Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 1545 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 1545 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 19/09/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a LOCRI il 29/12/1983
avverso l’ordinanza del 12/01/2023 del TRIB. SORVEGLIANZA di ROMA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del PG NOME COGNOME che ha chiesto il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Sorveglianza di Roma respingeva il reclamo proposto da NOME COGNOME avverso il provvedimento ministeriale di proroga del regime differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. Pen.
Nel valutare la sussistenza dei presupposti di legge, riferiti alla proroga ed in particolare alla capacità di COGNOME di mantenere, ove ammesso al regime carcerario ordinario, i collegamenti con l’organizzazione criminale, il Tribunale, valorizzando, in risposta alle doglianze difensive, quanto accertato nelle sentenze in esecuzione e nelle informative trasmesse dagli organi investigativi, poneva in evidenza:
il ruolo di primaria importanza rivestito in seno alla omonima cosca di ‘ndrangheta, alleata alla cosca COGNOME e storicamente contrapposta alla cosca COGNOME–COGNOME;
la condanna per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e per reati di omicidio, tentato e consumato, aggravati dall’art. 7 I. n. 203/91, comprovanti tale stabile posizione (commessi in San Luca nella c.d. “strage di Natale” del 2006);
la rilevanza della componente familiare nel contesto associativo in ragione degli stretti legami con i cugini NOME e NOME COGNOME condannati per il reato di cui all’art. 74 d.P.R. n. 309/90;
l’effettuazione di colloqui in carcere con i familiari in stretto dialet calabrese per eludere i controlli;
l’attuale vitalità della compagine associativa di appartenenza, dimostrata sia dalle numerose e recenti operazioni di polizia giudiziaria, che avevano interessato i familiari più stretti pienamente inseriti nel sodalizio (con particola riguardo alla citata condanna di NOME e NOME COGNOME inflitta con la sentenza emessa dalla Corte di appello di Reggio Calabria in data 7 novembre 2022, per il reato di associazione per delinquere dedita al narcotraffico), sia dalla presenza, sul territorio, di una efficace rete di supporto alla latitanza di esponenti di primo piano del clan.
Ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME per il tramite del difensore di fiducia avv. NOME COGNOMEl’unico che ha firmato digitalmente l’impugnazione, nonostante l’atto rechi in premessa anche l’indicazione dell’avv. NOME COGNOME, deducendo, con il primo motivo, violazione di legge in relazione all’art. 41-bis Ord. pen.’ e, con il secondo motivo, “censura di costituzionalità, con riferimento alle decisioni della Corte delle leggi n. 263 de 2019, n. 97 del 2021 e della Corte EDU del 13.6.2019” per non avere
considerato il provvedimento impugnato “l’incidenza di elementi di valutazione diversi e alternativi ad una condotta di collaborazione”.
Quanto al primo profilo, assume il difensore del ricorrente che il Tribunale di Sorveglianza, nel ritenere la “perdurante pericolosità” del COGNOME, avrebbe omesso di considerare: a) che il detenuto aveva riportato una sola condanna per fatti commessi quando aveva 23 anni e frequentava la facoltà di farmacia all’Università di Messina; b) che la vicenda delittuosa fu connotata da una particolare derivazione ambientale, riconducibile a un violento contrasto tra famiglie locali, senza alcuna implicazione di finalità di profitto; c) che i coimputa del relativo procedimento non erano stati sottoposti, come COGNOME, al regime differenziato; d) che la relazione di sintesi e i provvedimenti del Magistrato di sorveglianza di Novara avevano evidenziato gli esiti positivi del trattamento penitenziario (piena disponibilità alle offerte di trattamento; inesistenza di sanzioni disciplinari; completamento degli studi universitari).
Quanto al secondo motivo, si censura il provvedimento impugnato per non aver tenuto conto delle sentenze n. 253/19 e n. 97/2021 della Corte costituzionale e 13 giugno 2019 della Corte EDU, che avrebbero indicato “l’esistenza di elementi diversi e alternativi alla condotta di collaborazione, soprattutto ricavabili dai risultati del trattamento in carcere e dalla osservazione dei progressi nel percorso di recupero”.
