Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 32259 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 32259 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 06/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato in Algeria il 26 giugno 2000;
avverso la sentenza n. 1818/2024 della Corte di appello di Ancona del 20 settembre 2024;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
letta, altresì, la memoria scritta redatta nell’interesse del ricorrente dall’avv. NOME COGNOME del foro di Fermo, con la quale si è insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza pronunziata in data 20 settembre 2024 la Corte di appello di Ancona, in accoglimento della impugnazione presentata dalla competente Procura della Repubblica e rigettando, invece, la impugnazione presentata dall’imputato, ha parzialmente riformato la sentenza con la quale il Tribunale di Fermo, il precedente 18 maggio 2023, decidendo in esito a giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato, aveva affermato la penale responsabilità di NOME in ordine al reato a lui contestato, avente ad oggetto la violazione dell’art. 7, comma 1, del decreto legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. 26 del 2019, per avere il medesimo, all’atto della presentazione della istanza volta al conseguimento del “reddito di cittadinanza”, dichiarato falsamente di avere risieduto in Italia per almeno 10 anni e di risiedervi in modo continuativo da almeno 2 anni, e lo aveva, pertanto, condannato, riconosciute in suo favore le circostanze attenuanti generiche ed applicata la diminuente per la scelta del rito, alla pena, peraltro oggetto di sospensione condizionale della sua esecuzione, di anni 1 di reclusione.
Come accennato, avendo sia l’imputato che il Pm proposto impugnazione avverso la predetta sentenza emessa dal giudice di primo grado, la Corte territoriale, con la ricordata sentenza del 20 settembre 2024, rigettava la impugnazione della parte privata ed accoglieva, in toto, invece quella della parte pubblica, afferente alla omessa confisca del profitto conseguito dall’imputato mercé la falsa dichiarazione, disponendo la ablazione della somma di euri 3.400,00, pari all’importo monetario del reddito di cittadinanza percepito dal COGNOME.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la difesa dei prevenuto, affidando le proprie doglianze ad un unico motivo con il quale deduceva la erroneità della sentenza impugnata nonché il vizio di motivazione della medesima per non avere i giudici del merito tenuto conto della sentenza n. 112 del 2024 con la quale la Corte di giustizia dell’Unione europea aveva rilevato come fosse in contrasto con la normativa unionale la richiesta di soggiorno per almeno 10 anni all’interno del territorio dello Stato per potere accedere al beneficio del “reddito di cittadinanza”, da parte di cittadini di paesi estranei alla Unione comunque soggiornanti di lungo periodo.
Avendo il Procuratore generale concluso per il rigetto del ricorso presentato dalla difesa dell’imputato, questa, con memoria del 15 aprile 2015, ha insistito, invece, per il suo accoglimento, segnalando l’intervento di altro
provvedimento giurisdizionale, cioè la sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), n. 2), del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. 26 del 2019, nella parte in cui in esso era prevista, quale condizione per l’accesso al “reddito di cittadinanza” la residenza sul territorio nazionale per almeno 10 anni e non per almeno 5 anni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto è fondato e, pertanto, lo stesso è meritevole di accoglimento.
Con la sentenza impugnata, oltre ad essere stata accolta la doglianza del Pm avverso la sentenza emessa in primo grado, è stata confermata la affermazione della penale responsabilità del prevenuto, il quale, in violazione dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito con modificazioni, con legge n. 26 del 2019, nel presentare la domanda avente ad oggetto il riconoscimento del diritto alla percezione del reddito di cittadinanza, attestava falsamente di avere risieduto in Italia per almeno 10 anni, laddove era, invece, ivi residente solo dal 7 giugno 2015.
Deve, in primo luogo osservarsi che, stante la mancanza di censura sul punto della difesa dell’imputato, non vi è luogo ad esaminare la puntualità della laconica sentenza della Corte di appello dorica in relazione alla ammissibilità della, peraltro accolta, impugnazione presentata dal Pm avverso la sentenza di primo grado emessa, in esito a giudizio celebrato nelle forme del rito abbreviato, dal Gup del Tribunale di Fermo; invero, trattandosi di sentenza di condanna in esito a giudizio celebrato, come detto, nelle forme del rito abbreviato ed avente ad oggetto, senza che vi sia stata alcuna modifica del titolo di reato contestato, la imputazione per la quale il prevenuto era stato rinviato a giudizio, essa, ai sensi dell’art. 443, comma 3, cod. proc. pen., non sarebbe stata suscettibile di essere appellata dal Pm (cosa, invece, avvenuta, secondo quanto riportato nella sentenza impugnata, con atto di questo Ufficio giudiziario del 6 giugno 2023), potendo la censura avente ad oggetto la omessa deliberazione della confisca del profitto conseguito con il reato contestato, essere oggetto esclusivamente di ricorso per cassazione.
