Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 32083 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 32083 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MARCIANISE il DATA_NASCITA avverso l’ordinanza del 11/01/2024 del TRIBUNALE di SORVEGLIANZA di ROMA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
letta la requisitoria a firma del AVV_NOTAIO generale NOME AVV_NOTAIO, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso;
letta la memoria a firma dell’AVV_NOTAIO, per il ricorrente, che ha chiesto di annullare l’ordinanza impugnata.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 16 giugno 2022, il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva respinto il reclamo proposto da NOME – sottoposto al regime
detentivo differenziato ex art. 41 bis, comma 2, legge n. 354 del 1975 – contro il decreto ministeriale del 13 agosto 2021 di proroga del regime speciale.
Avverso l’ordinanza, avevano proposto ricorso per cassazione i difensori del COGNOME, sostenendo che il Tribunale non avesse verificato la sussistenza dei presupposti di legge per la proroga del regime detentivo speciale e che, in ogni caso, il provvedimento fosse privo di motivazione in ordine alle censure mosse dalla difesa al decreto ministeriale.
Con sentenza pronunciata il 28 febbraio 2023, la Prima sezione penale di questa Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza impugnata, ritenendo che essa fosse viziata per una specifica carenza motivazionale, passibile di essere censurata come violazione di legge, attinente al profilo della «persistente vitalità» del clan RAGIONE_SOCIALE, che la difesa aveva contestato anche con allegazione di provvedimenti giurisdizionali, la cui valutazione risultava del tutto omessa.
All’originario procedimento (da proseguire in sede di rinvio) era stato poi riunito il procedimento iscritto a seguito del successivo reclamo di NOME NOME avverso il nuovo provvedimento di proroga, emesso con decreto ministeriale del 10 agosto 2023.
Con ordinanza dell’Il gennaio 2024, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha confermato il rigetto del reclamo avverso il decreto del 13 agosto 2021 e ha respinto anche il reclamo avverso il nuovo provvedimento di proroga, emesso con decreto ministeriale del 1° agosto 2023.
Avverso la “nuova” ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma, il NOME, a mezzo dei propri difensori, ha proposto ricorso per cassazione.
5.1. Con un unico motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 41 bis legge n. 354 del 1975.
5.1.1. Rappresenta che: con il reclamo, era stato evidenziato che il clan RAGIONE_SOCIALE – di cui si assumeva facesse parte il NOME – era cessato di esistere, a seguito degli arresti di alcuni dei suoi massimi esponenti; la sentenza di annullamento della Prima sezione aveva posto in rilievo la necessità di colmare la lacuna motivazionale, proprio con riferimento alla prospettazione difensiva relativa al dissolvimento del sodalizio criminale in questione.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che, con la nuova ordinanza, il Tribunale non avrebbe colmato la lacuna motivazionale, limitandosi a una mera elencazione di provvedimenti giudiziari, relativi, peraltro, a fatti di reato commessi in epoca antecedente al decreto emesso in data 5 novembre 2020 dal Tribunale di
Santa Maria Capua Vetere – Sezione misure di prevenzione -, che ha definito l’associazione criminale in questione «completamente azzerata a tutti i livelli, anche di semplice manovalanza». Il Tribunale, inoltre, avrebbe omesso di motivare sull’ulteriore produzione documentale allegata al ricorso e, in particolare, sul decreto del 26 aprile 2023, emesso sempre dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nel quale viene affermato che il clan e la sua ramificazione dedita allo spaccio sono stati completamente «annientati». Avrebbe, altresì, omesso di motivare in ordine all’evidente errore che vizierebbe il nuovo decreto ministeriale, nella parte in cui fonda la persistente operatività del clan RAGIONE_SOCIALE sull’ordinanza di custodia cautelare emessa il 7 marzo 2023 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, quando, invece, in quel provvedimento, era stato espressamente escluso ogni legame dell’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti – oggetto di quel provvedimento – con il clan COGNOME.
Nulla avrebbe detto il Tribunale neppure con riferimento all’affermazione, contenuta in un’istanza di applicazione di misura cautelare avanzata dalla Procura della Repubblica di Napoli, relativa alla «polverizzazione del clan RAGIONE_SOCIALE», che aveva trovato poi ulteriori riscontri in svariati atti prodotti dalla difesa.