Né il Tribunale avrebbe tenuto conto della I. 30 dicembre 2022, n. 199, di conversione del dl. 30 ottobre 2022, n. 162, che aveva introdotto “elementi nuovi di valutazione in termini di giustizia riparativa, da apprezzare in equivalenza a condotte di collaborazione con la giustizia”; modifiche normative, tuttavia, non sufficienti, ad avviso della difesa del ricorrente, ad “evitare un nuova censura di costituzionalità delle norme di riferimento”.
Il Procuratore generale presso questa Corte, nella sua requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.
In data 18 luglio 2023 è stata depositata telematicamente memoria difensiva, in cui vengono, nella sostanza, riproposti i temi sviluppati in ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per le ragioni che seguono.
Giova premettere che, ai fini dell’adozione del provvedimento di applicazione del regime che, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, Ord. pen., comporta la sospensione, in tutto o in parte, delle ordinarie regole del trattamento penitenziario nei confronti dei soggetti condannati o imputati per gravi reati espressamente individuati, occorrono «elementi tali da far ritènere la
sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva». Non si esige sul punto un giudizio di certezza secondo i parametri dell’accertamento probatorio ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, ma la formulazione di una ragionevole previsione sulla scorta dei dati conoscitivi acquisiti, fra cui assumono primaria rilevanza quelli desumibili dai fatti di cui all condanne già intervenute o ai procedimenti ancora in corso (fra le altre, Sez. 1, n. 18434 del 23/4/2021, COGNOME, Rv. 281361; Sez. 7, n. 19290 del 10/3/2016, Giuliano, Rv. 267248).
Si tratta, quindi, di un accertamento prognostico diverso da quello finalizzato a verificare il pericolo di reiterazione delle medesime condotte delittuose perché, in un’ottica di tutela più anticipata, ha l’obiettivo di prevenir tramite le funzionali prescrizioni del regime detentivo speciale, già il solo collegamento operativo con il contesto di criminalità organizzata nel quale sono maturati i fatti di grave allarme sociale posti a fondamento della detenzione.
Ai fini della proroga del regime differenziato di cui trattasi, va, invece, apprezzato non tanto il concreto realizzarsi di momenti di collegamento esterno con il contesto di criminalità organizzata in ragione dell’elusione delle particolari disposizioni già predisposte per impedirli, quanto, più propriamente, la necessità di rendere ancora vigenti tali disposizioni, riscontrandosi – non necessariamente in considerazione di elementi sopraggiunti – la permanenza di quelle apprezzabili condizioni di pericolo che avevano giustificato originariamente il regime speciale (Sez. 1, n. 24134 del 10/5/2019, COGNOME, Rv. 276483; Sez.1, n. 2660 del 9/10/2018, dep. 2019, COGNOME Rv. 274912; Sez. 1, n. 41731 del 15/11/2005, Stranieri, Rv. 232892; Sez. 1, n. 36302 del 21/9/2005, COGNOME, Rv. 232114). Va, infatti, verificata, a mente! dell’art. 41-bis, comma 2, cit., la «capacità» di mantenere quei collegamenti a suo tempo riscontrati, «anche» tenendo conto di alcuni parametri elencati, in termini non e saustivi: il profilo criminale, la posizione rivestita all’interno dell’associazione, la perdurante operatività della stessa, la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, gli esiti del trattamento penitenziario, il tenore di vita dei familiari del sottoposto. Mentre si sottolinea che il mero decorso del tempo non costituisce da solo elemento sufficiente a escludere la «capacità» di cui sopra.
Il perimetro e le modalità del controllo giurisdizionale sui provvedimenti ministeriali previsti dalla disposizione in commento, circoscritto nel testo attuale del comma 2-sexies alla verifica della “sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento” sono stati precisati da numerosi interventi della Corte costituzionale.
