Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 44026 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 44026 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 08/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a Monteroni di Lecce il 21/01/1962;
avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma del 30/05/2024;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la ordinanza in epigrafe il Tribunale di sorveglianza di Roma ha respinto il reclamo di NOME COGNOME avverso il decreto ministeriale in data 24 ottobre 2023 di proroga, nei suoi confronti, del regime detentivo differenziato ex art. 41-bis Ord. pen. per la durata di anni due.
Avverso la predetta ordinanza il detenuto (che sta espiando la pena dell’ergastolo), per mezzo dell’avv. NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi, di seguito riprodotti nei limiti di cui all’art. 17 disp. att. cod. proc. pen., insistendo per l’annullamento del provvedimento impugnato.
2.1. Con il primo motivo lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la erronea applicazione dell’art. 41-bis, commi 2 e 2-bis, Ord. pen. ed il relativo vizio di motivazione manifestamente illogica rispetto alla mancanza dei necessari connotati di attualità ed individualizzazione degli elementi di fatto valorizzati e la omessa valorizzazione e considerazione degli indici normativi, in base ai quali verificare la capacità del ricorrente di mantenere contatti con il sodalizio criminale di riferimento.
2.2. Con il secondo egli deduce, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la erronea applicazione degli artt. 25, comma e, e 27 Cost., 3 e 8 CEDU, 2 cod. pen., 4-bis e 41-bis Ord. pen. ed il relativo vizio di motivazione rispetto al principio di irretroattività della legge penale in considerazione della avvenuta espiazione dei reati c.d. ‘ostativi’ e dell’effettiva incidenza sul relativo trattamento sanzionatorio delle disposizioni normative introdotte successivamente alla commissione dei reati per i quali NOME COGNOME è detenuto in espiazione della pena.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.11 ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
Invero, l’art. 41-bis Ord. pen. disciplina, nei commi 2 e seguenti, l’adozione del provvedimento ministeriale di sospensione temporanea, totale o parziale, per ragioni gravi di ordine e sicurezza pubblica, delle ordinarie regole del trattamento penitenziario, nei confronti dei soggetti condannati o imputati per taluno dei gravi reati ivi menzionati. Dette disposizioni richiedono, a tal fine, il riscontro «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva». Si esige, al riguardo, secondo la costante
giurisprudenza di legittimità (Sez. 1 n. 18434 del 23/04/2021, COGNOME, Rv. 282361; Sez. 1, n. 4857 del 10/03/2016, Giuliano, Rv. 267248; Sez. 1, n. 22721 del 26/03/2013, COGNOME, Rv. 256495; Sez. 1, n. 46013 del 29/10/2004, COGNOME, Rv. 230136), non già un giudizio di certezza secondo i parametri dell’accertamento probatorio ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, ma la formulazione di una ragionevole previsione sulla scorta dei dati conoscitivi acquisiti, fra cui assumono primaria rilevanza, sempre in chiave di valutazione prognostica, quelli desumibili dai fatti di cui alle condanne già intervenute o ai procedimenti ancora in corso. E, in tale ambito, è appropriato apprezzare in via deduttiva, nell’ottica della verifica del citato collegamento con la criminalità organizzata, elementi come quelli costituiti dal ruolo assunto dal soggetto in quel genere di fenomeni criminali, dall’ampiezza delle relazioni che ne sono conseguite e dalle loro particolari modalità, con precipuo riferimento alla plausibile stabilità del legame a fronte di un’organizzazione malavitosa che appaia ancora presente (in tale senso, Sez. 1, n. 305 del 06/02/2015, COGNOME, Rv. 263508).
2.1. Si tratta di un accertamento prognostico del tutto particolare, poiché gli obiettivi perseguiti in ambito preventivo non attengono propriamente al pericolo di reiterazione delle medesime condotte delittuose, ma si fermano a un più anticipato momento di tutela, quello in cui ci si propone di prevenire, tramite le funzionali prescrizioni del regime detentivo speciale, già il solo collegamento con il contesto di criminalità organizzata nel quale sono maturati i fatti di grave allarme, ragionevolmente riferiti ai delitti citati dall’art. 41-bis (Sez. 1, n. 44149 del 19/04/2016, COGNOME, Rv. 268294; Sez. 5, n. 40673 del 30/05/2012, COGNOME, Rv. 253713).
2.2. Il medesimo art. 41-bis autorizza le proroghe del regime penitenziario differenziato, per periodi volta per volta pari a due anni. Ai fini della proroga, ci che va apprezzato non è tanto il concreto realizzarsi di momenti di collegamento esterno con il contesto di criminalità organizzata, in ragione dell’elusione delle particolari disposizioni già predisposte per impedirli, quanto più propriamente il bisogno di mantenere vigenti le prescrizioni limitative, a seguito del riscontro non necessariamente in considerazione di elementi sopraggiunti – della permanenza di quelle apprezzabili condizioni di pericolo che avevano giustificato originariamente il regime speciale (Sez. 1, n. 41731 del 15/11/2005, Stranieri, Rv. 232892-01; Sez. 1, n. 40220 del 20/10/2005, Parlante, Rv. 232466-01; Sez. 1, n. 36302 del 21/09/2005, COGNOME, Rv. 232114-01).