5.1.2. Secondo il ricorrente, il provvedimento impugnato sarebbe carente in ordine al pericolo che il detenuto, se reinserito nel «circuito ordinario», possa entrare in contatto con il sodalizio criminale di cui si assume faccia parte. Il Tribunale avrebbe fondato la sua decisione non su elementi, concreti e attuali, sintomatici della sussistenza del pericolo di collegamento tra il detenuto e il clan, ma avrebbe valorizzato «elementi di prevenzione futuri ed incerti».
5.1.3. Il Tribunale non avrebbe adeguatamente valutato la scelta del detenuto – compendiata in numerose missive rivolte all’autorità carceraria e all’autorità giudiziaria – di dissociarsi dal contesto criminale in cui precedentemente era inserito, sostenendo che essa non potrebbe essere equiparata a una vera e propria attività di collaborazione con le autorità inquirenti. Il ricorrente contesta ta valutazione e pone in rilievo come essa si ponga in contrasto con la giurisprudenza della Corte costituzionale, che ha evidenziato che «la scelta di non collaborare può essere determinata anche da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento dei legami con associazioni criminali».
Il ricorrente sostiene che gli elementi addotti dalla difesa, valutati nel loro complesso, avrebbero dovuto condurre il Tribunale «alla prova dell’effettiva dissociazione e resipiscenza del detenuto». I fatti che avevano portato all’applicazione del regime speciale erano ormai superati dai successivi comportamenti del detenuto, che: si era dissociato dal clan; aveva ammesso gli addebiti; aveva tenuto un eccepibile comportamento in carcere.
Il AVV_NOTAIO generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
AVV_NOTAIO, per NOME, ha presentato conclusioni scritte con le quali ha insistito per l’annullamento del provvedimento, sostenendo, in particolare, che il Tribunale, con la nuova ordinanza, non avrebbe colmato le lacune motivazionali evidenziate nella sentenza di annullamento con rinvio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
1.1. L’unico motivo di ricorso non è consentito in sede di legittimità, atteso che il ricorrente, sebbene abbia dedotto la violazione di legge, in realtà, si limita a criticare la motivazione del provvedimento impugnato, muovendo censure alle valutazioni operate dal Tribunale, in ordine a elementi ritenuti dalla difesa di particolare rilievo.
Va premesso che l’ambito del sindacato devoluto alla Corte di cassazione è segnato dall’art. 41-bis, comma 2-sexies, legge n. 354 del 1975, che prevede che l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza, che abbia deciso il reclamo, possa essere impugnata solo per violazione di legge. L’ordinanza è dunque censurabile col ricorso per cassazione in caso di motivazione graficamente assente o qualora l’apparato giustificativo del provvedimento sia privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidoneo a rendere comprensibile la ratio deddendi, perché le relative linee esplicative sono talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da compromettere l’intelligibilità della decisione, ovvero ancora quando non affrontino le tematiche poste col reclamo; dovendosi, invece, escludere che la violazione di legge possa ricomprendere il vizio di insufficienza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
1.2. Tanto premesso, nel caso in esame, deve escludersi che il provvedimento impugnato risulti privo di motivazione o sia corredato da una motivazione apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile la ratio deddendi.
