Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 37339 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 37339 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME, nato in Bangladesh il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/01/2025 della Corte di appello di Palermo
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria redatta ai sensi dell’art. 23 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, d Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Palermo.
RITENUTO IN FATTO
Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Palermo ha confermato la decisione resa dal Tribunale di Marsala, la quale aveva condannato NOME alla pena ritenuta di giustizia per il delitto di cui all’art. 7, comma 1, d.l. 28 genn 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, perché, al fine di ottenere il reddito di cittadinanza, rendeva false dichiarazioni, affermando di essere in Italia da almeno dieci anni, mentre aveva fatto per la prima volta ingresso irregolare in Italia il 16 aprile 2015. In Campobello di Mazara in data 3 dicembre 2020.
Avverso l’indicata sentenza, l’imputato, tramite il difensore di fiducia, propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, che deducono:
2.1. la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per sopravvenuta illegittimità costituzionale del presupposto del reato. Espone il difensore che, nelle more del processo, è intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 31 del 2025, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni», ciò che incide sugli elementi costitutivi della condotta penalmente rilevante;
2.2. il vizio di motivazione, posto che, ad avviso del difensore, non è stata raggiunta la prova della falsità della dichiarazione e della sua riferibilità al ric rente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato in relazione al primo motivo e la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
Come condivisibilmente affermato da questa Sezione (cfr. Sez. 3, n. 23449 del 28/05/2025, Condino, Rv. 288230 – 01, e Sez. 3, 3 giugno 2025, n. 26397, COGNOME, non massimata), assumono rilievo le sentenze rese dalla Corte di Giustizia Grande Sezione, resa nelle cause riunite C-112/22 e C-223/22, e dalla Corte costituzionale del 20 marzo 2025, n. 31.
La Corte di Giustizia ha così risposto al quesito proposto dal giudice di rinvio, concernente la compatibilità delle disposizioni che qui rilevano con il diritto
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dell’Unione: «l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
Ai fini che qui rilevano, è opportuno peraltro sottolineare che il requisito della previa residenza decennale è stato censurato anche perché l’art. 4 della già citata direttiva individua in cinque anni il periodo di soggiorno, legale ed ininterrotto, del cittadino di un Paese terzo in uno Stato membro dell’Unione: requisito idoneo a comprovare un adeguato radicamento in quello Stato, e quindi ad attribuire al cittadino del Paese terzo lo status di oggiornante di lungo periodo, come tale avente «diritto alla parità di trattamento con i cittadini di detto Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, conformemente all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), di detta direttiva» (cfr. il § 57 della motivazione). Pertanto, la Corte di Giustizia ha osservato che «uno Stato membro non può prorogare unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, senza violare quest’ultima disposizione» (§ 58).
Di maggiore impatto è la sentenza della Corte costituzionale n. 31 del 2025 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, nella parte in cui prevede che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni».
4.1. In quella decisione, la Corte costituzionale ha innanzitutto evidenziato che “la disciplina del reddito di cittadinanza definisce un percorso dì reinserimento nel mondo lavorativo che va al di là della pura assistenza economica”: mentre le prestazioni di assistenza sociale vere e proprie si “fonda essenzialmente sul solo stato di bisogno”, il reddito di cittadinanza prevede “un sistema di rigorosi obblighi e condizionalità”, che strutturano un percorso formativo e d’inclusione, “il cui mancato rispetto determina, in varie forme, l’espulsione dal percorso medesimo” (sentenza n. 126 del 2021 e, in termini simili, sentenza n. 122 del 2020).
In forza di questa premessa, è stato quindi ribadito che il reddito di cittadinanza, pur presentando anche tratti propri di una misura di contrasto alla povertà, non si risolve in una provvidenza assistenziale diretta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale. A tale sua prevalente connotazione si collegano coerentemente la temporaneità della prestazione e il suo carattere condizionale, cioè la necessità che ad essa si accompagnino precisi impegni dei destinatari, definiti in Patti sottoscritti da tutti i componenti maggiorenni del nucleo familiar (salve le esclusioni di cui all’art. 4, commi 2 e 3, del d.l. n. 4 del 2019).
4.2. In definitiva, quindi, “gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà”.
4.3. Muovendo da queste premesse e richiamando la propria sentenza n. 19 del 2022, la Corte costituzionale ha precisato che “gli obiettivi del Rdc implicano «una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato. In questa prospettiva di lungo o medio termine del reddito di cittadinanza, la titolarità del diritto di sog giornare stabilmente in Italia non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, “non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza”.
4.4. La Corte ha quindi precisato che, “non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile”, né irragionevole; invero, “un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata.”
4.5. Tutto ciò riportato, la Corte ha, tuttavia, precisato che “il periodo di residenza decennale istituisce una barriera temporale all’accesso al R.d.c. che tra-
scende del tutto la ragionevole correlazione con le finalità di quest’ultimo.” In particolare, si è osservato che, a differenza di altre misure – come l’assegno sociale – correlate allo “stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Re pubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo” (sentenza n. 50 del 2019 e ordinanza n. 29 del 2024), il progetto di inclusione previsto dal reddito di cittadinanza non guarda, come invece le suddette misure, al concorso realizzato nel passato, ma alle chances dell’integrazione futura, mirando alla prospettiva dello stabile inserimento lavorativo e sociale della persona coinvolta.