In proposito, il comma 2-bis della citata disposizione normativa indica la verifica della «capacità» di mantenere i collegamenti a suo tempo riscontrati, «anche» tenendo conto di alcuni parametri elencati, in termini non (necessariamente) cumulativi, né esaustivi: il profilo criminale, la posizione
rivestita all’interno dell’associazione, la perdurante operatività della stessa, la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, gli esiti del trattamento penitenziario, il tenore di vita dei familiari del sottoposto; sotto altr profilo, si sottolinea che il mero decorso del tempo non costituisce elemento sufficiente a escludere la «capacità» di cui sopra (Sez. 1, n. 20986 del 23/06/2020, COGNOME, Rv. 279221; Sez. 1, n. 32337 del 03/07/2019, COGNOME, Rv. 276720; Sez. 1, n. 2660 del 09/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274912).
Quello richiesto è quindi un ponderato apprezzamento di merito, in ordine agli elementi che, di volta in volta, richiedono attenzione nel caso concreto, giacché in grado di incidere in senso positivo o negativo ai fini della verifica del presupposto di cui trattasi in termini di attualità (Sez. 5, n. 40673 del 30/05/2012, COGNOME, Rv. 253713); apprezzamento che, se accompagnato da una motivazione non apparente, in grado cioè di rappresentarne effettivamente l’esistenza e l’esito, rimane sottratto a censure in sede di legittimità, essendo il sindacato, in materia, circoscritto al profilo della violazione di legge (Sez. 1, n. 48494 del 9/11/2004, COGNOME, Rv. 230303; Sez. 1, n. 5338 del 14/11/2003, COGNOME, Rv. 226628); con l’ulteriore corollario che «non costituisce violazione di legge, unico vizio legittimante il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di applicazione o di proroga del regime previsto dall’art. 41-bis della legge n. 354 del 1975, l’omessa enunciazione delle ragioni per le quali il Tribunale di sorveglianza non abbia ritenuto rilevanti gli argomenti e la documentazione prodotta dalla difesa, ove i dati assunti a fondamento della decisione siano sufficienti a sostenerla e non risultino intrinsecamente apparenti o fittizi» (Sez. 1, n. 37351 del 06/05/2014, Trigila, Rv. 260805).
3. Tanto premesso, ritiene il Collegio che l’ordinanza impugnata non si sia discostata da tali principi e criteri e non abbia trascurato – diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente – il ragionato apprezzamento dei presupposti di legge, rilevanti ai fini del giudizio da rendere, correttamente individuati. La motivazione adottata, per nulla apparente, nel dare contezza delle ragioni della decisione ha anche attraverso il richiamo al dettagliato contenuto delle note della Direzione nazionale antimafia, della Direzione distrettuale antimafia di Lecce e del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri – illustrato la posizione apicale assunta dal l’odierno ricorrente (unitamente al fratello NOME) nell’omonimo clan mafioso facente parte della Sacra Corona Unita, secondo quanto già giudizialmente accertato. Ha, poi, evidenziato come il clan medesimo risulta, in conformità a specifici elementi citati nelle indicate note e richiamati in sede di proroga, ancora attivo e operativo nell’ambito territoriale di riferimento (versante occidentale della provincia di Lecce), soprattutto nel settore delle estorsioni e dell’usura. Si è, in
proposito, fatto espresso riferimento alle recenti operazioni giudiziarie che hanno attinto soggetti affiliati al sodalizio che, pertanto, non può ritenersi in alcun modo disarticolato. Ha rimarcato il persistente interesse dell’odierno ricorrente rispetto alle attività del clan, come emerso nel corso dei suoi colloqui in carcere con la moglie ed il figlio e l’avvenuto trattenimento di corrispondenza in ragione del contenuto equivoco della stessa, circostanze che rafforzano l’evidenziato quadro di pericolosità.
Inoltre, il Tribunale di sorveglianza ha fatto riferimento alla relazione del carcere di Novara che dava atto della attuale regolarità della condotta, senza che però siano emersi elementi sintomatici di dissociazione e di acquisizione di valori di legalità; con riferimento alla missiva inviata da NOME COGNOME al Tribunale di sorveglianza di Roma, l’ordinanza impugnata ha osservato che essa non può valere come prova della dissociazione del detenuto avendo egli solo riferito che le recenti operazioni di polizia non lo avevano interessato e che il clan di riferimento non esiste più, senza però prendere alcuna posizione di contrasto rispetto al medesimo sodalizio criminale.
