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Resistenza a pubblico ufficiale: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 590/2025, ha confermato la condanna per resistenza a pubblico ufficiale a carico di tre manifestanti. La Corte ha stabilito che partecipare attivamente a un’azione collettiva di scontro con le forze dell’ordine, anche senza compiere personalmente atti di violenza, integra il reato. È stato ritenuto sufficiente ‘fronteggiare’ la polizia in prima fila per configurare una condotta penalmente rilevante, rafforzando l’azione del gruppo. La sentenza ha inoltre validato l’identificazione degli imputati basata sulle testimonianze degli agenti che li avevano riconosciuti tramite video e fotografie.

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Pubblicato il 9 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Resistenza a Pubblico Ufficiale: Quando la Presenza in Prima Fila Diventa Reato

Il reato di resistenza a pubblico ufficiale è spesso al centro di dibattiti legali, specialmente quando si verificano scontri durante manifestazioni. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 590 del 2025, offre chiarimenti cruciali su quando un comportamento possa essere qualificato come tale, anche in assenza di atti di violenza diretta. La domanda centrale è: basta essere in prima fila e spingere contro gli scudi della polizia per essere condannati? La Suprema Corte ha dato una risposta affermativa.

I Fatti del Caso: Una Manifestazione non Autorizzata

Il caso trae origine da una manifestazione non autorizzata, organizzata da un centro sociale per protestare contro una riunione politica che si teneva in un hotel. I manifestanti, intenzionati a raggiungere il luogo, si sono scontrati con uno sbarramento delle forze dell’ordine.

Durante lo scontro, alcuni partecipanti, travisati per non essere riconosciuti, hanno utilizzato scudi in plexiglass per tentare di sfondare il cordone di polizia. La situazione è degenerata con una carica di alleggerimento da parte della polizia, a cui i manifestanti hanno risposto con il lancio di fumogeni. Tre persone, identificate come partecipanti attivi allo scontro, sono state processate e condannate in primo e secondo grado per resistenza aggravata.

L’Identificazione degli Imputati e i Motivi del Ricorso

Gli imputati hanno presentato ricorso in Cassazione, sollevando due questioni principali:
1. Inaffidabilità dell’identificazione: Sostenevano che il loro riconoscimento fosse avvenuto tramite video e foto visionati solo dagli inquirenti e non esaminati in dibattimento, rendendo la prova inattendibile.
2. Errata qualificazione del reato: Affermavano che la loro condotta non costituisse resistenza a pubblico ufficiale, ma al massimo una mera disobbedienza, poiché si erano limitati ad “appoggiarsi” agli scudi della polizia senza un contributo causale concreto agli atti di violenza.

La Decisione della Cassazione sulla Resistenza a Pubblico Ufficiale

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la condanna. I giudici hanno chiarito due principi fondamentali che definiscono i contorni del reato di resistenza a pubblico ufficiale in contesti di gruppo.

Validità dell’Identificazione Testimoniale

In primo luogo, la Corte ha stabilito che l’identificazione degli imputati era pienamente valida. Il convincimento del giudice non si è basato sul riconoscimento come strumento probatorio formale, ma sull’attendibilità della testimonianza degli agenti di polizia. Questi, avendo esaminato foto e video (provenienti non solo dalla polizia scientifica ma anche da emittenti televisive e stampa) e conoscendo già gli imputati come persone attive nell’antagonismo politico locale, hanno potuto confermare con certezza la loro identità in aula. Questo metodo, ribadisce la Corte, è un accertamento di fatto liberamente apprezzabile dal giudice.

“Fronteggiare” la Polizia è Resistenza

Il punto più significativo della sentenza riguarda la qualificazione giuridica della condotta. La Cassazione ha specificato che integra l’elemento materiale del reato di resistenza non solo l’azione di chi usa direttamente violenza (es. lanciando oggetti), ma anche quella di chi, partecipando a un’azione collettiva, “fronteggia” ripetutamente e in maniera ostile i pubblici ufficiali.

Le Motivazioni della Corte

La Suprema Corte ha argomentato che porsi in prima linea e spingere contro il cordone di polizia per sfondarlo non può essere banalizzato come un “legittimo atto di presenza”. Al contrario, è una condotta che esprime la chiara volontà di ostacolare attivamente l’operato delle forze dell’ordine. Questo comportamento aggressivo, anche se non si traduce nel lancio di corpi contundenti, rafforza di fatto l’azione violenta del gruppo. Di conseguenza, chi partecipa a questo “fronteggiamento” si rende responsabile del reato di resistenza, quantomeno a titolo di concorso morale. Si contribuisce cioè a creare e sostenere la pressione e la violenza collettiva contro gli agenti.

Infine, riguardo alla circostanza aggravante del numero di persone (più di dieci), la Corte ha dichiarato il motivo inammissibile perché non sollevato nel precedente grado di giudizio, ma ha comunque sottolineato che era infondato, dato che allo scontro avevano partecipato circa 50-60 manifestanti.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa pronuncia consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso in materia di ordine pubblico. L’insegnamento pratico è chiaro: durante una manifestazione, la partecipazione attiva a un’azione di contrasto fisico con la polizia, come spingere contro un cordone o trovarsi in prima linea in un’azione volta a forzarlo, è sufficiente per essere ritenuti penalmente responsabili di resistenza a pubblico ufficiale. Non è necessario essere l’autore materiale di un lancio di oggetti o di una specifica violenza; il contributo all’azione collettiva ostile è di per sé penalmente rilevante.

È sufficiente trovarsi in prima fila durante uno scontro con la polizia per essere condannati per resistenza a pubblico ufficiale?
Sì, secondo la Corte. Partecipare attivamente a un’azione collettiva di “fronteggiamento” delle forze dell’ordine, anche senza compiere personalmente atti di violenza come il lancio di oggetti, integra il reato di resistenza. L’azione rafforza l’opposizione del gruppo e costituisce almeno un concorso morale nel delitto.

L’identificazione di un manifestante tramite video e foto visionati solo dalla polizia è una prova valida in tribunale?
Sì, a condizione che tale identificazione venga confermata in tribunale dalla testimonianza degli agenti che l’hanno effettuata. Il convincimento del giudice si fonda sull’attendibilità della deposizione del testimone che, dopo aver visionato il materiale, si dice certo dell’identificazione.

Cosa significa “fronteggiare” la polizia nel contesto del reato di resistenza?
Significa opporsi attivamente alla polizia durante una manifestazione, con un atteggiamento aggressivo e oppositivo, con lo scopo di ostacolarne l’attività. Questo comportamento, secondo la sentenza, non è un semplice atto di presenza ma una condotta che configura il reato di resistenza a pubblico ufficiale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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