E’, d’altra parte, ben vero che, essendo stata impugnata (peraltro in data 10 agosto 2023 e quindi dopo l’atto di appello del Pm) anche dall’imputato la sentenza di condanna a suo carico, la impugnazione del Pm (verosimilmente considerata – posto che altrimenti doveva essere
immediatamente dichiarata inammissibile – pur nel silenzio serbato sul punto dalla Corte dorica, da questa quale ricorso per cassazione) andava comunque trattata, sia pure in guisa di ricorso di legittimità, dalla Corte di appello, stante la previsione normativa contenuta nell’art. 580 cod. proc. pen.
Tanto chiarito, osserva il Collegio che l’esito della presente vicenda risulta pesantemente condizionato da due interventi giurisprudenziali – si tratta rispettivamente della sentenza della Corte di giustizia della Unione europea del 29 luglio 2004 che ha analizzato il tema della compatibilità con il diritto unionale, nella specie l’art. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109/CE del 25 novembre 2003, della disciplina nazionale in materia di requisiti per l’accesso al “reddito di cittadinanza”, e della sentenza n. 31 del 20 marzo 2025 della Corte costituzionale – che impongono una riparametrazione dei termini normativi riferiti alla posizione del ricorrente.
L’esame del primo di tali provvedimenti consente di rilevare che l’organo giurisdizionale sovranazionale ha, nel ricostruire l’ambito operativo della normativa italiana in tema di “reddito di cittadinanza”, rilevato – in ciò, come vedremo, offrendo una visione di questa non pienamente collimante con quelle che ne ha dato la Corte costituzionale – che essa “costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’art. 11, par. 1, lett. d), della” citata direttiva, concernendo “le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale”; riguardo a tali misure “il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali”.
E’ stato, altresì, rilevato nella predetta sentenza che – essendo stabilito che lo status di soggiornante di lungo periodo è attribuito ad un cittadino di uno Stato terzo rispetto all’Unione europea in quanto questi vanti un periodo di soggiorno legale ed ininterrotto di 5 anni in uno degli Stati dell’Unione, testimoniando efficacemente una tale periodo l’esistenza di un “radicamento” del soggetto nello Stato in questione e che un tale requisito debba essere considerato sufficiente affinché il soggetto in questione goda della parità dei diritti con i cittadini dello Stato che lo ospita, “in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, conformemente all’art. 11, par. 1, lett. d)” della citata direttiva – sarebbe in contrasto con la disciplina unionale una normativa interna che “proroghi unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall’art. 11, par. 1, lett. d)” della direttiva in questione (si veda per tali considerazioni: Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 luglio 2025, n. 26397).
Ha, pertanto, concluso la Corte di giustizia stabilendo che, il citato principio “osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo ad una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di avere risieduto in detto Stato membro per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza”.
Il successivo intervento giurisprudenziale in virtù del quale deve essere oggetto di riconsiderazione la rilevanza penale dell’imputato è, come dianzi accennato, costituito dalla sentenza n. 31 del 20 marzo 2025, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica in data 26 marzo 2025; con tale provvedimento la Corte costituzionale – assegnata alla normativa in materia di “reddito di cittadinanza” (in tale senso in parte discostandosi dalla funzione attribuita ad essa dalla Corte di giustizia) una prevalente funzione volta al perseguimento di articolati obbiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale, essendo subvalente la sua funzione assistenziale diretta a soddisfare i bisogni primari dell’individuo, come dimostrato dal fatto che la stessa ha, per un verso, un carattere temporaneo (potendo, pertanto, il beneficio essere erogato per un lasso di tempo inferiore a quello in cui il fruitore si trovi in istato di bisogno) ed è, per altro verso, subordinata al rispetto di precisi impegni assunti dai destinatari della medesima, e preso atto che, nella sua discrezionalità, il legislatore ha inteso estendere il godimento dei benefici connessi alla misura in questione, ribadita la sua natura non meramente assistenziale ma strumentale a favorire l’inserimento dell’individuo nel mondo produttivo del lavoro, anche agli stranieri che, essendo soggiornanti di lungo periodo nel territorio dello Stato, presentano una forma di stabile radicamento nel territorio – ha, tuttavia, osservato che “il periodo di residenza decennale istituisce una barriera temporale all’accesso” al beneficio “che trascende del tutto la ragionevole correlazione con le finalità di quest’ultimo”; esso, in tale modo ” non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del Rdc e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 della Costituzione”.