Tale motivazione non è scalfita dalle censure genericamente confutative, e controvalutative, in altre parole incidenti su circostanze non decisive, indicate nel ricorso.
In conclusione, il Tribunale di sorveglianza ha compiutamente verificato, sulla base delle circostanze di fatto indicate nel provvedimento, la capacità dell’odierno ricorrente di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata (tenuto conto di tutti gli elementi sopra richiamati) e la sua conseguente pericolosità sociale e il collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle connesse esigenze di ordine e sicurezza pubblica.
Il secondo motivo deve essere respinto in quanto infondato, come già osservato da questa Corte con la precedente sentenza n. 36706/2021 con la quale era stato respinto analogo ricorso di NOME COGNOME ed alla quale questo Collegio aderisce.
4.1. Invero, la giurisprudenza di legittimità ha a lungo ritenuto pacifica l’applicabilità di modifiche normative di segno peggiorativo attinenti al trattamento penitenziario anche ai condannati che abbiano commesso il reato prima dell’entrata in vigore delle modifiche stesse sul presupposto della non riconducibilità all’alveo dell’art. 25, secondo comma, Cost. delle norme sull’esecuzione della pena. Presupposto di tale opzione ermeneutica era che le disposizioni concernenti l’esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena,
ma soltanto le modalità esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto (in assenza di una specifica disciplina transitoria), soggiacciono al principio “tempus regit actum”, e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall’art. 2 cod. pen., e dall’art. 25 della Costituzione. (Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, P.M. in proc. A,. Rv. 233976).
Rispetto all’applicazione del regime speciale di cui all’art. 41-bis Ord. pen., in adesione a tale principio è stato affermato che la disciplina relativa alle modalità del trattamento penitenziario dei condannati per delitti di mafia, si applica anche quando il fatto oggetto di condanna sia stato commesso prima dell’introduzione nel codice penale del reato di associazione di tipo mafioso ad opera della legge 13 settembre 1982, n. 646, ove l’illecito sia inquadrabile in un contesto di criminalità mafiosa per metodo e finalità, poiché tale regime normativo non riguarda l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma solo l’esecuzione di quest’ultima (Sez. 1, n. 45137 del 20/06/2014, Greco, Rv. 261130). Analogamente è stato ritenuto legittimamente disposto il regime detentivo differenziato per l’espiazione di pena inflitta in relazione a un omicidio commesso prima dell’introduzione della circostanza aggravante prevista dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203 (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo), sul rilievo che il catalogo dei reati, in relazione alla condanna per i quali è applicabile il regime di detenzione differenziato di cui all’art. 41-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 non va individuato in maniera formale e non postula, pertanto, l’avvenuta formale contestazione in sede cognitiva , ma deve essere identificato in modo sostanziale, con riferimento alla natura e alle finalità dell’illecito, nonché a contesto in cui lo stesso fu commesso. (Sez. 1, n. 50922 del 27/11/2013, Papa, Rv. 258755; Sez. 1, n. 374 del 23/11/2004, COGNOME, Rv. 230539). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
4.2. Con la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020, che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della legge 9 gennaio 2019, n. 3, è prevalsa una lettura della portata dell’indicato divieto di retroattività di cui art.25, comma 2, Cost. che impone di distinguere tra la normativa sopravvenuta che incide soltanto sulle modalità esecutive della pena, previste dalla legge al momento del reato, e quella che opera una vera «trasformazione» della pena con effetti non marginali sulla libertà personale del condannato.
Orbene, nella prima ipotesi opera «la regola generale» secondo la quale le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato. Essa è, infatti, fondata, come si legge nella motivazione della sentenza n. 32 del 2020, «su ragioni assai solide». Non solo risponde alla «necessità di fisiologici assestamenti della
disciplina normativa» legati ai mutamenti cui va inevitabilmente incontro il contesto, fattuale .e normativo, nel quale l’amministrazione penitenziaria si trova a operare nel campo dell’esecuzione delle pene detentive «che è un fenomeno che si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole distanza dal fatto di reato», ma consente di tener adeguatamente conto dei «complessi bilanciamenti tra delicati interessi» tipici delle regole trattamentali.
Nella seconda ipotesi, invece, non v’è spazio per derogare ai principi sottesi all’art. 25, secondo comma, Cost. Infatti, «Il diverso statuto, delineatosi per effetto della successione normativa, … se non applicato ai soli fatti di reato posteriori, determinerebbe un trattamento che sostanzialmente si risolve in un aliud rispetto a quello legalmente stabilito al momento della violazione, con frustrazione delle garanzie che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano la pena prevista per il reato».
