riconoscere personalmente nel filmato l’imputato (che, del resto, è rimasto assente in giudizio), la Corte d’Appello ha valorizzato del tutto ritualmente peraltro, nel contesto di un giudizio abbreviato c.d. secco -il riconoscimento di NOME che era stato operato dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini.
In questo modo, è stata fatta ragionevole applicazione del principio secondo cui il riconoscimento dell’imputato nel soggetto ritratto nei fotogrammi estratti dalla registrazione effettuata dalle telecamere di sicurezza presenti sul luogo di consumazione del delitto, operato da parte del personale di polizia giudiziaria che vanti pregressa personale conoscenza dello stesso, ha valore di indizio grave e preciso a suo carico, la cui valutazione è rimessa al giudice di merito (Sez. 2, n. 45655 del 16/10/2014, COGNOME Rv. 260791 -01; Sez. 2, n. 15308 del 7/4/2010, COGNOME, Rv. 246925 – 01).
Il ricorso di COGNOME contesta, altresì, che la sentenza impugnata abbia affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di danneggiamento a titolo di concorso morale, senza indicare quali condotte di istigazione o di rafforzamento dell’altrui volontà avrebbe tenuto.
Ma, in realtà, la Corte d’Appello ha affermato che COGNOMEha dato un forte contributo morale e materiale alle condotte di danneggiamento poste in essere da tutti i partecipanti alla rivolta’, peraltro individuan do specificamente la sua azione di partecipazione all’azione esecutiva del reato, con il richiamo al fatto che è stato riconosciuto da parte degli operanti come la persona che prendeva a calci il blindo e scendeva le scale impugnando una spranga di legno.
Il fatto che l’imputato sia stato ritenuto responsabile del reato contestato sia a titolo di concorso materiale che di concorso morale è rilievo insuscettibile di dare
corpo ad una doglianza di eventuale pregiudizio concreto all’esercizio del diritto di difesa (che, infatti, il ricorso non arriva a formulare espressamente).
Ciò che rileva -anche nel caso di COGNOME -è che la condotta a lui specificamente contestata nel capo di imputazione abbia costituito oggetto di corretta valutazione probatoria da parte dei giudici di merito nel contraddittorio tra le parti: che la stessa sia poi qualificabile come concorso materiale o morale, ovvero come integrante l’uno e l’altro, è elemento in sé non passibile di alcuna censura di legittimità, né sotto il profilo della violazione di legge né sotto quello del vizio di motivazione.
Il reato concorsuale, infatti, è la risultante dell’apporto individuale di più soggetti, che può integrare l’azione tipica o può aggiungersi all’azione tipica dell’autore principale . Le singole condotte si integrano nella complessiva condotta concorsuale nell’unità lesiva del reato, in virtù della quale ogni concorrente risponde del reato nel suo complesso.
In quanto diretto alla realizzazione dell’evento finale, il contributo di ciascuno, purché accertato nella sua caratterizzazione personale e nel suo elemento soggettivo, rileva in quanto tale secondo la previsione generale dell’art. 110 cod. pen. (che contiene il semplice riferimento al fatto che ‘più persone concorrono nel medesimo reato’, senza ulteriori specificazioni) , e la distinzione che tradizionalmente si fa tra concorso materiale e morale non è coessenziale alla struttura del concorso, ma riguarda piuttosto la determinazione dei coefficienti minimi della rilevanza penale di ciascuna condotta di partecipazione.
Del resto, dentro ad un prolungato tumulto globale al quale partecipano consapevolmente numerose persone, può ben essere che la condotta di un singolo, protrattasi per un tempo apprezzabile, rappresenti un contributo sia materiale che morale all’azione collettiva di resistenza.
Il ricorso di COGNOME, pertanto, deve essere disatteso.
Quanto, infine, al ricorso di NOME COGNOME, la censura di omessa motivazione circa l’idoneità della frase pronunciata dall’imputato ad istigare alla rivolta è infondata.
In realtà, la Corte d’Appello premette che COGNOME è stato individuato come uno degli animatori della sollevazione dei detenuti e indica in maniera adeguata il tenore delle urla da lui pronunciate dall’interno della cella e le loro conseguenze sulla falsa rappresentazione ingenerata negli altri reclusi che fosse in atto una ingiustificata azione violenta ai danni di un altro detenuto, tale da legittimare una reazione della comunità carceraria.
I giudici di secondo grado, quindi, hanno spiegato congruamente le ragioni per le quali la frase proferita rappresentava in concreto una spinta sulla psiche
degli altri detenuti per incitarli a compiere ‘casino’ e, dunque, potenziali fatti di reato.
In questo modo, la sentenza impugnata risulta rispettosa del principio secondo cui il delitto di istigazione a delinquere, previsto dall’art. 414 cod. pen., è reato di pericolo concreto e non presunto e richiede di conseguenza per la sua configurazione un comportamento che sia ritenuto concretamente idoneo, sulla base di un giudizio “ex ante”, a provocare la commissione di delitti (Sez. 5, n. 48247 del 12/9/2019, Pmt c. De Salvatore, Rv. 277428 -01; Sez. 1, n. 25833 del 23/4/2012, Testi, Rv. 253101 – 01).
A fronte di ciò, il ricorso sollecita essenzialmente una rivalutazione degli elementi di fatto già presi in considerazione dal giudice di merito e, pertanto, va disatteso.
6. Alla luce di quanto fin qui osservato, dunque, i ricorsi devono essere rigettati, con la conseguente condanna dei ricorrenti, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 25.3.2025