La Corte costituzionale ha, conclusivamente, rilevato che – in luogo del predetto termine decennale – più congruamente rispettoso dei principi dianzi ricordati è quello di soli 5 anni, durata che oltre ad essere stata considerata sufficiente per la dimostrazione del radicamento sul territorio ai fini del
godimento dell’assegno di inclusione, previsto con decreto-legge n. 48 del 2023, convertito, con modificazioni, con legge n. 85 del 2023, che del “reddito di cittadinanza” è, in qualche misura, “l’avente causa”, costituisce anche termine ritenuto non irragionevole dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 19 del 2022 ai fini della dimostrazione della “relativa stabilità della presenza sul territorio” ed è, infine, indicato nella ricordata sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024 come periodo che testimonia il “radicamento del richiedente nel paese in questione” (così: Corte di cassazione, Sezione III penale, 18 luglio 2025, n. 26397).
In definitiva con la citata sentenza n. 31 del 2025 il Giudice delle leggi ha dichiarato COstituzionale dell’art. 2, comr – na 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge n. 4 del 2029, convertito, con modificazioni, con legge n. 26 del 2019, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere che la durata di tale requisito si estendesse «per almeno 5 anni».
Dovendo trovare, pertanto, applicazione anche al caso ora in esame la citata sentenza della Corte costituzionale, sì rileva che, a prescindere dalla veridicità della dichiarazione resa dal ricorrente in occasione della presentazione della domanda volta a conseguire il beneficio (nella quale egli dichiarò falsamente di essere risiedente da oltre 10 anni sul territorio nazionale), la circostanza che, in ogni caso, egli vantasse il requisito della residenza ultraquinquennale, rende penalmente irrilevante il suo mendacio, atteso che, con riferimento al requisito della residenza in Italia, espressivo del radicamento del Belghazli nel territorio nazionale, il beneficio non era stato comunque indebitamente conseguito (in tale senso, si veda, infatti: Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 13 dicembre 2023, n. 49686, rv 285435, e già prima: Corte di cassazione, Sezione III penale, 1 dicembre 2021, n. 44366, rv 282336).
Giova, peraltro, precisare, con riferimento all’avvenuto maturare dei requisito della residenza quinquennale al momento in cui è stata presentata la domanda di ottenimento del “reddito di cittadinanza”, che lo stesso capo di imputazione chiarisce che l’imputato è “residente in Italia solo a far data dal 7.6.15”; ora, per come si legge nella sentenza di primo grado – sul punto non contestata dal Pm e, pertanto, divenuta definitiva – pur avendo il ricorrente presentato due domande per l’ottenimento del più volte ricordato beneficio, “il breve lasso temporale tra le due condotte consente di ritenere un unum di
reato, come già ritenuto dal Pm in contestazione”; a riprova della piena adesione a tale ricostruzione del fatto di reato il Tribunale di Fermo, nel determinare la pena a carico del COGNOME ha del tutto omesso di calcolare qualsivoglia aumento a titolo di continuazione.
Pertanto, avendo l’imputato presentato la seconda dichiarazione per il conseguimento del “reddito di cittadinanza” – condotta da intendersi quale momento perfezionativo del reato a lui contestato ed in relazione al quale va verificata la sussistenza o meno del reato stesso – in data 19 ottobre 2020, deve concludersi che, effettivamente, a tale data l’imputato era residente sul territorio nazionale da oltre 5 anni.
La sentenza impugnata va, pertanto, annullata senza rinvio perché il fatto addebitato al COGNOME come reato non sussiste.
PQM
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
Così deciso in Roma, il 6 maggio 2025
Il Consigliere estensore
GLYPH
Il Presid