4.1. Con riferimento ai provvedimenti di applicazione del regime differenziato, il Giudice delle leggi ha affermato la loro piena sindacabilità, ad opera del giudice ordinario, e precisamente del Tribunale dF sorveglianza adito col reclamo di cui all’art. 14-ter Ord pen., sia sotto il profilo dell’esistenza dei presupposti per tale applicazione e della congruità della relativa motivazione, sia sotto il profilo del rispetto – nel contenuto delle misure restrittive disposte – d limiti del potere ministeriale: tanto di quelli “esterni”, collegati cioè al divie incidere sul residuo di libertà personale spettante al detenuto, e dunque pure sugli aspetti dell’esecuzione che toccano, anche indirettamente, la qualità o la quantità della pena detentiva da scontare o i presupposti per l’applicazione delle misure così dette extramurali, quanto di quelli “interni”, discendenti dal necessario collegamento funzionale fra le restrizioni concretamente disposte e le finalità di tutela dell’ordine e della sicurezza cui devono essere rivolti provvedimenti applicativi del regime differenziato, noncié dal divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e dall’obbligo di non vanificare la finalità rieducativa della pena (sentenza Corte cost. n. 376 del 1997 che, espressamente richiama le precedenti pronunce n. 349 del 1993 e n. 351 del 1996; e più, di recente, n. 186 del 2018 e n. 97 del 2020).
4.2. Con riguardo ai provvedimenti di proroga del regime differenziato, la Corte costituzionale è pervenuta a conclusioni dello stesso tenore, esplicitamente avallando la giurisprudenza di legittimità formatasi dopo le modifiche apportate all’art. 41-bis Ord. pen dalla legge n. 279 del 2002 e dalla legge n. 94 del 2009. Essa, dapprima, nell’esaminare le conseguenze dell’introduzione al comma 2-bis cit. dell’inciso «purché non risulti che la capacità del detenuto o dell’internato d mantenere contatti con associazioni criminali’ terroristiche o eversive sia venuta meno» (oggi soppresso), ha escluso che nella verifica dei presupposti possa operarsi una inversione dell’onere della prova (nello stesse senso Sez. 1, n. 15283 del 30/3/2006, COGNOME Rv. 234844; Sez. 1, n. 41316 del 23/9/2009, COGNOME, Rv. 245048), ribadendo che il provvedimento di proroga deve contenere un’adeguata motivazione sugli specifici ed autonomi elementi da cui risulti la persistente capacità del condannato di tenere contatti con le organizzazioni criminali (nello stesso senso, ex plurimis, Sez. 1, n. 48396 del 6/10/2011, Lucchese, Rv. 251583) e che, conseguentemente, «in sede di controllo giurisdizionale spetterà al giudice verificare in concreto – anche alla luce delle circostanze eventualmente allegate dal detenuto – se gli elementi posti dall’amministrazione a fondamento del provvedimento di proroga siano sufficienti a dimostrare la permanenza delle eccezionali ragioni di ordine e sicurezza che, sole, legittimano l’adozione del regime speciale» (sentenza n. 417 del 2004). Successivamente, nel considerare infondata la censura relativa all’asserita
cancellazione di ogni controllo di legalità, da parte del Tribunale di sorveglianza, sui contenuti del provvedimento ministeriale applicativo delle prescrizioni dettate dall’art. 41-bis, comma 2-quater, della legge n. 354 del 1975, nel testo modificato dalla legge n. 94 del 2009, con conseguente violazione degli artt. 13, secondo comma, 24, primo comma, e 113, primo e secondo comma, ha precisato, sulla base di ricostruzione sistematica delle norme dell’ordinamento penitenziario, che le proroghe – a prescindere dalla soppressione, nella disciplina del reclamo di cui al comma 2-sexies cit. contro il decreto applicativo del regime speciale, del riferimento al controllo sulla congruità di contenuto del provvedimento rispetto alle esigenze di sicurezza – al pari di tutti i provvedimenti adottati nei confronti dei detenuti lesivi di posizioni giuridiche che, per la lo stretta inerenza alla persona umana, sono qualificabili come diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, continuano ad essere reclamabili con lo strumento generale previsto dall’art. 14-ter Ord. pen. davanti al giudice dei diritti e cioè al giudice ordinario ai sensi dell’art. 24 della Costituzione (C. Cost., sentenza n. 190 del 2010). Il sindacato giurisdizionale attivato dai detenuti attraverso tale rimedio, proprio perché funzionale alla tutela di diritti soggettivi, si estende «non solo alla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento, ma anche al rispetto dei limiti posti dalla legge e dalla Costituzione in ordine al contenuto d questo», con la conseguenza che «eventuali misure illegittime, lesive dei diritti del detenuto, dovranno perciò essere a questi fini disattese, secondo la regola generale per cui il giudice dei diritti applica i regolamenti e gli a dell’amministrazione solo in quanto legittimi» (C. Cost., sentenza n. 351 del 1996, richiamata dalla n. 190 del 2010 ).
