Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 37412 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 37412 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 30/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME (cui 01n3rhm) nato a BARI il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 02/10/2024 della Corte d’appello di Bari Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO; letta la requisitoria scritta del Procuratore generale, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Bari ha confermato la sentenza emessa il 14/03/2022 dal Tribunale di Bari, con la quale NOME COGNOME, insieme al coimputato NOME COGNOME, era stato condannato alla pena dei sei mesi d i reclusione ed € 160,00 di multa, in relazione al reato previsto dagli artt. 56, 110, 624 e 625, n.2, cod.pen., previa concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti rispetto alla contestata recidiva reiterata e specifica.
La Corte territoriale ha premesso la ricostruzione del fatto operata sulla base degli atti, rilevando che -dall’esame delle dichiarazioni testimoniali e delle riprese estratte dalle videocamere di sorveglianza -risultava che i due imputati avevano compiuti atti diretti in modo non equivoco a sottrarre una telecamera di sorveglianza cittadina apposta nei pressi della rotatoria sita tra INDIRIZZO e INDIRIZZO, non riuscendo nell’intento a causa dell’intervento delle forze dell’ordine.
Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione NOME COGNOME, tramite il proprio difensore, articolando un unico motivo di impugnazione con il quale ha dedotto -ai sensi dell’art.606, comma 1, lett.b) ed e) -l’erronea applicaz ione degli artt. 624 e 625, nn.2 e 7bis , avendo la Corte d’appello ritenuto contestata tale seconda aggravante, non ritenuta dal Tribunale e, per l’effetto, avendo ritenuto procedibile il reato pure in assenza di valida querela, da ritenersi necessaria a seguito delle modifiche introdotte dal d.lgs. n.150 del 2022 e, di fatto, riformando in peius la sentenza di primo grado; ritenendo che, per effetto della sopravvenuta procedibilità a querela del reato originariamente ascritto e riqualificato dal giudice di primo grado, il giudice di appello avrebbe dovuto pronunciare una sentenza di improcedibilità.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Il ricorrente ha argomentato che il giudice di appello sarebbe incorso nella violazione del divieto di reformatio in peius , in riferimento al disposto dell’art.597, comma 3, cod.proc.pen., nel ritenere sussistente l’aggravante consistente nella commissione del fatto su cosa destinata a pubblico servizio, in riferimento alla quale anche il vigente testo dell’art.624, comma 3, cod.pen., nel testo modificato dall’art.2, comma 1, lett.i) del d.lgs. 10 ottobre 2022, n.150, prevede la persistente procedibilità d’ufficio.
Specificamente, tale aggravante non era stata espressamente menzionata nel capo di imputazione nonché nella sentenza di primo grado, emessa anteriormente alla predetta modifica normativa, nell’ambito della quale il Tribunale aveva fatto espresso riferimento, in conformità al tenore testuale del capo di imputazione, alla sola aggravante prevista dall’art.625, n.2, cod.pen..
Deve pregiudizialmente evidenziarsi che, sia pure con sintetica motivazione, la Corte territoriale ha rilevato come la circostanza aggravante prevista dall’art.625, n.7, cod.pen. dovesse ritenersi già originariamente contestata a seguito della descrizione del fatto e pure in assenza della espressa menzione, nel capo di imputazione, del dato normativo di riferimento.
Va, a tale proposito, evidenziato che non vi è univocità di vedute nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla possibilità di una contestazione “in fatto” dell’aggravante in parola.
A tale proposito, ritiene il Collegio di aderire alla giurisprudenza secondo cui la circostanza aggravante di cui all’art. 625, comma 1, n. 7, cod. pen., configurata dall’essere i beni oggetto di sottrazione destinati a pubblico servizio ha complessivamente una natura valutativa e non “autoevidente”, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res , sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore (Sez. 5, n. 3741 del 22/01/2024, COGNOME, Rv. 285878 – 01; Sez. 5, n. 14890 del 14/03/2024, COGNOME, Rv. 286291 – 01; Sez. 5, n. 28108 del 07/06/2024, COGNOME, n.m.; Sez.5, n.34329 del 04/06/2024, COGNOME, n.m.).
A tale conclusione si è pervenuti sulla scorta dei principi enunciati dalle Sezioni unite Sorge (Sez. U., n. 24906 del 18/04/2019, Rv. 275436 – 01), che hanno affermato l’ammissibilità della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti, a condizione che, nel rispetto del diritto di difesa, l’imputazione riporti adeguatamente gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, tenuto conto delle caratteristiche delle singole ipotesi circostanziali e, in particolare, della natura degli elementi costitutivi delle stesse.
Laddove le circostanze aggravanti, secondo la previsione normativa, si esauriscono «in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche», l’indicazione del fatto materiale è idonea a riportare nell’imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile un adeguato esercizio del diritto di difesa.