Il Tribunale, invero, ha reso un’ampia motivazione, affrontando le principali censure mosse con l’atto di impugnazione, ritenendo evidentemente “assorbite” le questioni poste dalla difesa completamente incompatibili con le valutazioni poste a base della propria decisione. Al riguardo, va ribadito che «il giudice del gravame non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo
invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, sicché debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata» (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv. 281935; cfr. anche Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593)
In particolare, il Tribunale ha tenuto conto della documentazione prodotta dalla difesa, non negandone la rilevanza, dando, però, rilievo anche a tutta una serie di provvedimenti richiamati nel decreto ministeriale, dai quali emergeva una perdurate operatività del clan (provvedimenti richiamati e analizzati alle pagine 3 e ss. dell’ordinanza impugnata). Il Tribunale non nega la rilevanza della documentazione difensiva, ma – in considerazione della documentazione citata nel decreto ministeriale – la ritiene significativa di un ridimensionamento del clan: le «operazioni di polizia e i provvedimenti cautelari indicati in entrambi i decreti applicativi … dimostrano che il clan COGNOME, che per lunghi anni ha esercitato incontrastato con violenza e controllo militare il suo potere sul territorio d influenza, anche grazie agli importanti contatti e accordi con i RAGIONE_SOCIALE, seppure negli ultimi anni pesantemente decapitato, non risulta essere stato tuttavia definitivamente disarticolato»; «nuove leve hanno assunto il comando come si rileva chiaramente dalla vicenda dell’arresto del boss COGNOME, cui succedeva la moglie e, dopo l’arresto di questa, il genero»; «l’ascesa del clan COGNOMERAGIONE_SOCIALE, dopo le vicissitudini giudiziarie di quello COGNOME, non esclude la permanente, seppure ridimensionata, operatività di questo, che continua, con forze rinnovate, a occuparsi di spaccio di sostanze e di estorsioni, avvalendosi del metodo mafioso, estendendo al sua influenza per il tramite dei referenti, non solo sull’agro campano ma anche sul basso Lazio»; «in questo rinnovato contesto il ruolo di elevata caratura criminale di COGNOME non è stato messo in discussione». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il Tribunale affronta anche le questioni relative alla condotta dissociativa e al comportamento processuale del detenuto: «quanto alla dedotta dissociazione, essa invero consiste in due missive del 2015, nelle quali l’interessato affermava di assumersi le proprie responsabilità sui processi già svolti o da svolgere per vivere un futuro sereno con le persone a lui più care, perché i reati ascrittigli li aveva commessi da giovane»; «inoltre, nel processo per omicidio di COGNOME NOME, nel quale in primo grado era stato condannato all’ergastolo, COGNOME, in sede di appello, rinunciava ai motivi e confermava la sua partecipazione all’omicidio, ottenendo in tal modo, dopo l’integrale accertamento dei fatti operato dalla Corte di assise, un consistente sconto di pena …».
Il Tribunale, tuttavia, ritiene che il comportamento processuale e la condotta dissociativa non siano sufficienti a dimostrare la recisione del legame con il sodalizio: «le ammissioni di responsabilità accompagnate da dichiarazioni di dissociazione dall’organizzazione criminale comportano prevalentemente, consistenti sconti di pena anche per reati molto gravi»; «l’ammissione di responsabilità di COGNOME nel processo per l’omicidio COGNOME, intervenuta solo nel giudizio di secondo grado e dopo una condanna in primo grado alla pena dell’ergastolo, è in sostanza consistita nell’ammissione dell’addebito, con rinuncia ai motivi di impugnazione, non accompagnata da altre precisazioni sulla composizione e le attività criminali del sodalizio di appartenenza»; «trattasi di una scelta processuale vantaggiosa in termini di nuova determinazione della pena e inerisce a profili di responsabilità esclusivamente personale»; «essa appare invece del tutto inidonea a spezzare il legame con il sodalizio»; «la condotta processuale tenuta dall’odierno sottoposto non scalfisce la prognosi di permanente pericolo di ripresa dei rapporti con i sodali».
Il Tribunale analizza anche le missive con le quali il detenuto ha affermato, in modo generico, «di voler cambiare, per vivere sereno vicino ai suoi affetti», ritenendo che si tratti «di generiche ed autoriferite affermazioni, … di certo non sintomatiche di irreversibile ripudio di quei valori negativi, che a lungo hanno connotato le sue scelte».
Né da tali missive né dagli altri atti presenti nel fascicolo, il Tribunale h ritenuto che sia emersa una condotta «idonea a dimostrare il definitivo allontanamento del sottoposto dal sodalizio di appartenenza e il ripudio irreversibile e definitivo di quell’appartenenza». Il Tribunale, dunque, ha valutato gli elementi evidenziati dalla difesa, ma, a fronte di quanto evidenziato nei decreti ministeriali, li ha ritenuti non sufficienti a dimostrare una reale recisione d contatti con il clan e, dunque, non idonei a evitare il pericolo che il detenuto, se reinserito nel circuito ordinario, possa nuovamente entrare in contatto con il sodalizio criminale.
1.3. A fronte di tali ampie e articolate argomentazioni, deve escludersi che il provvedimento impugnato risulti corredato da una motivazione completamente mancante o apparente, tale da determinare il vizio di legge, l’unico deducibile nel caso in esame.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende, che deve determinarsi in euro 3.000,00.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso, il 14 maggio 2024.