4.3. Conclusivamente, il controllo da parte del Tribunale di sorveglianza, adito in sede di reclamo avverso i provvedimenti di proroga del regime differenziato, lungi dal costituire un sindacato di mera legittimità sulla congruità della motivazione, come tale limitato alla valutazione della correttezza, logica e giuridica, del provvedimento reclamato, è, invece, volto a verificare la sussistenza, nel caso concreto, dei presupposti normativi di cui all’art. 41-bis Ord. pen. mediante il ponderato apprezzamento dell’intero materiale probatorio raccolto: quindi, non solo degli elementi fattuali posti a fondamento del decreto ministeriale, ma anche di quelli, eventualmente allegati dal reclamante o comunque emersi dall’istruttoria, al fine di riscontrarne, con congrue e pertinenti argomentazioni critiche sulle contrapposte prospettazioni, la idoneità dimostrativa della capacità del soggetto sottoposto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, della sua pericolosità sociale e del collegamento funzionale tra prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di
sicurezza (Sez. 1, n. 18434 del 23/4/2021, cit.; Sez. 7, n. 19290 del 10/3/2016, cit.; Sez. 1, n. 22721 del 26/3/2013, Di Grazia, Rv. 256495).
Ed in ciò si apprezza la distinzione con i margini più limitati di intervento del sindacato del giudice di legittimità sulla decisione sul reclamo, circoscritto al solo vizio di violazione di legge da intendersi nel senso che il controllo ha per oggetto, oltre che l’inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, la mancanza di motivazione, con la precisazione che a tale vizio devono essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito per ritenere giustificata la proroga, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da fare rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (cfr. Sez. U, n. 25080 del 28/5/2003, COGNOME, Rv. 224611).
5. Alla luce dei richiamati parametri ermeneutici, deve osservarsi che il Tribunale di sorveglianza di Roma ha, invero, valutato correttamente gli elementi risultanti dagli atti, soffermandosi sulle circostanze già riportate nella esposizione in fatto (che qui si richiamano) e argomentando dalle stesse, con motivazione congrua, la sussistenza dei presupposti legittimanti la proroga del regime penitenziario differenziato.
Manifestamente infondata è la censura con cui si lamenta l’omessa considerazione dei progressi trattamentali dei detenuto, dal momento che di essi il Tribunale ha dato compiutamente atto (pag. 8), ma li ha, al contempo, giudicati recessivi con iter logico adeguato.