4.6. In quest’ottica, “il gravoso termine del pregresso periodo decennale non appare ragionevolmente correlato alla funzionalità precipua del R.d.c. e si pone in violazione dei principi di eguaglianza, di ragionevolezza e proporzionalità di cui all’art. 3 Cost.”. Secondo la Corte, infatti, questi principi si oppongono alla discri minazione, anche indiretta (come di recente ribadito con la sentenza n. 25 del 2025), “prodotta da una barriera temporale, effetto del requisito censurato, che, sebbene applicato a ogni richiedente, appare artificialmente finalizzata al solo tentativo di limitare l’accesso alla prestazione, favorendo i cittadini italiani già re denti (più facilitati – come peraltro dimostrano i dati segnalati dal giudice rimettente – a integrare tale requisito), a scapito sia di quelli di altri Stati membri dell nione, sia di quelli di Paesi terzi”.
4.7. La Corte ha osservato, inoltre, che proprio il termine decennale è stato la causa dell’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea nei confronti dell’Italia sia per la discriminazione indiretta, sia per la d scriminazione a danno degli stessi italiani, a cui il requisito poteva, in effetti, precludere la possibilità di trasferirsi a lavorare fuori dal Paese.
Tale procedura è stata chiusa solo a seguito dell’abrogazione del reddito di cittadinanza a decorrere dal 10 gennaio 2024 e alla sua sostituzione con l’assegno di inclusione, dove il termine di residenza pregressa è stato ridotto a cinque anni, non più oggetto di contestazione a livello della Commissione europea.
4.8. Alla luce di tutte queste considerazioni e nell’ottica di allontanarsi il meno possibile dal bilanciamento che, nella sua discrezionalità, è stato dunque operato dal legislatore, la ragionevole correlazione con la misura del reddito di cittadinanza appare ricomponibile, a giudizio della Corte costituzionale, proprio in riferimento a quest’ultimo termine di cinque anni.
Tale dato temporale, infatti, non solo è quello poi assunto dal legislatore nazionale all’interno dell’assegno di inclusione, “erede” del reddito di cittadinanza, ma è anche quello giudicato non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la “relativa stabilità della presenza sul territorio”; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche
quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che testimoni il “radicamento del richiedente nel paese in questione”.
4.9. Ne deriva, ad avviso della Corte, che “il termine di cinque anni si presenta, quindi, come una grandezza predata idonea a costituire un punto di riferimento presente nell’ordinamento (ex multis, sentenze n. 128, n. 90 e n. 6 del 2024 e n. 95 del 2022) utilizzabile al fine di ricomporre la ragionevole correlazione con il requisito di radicamento territoriale”.
4.10. Infine, la Corte costituzionale ha evidenziato che, in questi termini, si “ricompone armonicamente” anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stat membri, sia di Paesi terzi, viene espunto con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinament dell’Unione europea.
In tal modo, si evita, oltretutto, l’insorgere di una “discriminazione alla rovescia” altrimenti effettivamente prospettabile, in relazione ai cittadini dell’Unione europea, che rimanevano ancora soggetti al termine decennale.
Infatti, come la stessa Corte costituzionale ha rilevato nella sentenza n. 1 del 2025, la “pronuncia di incostituzionalità, nel caducare un requisito che ha valenza AVV_NOTAIO, consente di porre rimedio alle incongruenze di una disciplina che per tutti, cittadini e stranieri, prescrive il requisito della residenza decennale. Si scongiura così il rischio delle “discriminazioni a rovescio”, che una disapplicazione, circoscritta ai soggiornanti di lungo periodo tutelati dalla direttiva 2003/109/CE, non mancherebbe di generare a danno degli altri beneficiari delle provvidenze”.
4.11. In forza delle considerazioni qui richiamate, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera a), numero 2), del decretolegge 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella legge 28 marzo 2019, n. 26, nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia «per almeno 10 anni», anziché prevedere «per almeno 5 anni».
Orbene, non vi è dubbio che la sentenza della Corte costituzionale, che ridonda, riducendone la portata applicativa, sulla fattispecie incriminatrice in esame, deve trovare applicazione nel caso in esame.
Come emerge dallo stesso capo di imputazione, è pacifico che il ricorrente il ricorrente era arrivato in Italia il 16 aprile 2015 e che presentò la domanda volta ad ottenere il reddito di cittadinanza, avvenuto il 3 dicembre 2020.
Nondimeno, ai fini della sussistenza, o meno del reato, occorre accertare se, in quel periodo, il ricorrente sia stato effettivamente residente in Italia, accerta mento che, evidentemente, dovrà essere compiuto dalla Corte di merito.
Ne segue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo, affinché accerti se il ricorrente, al momento di presentazione della domanda finalizzata ad ottenere il beneficio qui al vaglio, fosse o meno residente in Italia da almeno cinque anni.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Palermo. Così deciso il 08/10/2025.