Si è precisato in proposito che il carattere “autoevidente” dell’elemento aggravatore non può farsi discendere dal carattere più o meno incontroverso del suo inquadramento da parte della giurisprudenza; difatti, se così fosse – a parte la considerazione degli sviluppi a cui è sempre aperta la interpretazione giurisprudenziale – nella sentenza Sorge non si sarebbe pervenuti a riconoscere la necessità di contestazione ad hoc in relazione ad una serie di casi riportabili alla aggravante dell’art. 476, comma 2, cod.pen., come quello del verbale redatto dalla Polizia giudiziaria, o della autentica del notaio, atti pacificamente inquadrati dalla giurisprudenza nel novero di quelli fidefacenti.
Piuttosto, il parametro per riconoscere «la immediata percepibilità della portata giuridica aggravatrice insita nella evocazione di un fatto o di un atto è, dunque, la sfera delle conoscenze dell’uomo medio e cioè la possibilità per tale “agente” di percepire con un ragionamento semplice e diretto, la natura dell’atto
o comportamento contestati come capaci di rendere il fatto in esame, esposto ad una valutazione più severa» (così in motivazione Sez. 5, n. 14890 del 14/03/2024, COGNOME, cit.).
Con riguardo, invece, alle circostanze aggravanti nelle quali la previsione normativa include componenti valutative, rispetto alle quali le modalità della condotta integrano l’ipotesi aggravata, ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative, nel caso in cui il risultato di questa valutazione non sia esplicitato nell’imputazione, la contestazione sarà priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale.
Le Sezioni unite Sorge hanno chiarito che in tal caso, il connotato giuridico in questione può ritenersi adeguatamente contestato anche mediante l’impiego di formule equivalenti che perciò siano in grado di sostituire con la medesima efficacia la contestazione formale.
Sul punto -in relazione a diverso contesto fattuale -vanno altresì richiamate le considerazioni espresse, in parte motiva, da Sez. 4, n. 26798 del 11/06/2024, COGNOME, Rv. 286650; nella quale è stato rilevato, in diretta continuità con il predetto arresto delle Sezioni Unite, come sia fondamentale (anche in relazione al principio dettato dall’art.552, comma 1, lett.c), cod.proc.pen. in tema di dovere da parte del p.m. di enunciare il fatto contestato ‘in forma chiara e precisa’) che la condotta sia ascri tta con sufficiente intellegibilità e completezza, in modo da consentire una chiara percezione del complessivo disvalore del fatto e da permettere all’imputato una difesa effettiva; con la conseguenza che l’elemento circostanziale può ritenersi effettivame nte imputato -pure in mancanza di una carenza di riferimento normativo -in presenza di una contestazione tale da denotare la volontà dell’accusa di ricomprendere l’elemento medesimo nel complessivo disvalore del fatto.
4. Applicando tali principi alla circostanza aggravante di cui all’art. 625 n. 7 cod. pen., va osservato che la destinazione a “pubblico servizio” del bene, la quale giustifica la più severa punizione della condotta di ablazione e rende ragione del diverso regime di procedibilità previsto dal legislatore del 2022, non è data dalla fruizione pubblica del bene, bensì dalla dimensione pubblica e collettiva dell’interesse attinto nel caso concreto, trattandosi di un bene che, per volontà del proprietario o del detentore, ovvero per intrinseca qualità, serve ad un uso di pubblico vantaggio, ovvero a un servizio fruibile dal pubblico (Sez. 6, n. 698 del 03/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 257773 -01).
Alla luce di tali considerazioni, si deve in conclusione affermare che l’aggravante in questione è connotata da componenti di natura valutativa, anche
in ragione della variabilità della nozione di pubblico servizio, condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore (Sez. 5, n. 3741 del 22/01/2024, COGNOME, cit.).
Va peraltro rilevato che, accanto alla contestazione formale dell’aggravante, deve ritenersi consentita -proprio in applicazione dei citati principi derivanti dalla sentenza Sorge – anche una modalità di contestazione non formale, che però deve essere tale da rendere manifesto all’imputato che dovrà difendersi dall’accusa di avere sottratto un bene posto al servizio di un interesse dell’intera collettività e diretto a vantaggio della stessa.
Nel caso in esame il capo di imputazione originariamente ascritto consente di ritenere contestata l’aggravante in questione, dal momento che, nella descrizione del fatto, oltre alla menzione della condotta di impossessamento vi era un riferimento esplicito alla natura del bene, di per sé da ritenersi destinato a pubblico servizio, trattandosi di telecamera di videosorveglianza cittadina installata per conto del Comune.