In realtà, il ricorso è strutturato, in primo luogo, secondo uno schema prettamente rivalutativo, in cui, da un lato, si enfatizzano le note favorevoli sul comportamento osservato dal COGNOME in carcere, dall’altro, si svilisce in modo assertivo la caratura criminale del detenuto (laddove si rileva che “è raggiunto da una sola condanna”, dimenticando di misurarsi con la valutazione della straordinaria gravità dei reati perpetrati nella c.d. “strage di Natale” del 2006, operata in modo congruo dal Tribunale in base al contenuto delle sentenze); in secondo luogo, l’atto d’impugnazione si rivela aspecifico laddove omette di confrontarsi con la valorizzazione, convenientemente effettuata dai giudici territoriali, della recente indagine su un ingente traffico di stupefacenti con il Sud America, di cui si è detto (sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria del 7 novembre 2022), coinvolgente elementi del clan di appartenenza vicini al COGNOME: dato processuale, quest’ultimo, che, fra l’altro, smentisce la prospettazione difensiva, secondo la quale il sodalizio di riferimento sarebbe
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stato costituito al solo fine di combattere il clan avverso COGNOME nel contesto della sanguinosa “faida di San Luca”, che si concluse con la c.d. “strage di Duisburg” del 2007 (con il conseguente scioglimento del sodalizio), perpetrata come ritorsione per la “strage di Natale” del 2006, che COGNOME “aveva personalmente organizzato” (pag. 7 dell’ordinanza impugnata, in cui il giudice a quo, proprio in base a tale ruolo cruciale, ha correttamente escluso che, come sostenuto dalla difesa, il ricorrente avesse agito “come mero esecutore di ordini impartiti da altri”).
Anche l’ulteriore elemento adeguatamente messo in luce dal Tribunale di sorveglianza a dimostrazione della persistente operatività del clan COGNOME, ossia l’esistenza, sul territorio, di una capillare ed efficace rete di supporto della latitanza di esponenti di primo piano del sodalizio (ad esempio, di NOME COGNOME, fratello di NOME, la cui latitanza durò dieci anni e di NOME COGNOME, capo storico del gruppo, arrestato a Lisbona il 29 marzo 2021), non viene specificamente attaccato nel ricorso, che, quindi, sul punto, pecca parimenti di aspecificità.
Generica è, ancora, la censura con cui si lamenta la disparità di trattamento che il ricorrente avrebbe subito rispetto ai coimputati sottoposti al procedimento “FEHIDA” (non assoggettati al regime differenziato), dei quali, tuttavia, non vengono messe in risalto le caratteristiche che avrebbero giustificato un trattamento analogo a quello riservato al VOTTARI.
Tra l’altro, rileva il Collegio che la prospettazione del ricorrente risulterebbe smentita dallo stesso contenuto del reclamo proposto davanti al Tribunale di sorveglianza, nella cui sintesi a pag. 4 del provvedimento impugnato si dà atto, seppure in modo non circostanziato, che “a molti dei correi il regime speciale era stato disapplicato poco tempo dopo la detenzione”, il che è, all’evidenza, cosa diversa dall’affermare che il regime differenziato non era stato mai applicato.
Manifestamente infondato, infine, è il secondo motivo di ricorso, poiché afferente a tematiche e istituti diversi dal regime oggetto di ricorso.
In ogni caso, come condivisibilmente osservato dal Procuratore generale nella sua requisitoria, anche la nuova normativa, introdotta, con riferimento all’art. 4-bis Ord. pen., dal d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito, con modificazioni, dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199, pur non ritenendo indispensabile l’attività di collaborazione con la giustizia per l’accesso ai benefic penitenziari da parte dei detenuti per delitti ostativi di c.d. “prima fascia”, h comunque, mantenuto fermo, per il giudice, l’obbligo di valutazione (oltre che del percorso rieducativo del condannato) dell’assenza di collegamenti, attuali o potenziali, con la criminalità organizzata e con il contesto mafioso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti: pericolo di ripristino che, nella specie
Tribunale di sorveglianza ha motivatamente ritenuto persistente quanto al COGNOME.
Per le esposte considerazioni, il ricorso va, in conclusione, dichiarato inammissibile, dal che consegue la condanna del proponente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma, ritenuta congrua, di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, non esulando profili di colpa nel ricorso (Corte Cost. n. 186 del 2000).
P. Q.114.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 19 settembre 2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente 7–