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Reformatio in pejus: quando la pena non può peggiorare

La Corte di Cassazione ha analizzato un caso di violazione del divieto di reformatio in pejus. A seguito della riqualificazione di un reato in appello, la Corte ha stabilito che, sebbene la pena detentiva possa essere determinata in modo discrezionale (pur senza peggiorare la situazione complessiva), la pena pecuniaria non può mai superare quella inflitta in primo grado, se l’appello è stato proposto solo dall’imputato. La sentenza impugnata è stata annullata limitatamente all’aumento della multa.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reformatio in pejus: quando la pena non può peggiorare

Il principio del divieto di reformatio in pejus, sancito dall’art. 597 del codice di procedura penale, rappresenta una garanzia fondamentale per l’imputato che decide di impugnare una sentenza di condanna. Significa che il giudice dell’appello, se l’unico a ricorrere è l’imputato, non può peggiorare la sua situazione. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 25435/2025) offre un importante chiarimento su come questo principio si applica quando il reato viene riqualificato e la pena ricalcolata, distinguendo nettamente tra pena detentiva e pena pecuniaria.

I fatti del caso

Il caso ha origine da una sentenza del Tribunale di Vercelli, che condannava un imputato per i reati di truffa, sostituzione di persona e falso. Successivamente, la Corte di Appello di Torino, in parziale riforma, operava una riqualificazione del reato principale di truffa in quello di appropriazione indebita. Nonostante la riqualificazione in un reato diverso, la pena finale rimaneva di dieci mesi di reclusione e 1300 euro di multa.

Tuttavia, nel ricalcolare la sanzione, la Corte territoriale fissava una pena base per l’appropriazione indebita pari a sei mesi di reclusione ed euro 1000 di multa. Questa decisione ha spinto la difesa a ricorrere in Cassazione, lamentando proprio la violazione del divieto di reformatio in pejus.

Il ricorso in Cassazione e la violazione della reformatio in pejus

Il difensore ha sollevato due questioni principali. In primo luogo, ha sostenuto che la pena base detentiva di sei mesi fosse illegittima. A seguito di una pronuncia della Corte Costituzionale (n. 46/2024), il minimo edittale per l’appropriazione indebita era stato ridotto a quindici giorni. Fissare la base a sei mesi (corrispondente al minimo della truffa, il reato originario) rappresentava, secondo la difesa, un peggioramento mascherato.

In secondo luogo, e con maggior fondamento, il ricorso evidenziava che la pena base pecuniaria di 1000 euro era palesemente superiore a quella di 600 euro stabilita dal giudice di primo grado, configurando una chiara e diretta violazione del divieto di aggravamento della pena.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso, offrendo una spiegazione dettagliata sull’applicazione del principio di reformatio in pejus. La Corte ha chiarito che il divieto non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma ogni singolo elemento autonomo che contribuisce a determinarla.

Sulla pena detentiva

I giudici hanno rigettato la censura relativa alla pena detentiva. Hanno spiegato che il giudice d’appello, pur dovendo rispettare il limite complessivo, non è vincolato a partire dal nuovo minimo edittale, specie se già il primo giudice si era discostato dal minimo. La Corte d’Appello aveva congruamente motivato lo scostamento dal minimo di quindici giorni in ragione delle modalità della condotta. Poiché la pena base (sei mesi) era comunque inferiore a quella fissata in primo grado (nove mesi), non vi era alcuna violazione.

Sulla pena pecuniaria

L’esito è stato diverso per la multa. La Cassazione ha affermato che la pena pecuniaria è un elemento autonomo della sanzione. La Corte d’Appello, fissando una pena base di 1000 euro a fronte dei 600 euro decisi in primo grado, ha inequivocabilmente peggiorato la posizione dell’imputato. Questo rappresenta una violazione diretta e incontestabile del divieto di reformatio in pejus.

Le conclusioni

In conclusione, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena pecuniaria. Ha rideterminato direttamente la sanzione, riportando la pena base della multa a 600 euro e calcolando la multa totale in 900 euro, tenuto conto degli aumenti per gli altri reati. La sentenza conferma un principio cruciale: ogni componente della pena (detentiva, pecuniaria, pene accessorie) è autonomo ai fini del divieto di reformatio in pejus. Il giudice d’appello può rimodulare la sanzione in seguito a una riqualificazione, ma non può mai, per nessuna singola componente, infliggere una pena più grave di quella stabilita nella sentenza impugnata dall’imputato.

Se in appello un reato viene riqualificato in uno meno grave, il giudice può fissare una pena base superiore al nuovo minimo di legge?
Sì, il giudice d’appello può discostarsi dal nuovo minimo edittale, fornendo un’adeguata motivazione, a condizione che la pena base inflitta non sia superiore a quella determinata dal giudice di primo grado per il reato originariamente contestato.

Cosa si intende per divieto di reformatio in pejus?
È il principio secondo cui, se l’unico a presentare appello è l’imputato, il giudice del gravame non può emettere una decisione che peggiori la sua posizione rispetto alla sentenza di primo grado. Questo divieto si applica non solo alla pena complessiva, ma a ogni suo singolo elemento autonomo.

Il divieto di reformatio in pejus si applica separatamente alla pena detentiva e a quella pecuniaria?
Sì. La sentenza chiarisce che il divieto deve essere rispettato per ogni componente autonomo della sanzione. Pertanto, anche se la pena detentiva viene ridotta, la pena pecuniaria (la multa) non può essere aumentata rispetto a quella stabilita nella precedente sentenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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