Per decidere se la sopravvenuta disciplina relativa all’esecuzione della pena o delle misure alternative alla detenzione sia assoggettabile al divieto di applicazione retroattiva o ne costituisca una ragionevole eccezione va operata una valutazione «in chiave di prognosi, comparando, nella frazione del tempus commissi delicti, la pena che era ragionevole attendersi in base alla legislazione vigente e quella che potrebbe derivare per effetto del mutato quadro normativo».
4.3. Sostiene la difesa ricorrente che la proroga del regime speciale di cui all’art. 41-bis Ord. pen. nei confronti dei condannati che hanno in esecuzione la porzione di pena inflitta per fatti commessi prima della sua entrata in vigore costituisce una violazione del divieto di applicazione retroattiva della disciplina relativa all’esecuzione della pena e che, di conseguenza, la disposizione di cui all’art. 41-bis, comma 2 ultima parte, Ord. pen. a mente della quale «in caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare» il regime speciale è comunque applicabile «anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis.» debba essere interpretata restrittivamente in modo da evitare tale effetto.
Tale tesi è infondata; infatti, l’art. 41-bis, comma 2 ultima parte, Ord. pen, prevede che, una volta intervenuto il provvedimento di unificazione delle pene in fase esecutiva, la pena inflitta al detenuto sia considerata, ai fini del regime speciale, “unica”, a prescindere se inflitta per reati ostativi o per reati che tal natura non hanno. In applicazione di tale disciplina, il regime differenziato può essere disposto o prorogato anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati dall’art 4-bis della medesima legge (Sez. 1, n. 18790 del 06/02/2015, COGNOME, Rv. 263555; Sez. 5, n. 44007 del 15/10/2009, COGNOME, Rv. 245097).
La soluzione legislativa non si pone in contrasto con i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 32 del 2020. La Consulta ha chiarito che il divieto di applicazione retroattiva delle modifiche normative concernenti le modalità esecutive della pena, non «costituisce la regola» sicché il legislatore, può legittimamente introdurre delle deroghe, specie se fondate sulla tutela beni di rilevanza costituzionale con esso confliggenti. Va, infatti, evitato «un rigido e generale divieto di applicazione retroattiva di qualsiasi modifica della disciplina relativa all’esecuzione della pena» alla «incontrollata creazione e proliferazione di regimi esecutivi paralleli» e, soprattutto, all’«introduzione di trattamenti penitenziari diversi tra detenuti … con tutte le intuibili conseguenze sul piano del mantenimento dell’ordine all’interno degli istituti, che è esso pure condizione essenziale per un efficace dispiegarsi della funzione rieducativa della pena». Il legislatore, attraverso la regola fissata dall’art. 41-bis, comma 2 ultima parte, Ord. pen, ha perseguito un fine perfettamente compatibile con la ratio sottesa al principio della tendenziale applicazione retroattiva della normativa sopravvenuta modificativa delle modalità esecutive della pena detentiva come declinata dalla Corte costituzionale. Ha, infatti, inteso evitare che il trattamento penitenziario dei detenuti sottoposti al regime speciale, dei quali, sia pure in relazione alla pena inflitta per i reati ostativi, è stata accertata l’elevata ed attuale pericolosità quanto in grado di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata ove sottoposti al regime ordinario, improvvisamente muti nel corso dell’esecuzione unitaria e senza soluzione di continuità, irrimediabilmente frustando le esigenze preventive rimaste, invece, immutate. In caso contrario, si creerebbe un irragionevole trattamento differenziato tra detenuti nella identica situazione perché parimenti condannati per reati ostativi e parimenti pericolosi.
4.4. Né la regola della pena unica ai fini del regime speciale viola l’unico limite invalicabile al divieto di irretroattività che concerne «le modifiche normative in grado di determinare una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato», situazione che si verifica, per esempio, quando al momento del fatto sia prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere» e, per effetto di una modifica normativa sopravvenuta, la sua esecuzione debba avvenire di norma “dentro” il carcere. In siffatta ipotesi per ripetere le parole della Corte costituzionale «tra i “fuori” e il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa». Tra il regime penitenziario ordinario ed il regime ex 41-bis Ord. pen. non si ravvisa una differenza di tale consistenza in ragione delle caratteristiche di quest’ultimo, che, alla stregua della disciplina normativa attualmente in vigore e degli interventi correttivi della Corte costituzionale, determina una sospensione delle regole del trattamento comuni agli altri detenuti solo temporanea, persegue fr
finalità di prevenzione dei reati indipendentemente dalla espiazione della pena e non impedisce al detenuto né di continuare ad usufruire dei benefici penitenziari, sia pure con limiti più rigorosi, né di partecipare al percorso rieducativo che non viene interrotto,’ ma anzi agevolato dalla la rescissione dei “collegamenti” con l’organizzazione di appartenenza.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, 1’8 novembre 2024.