Deve quindi ritenersi che la circostanza aggravante tuttora idonea -in relazione al vigente testo dell’art.624, ult.comma, cod.pen. a determinare la procedibilità d’ufficio del reato fosse stata complessivamente contestata in punto di fatto da parte del l’accusa.
Ciò posto, pure in presenza dell’espresso riferimento operato nella motivazione e nel dispositivo della sentenza di primo grado -alla sola aggravante prevista dall’art.625, n.2, cod.pen., deve escludersi che il giudice di appello, nel ritenere sussistente anche la predetta e ulteriore aggravante, sia incorso nella violazione del divieto della reformatio in peius .
In particolare, in relazione alla complessiva interpretazione del disposto dell’art.597, comma 3, cod.proc.pen., va osservato che, ferma restando l’intangibilità del trattamento sanzionatorio (esteso alle misure di sicurezza), la norma conferisce al giudice di secondo grado la possibilità di dare al fatto ascritto una qualificazione giuridica anche più grave di quella ritenuta nella sentenza impugnata, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado.
A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che l’eventuale riqualificazione in peius del fatto ascritto non determina alcuna compressione o limite al diritto al contraddittorio, anche alla luce della giurisprudenza europea e rimanendo comunque ferma, per l’imputato, la possibilità di contestare la riqualificazione medesima mediante il ricorso per cassazione. (v. fra le tante, sentenze 1° marzo 2001, Dallos c. Ungheria; 3 luglio 2006, COGNOME c. Francia; 7 gennaio 2010, COGNOME c. Bulgaria; 12 aprile 2011, NOME COGNOME c. Romania; 3 maggio 2011, NOME c. Grecia; 15 gennaio
2015, COGNOME c. Slovenia, nella quale ultima si è in particolare rilevato come l’imputato fosse pienamente a conoscenza degli elementi fattuali posti alla base della contestazione originaria, dai quali era possibile desumere l’oggetto della contestazione così come modificata nel corso del dibattimento).
La violazione, infatti secondo l’ impostazione della Corte di Strasburgo -deve essere tale da comportare un concreto e non meramente ipotetico regresso sul piano dei diritti difensivi, attraverso un mutamento della cornice accusatoria che abbia effettivamente comportato una novazione dei termini dell’addebito tali da rendere la difesa menomata proprio sui profili di novità che da quel mutamento sono scaturiti, non sussistendo quindi alcuna incompatibilità tra l’applicazione della disposizione e i principi enunciati nella pronuncia della Corte EDU del 11/12/2007, COGNOME c. Italia (Sez. U, Sentenza n. 31617 del 26/06/2015, COGNOME, Rv. 264438). Ne deriva, pertanto e per principio consolidato, che il giudice di appello, pur in difetto di gravame del pubblico ministero, può dare al fatto una diversa e più grave qualificazione giuridica, ove la questione sia strettamente connessa ad un capo o ad un punto della sentenza che abbia costituito oggetto dell’impugnazione e che il divieto imposto dalla disposizione non è teso a garantire un trattamento, sotto ogni aspetto, migliore di quello applicato in primo grado ma solo ad impedire l’applicazione di un trattamento sanzionatorio più grave, avendo riguardo unicamente alla pena sotto il profilo sia della specie, sia della quantità della sua complessiva determinazione (tra le altre, Sez. 2, n. 4640 del 01/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280560; Sez. 6, n. 47488 del 17/11/2022, F., Rv. 284025).
Tale conclusione è peraltro conforme all’orientamento, già espresso da risalenti pronunce e consolidatosi in tempi più recenti, (Sez. 6, n. 23024 del 04/02/2004, COGNOME, Rv. 230440; Sez. 5, n. 4984 del 19/12/2006, COGNOME, Rv. 236318), anche in relazione a l disposto dell’art.609, comma 2, cod.proc.pen., che aveva ritenuto che rientri nei poteri del giudice di legittimità la corretta qualificazione giuridica del fatto e quello di escludere, a seguito di tale riqualificazione, l’applicazione di una causa di estinzione del reato, considerato che ciò non comporta alcuna variazione in ordine al trattamento sanzionatorio e che, pertanto, non verrebbe vulnerato il divieto di reformatio in peius , il quale è unicamente preordinato a conservare l’integrità della pena ed a salvaguardare la preclusione nascente dal giudicato in ordine al trattamento sanzionatorio operato dal giudice a quo in assenza di impugnazione da parte del p.m. (con i conseguenti riflessi in materia di computo dei termini di prescrizione).
In specifica relazione al giudizio di secondo grado, già Sez. 2, n. 11935 del 08/03/2007, Tricarico, Rv. 236134, in ordine alla questione del divieto di reformatio in peius in appello aveva rilevato che «il principio in questione consiste esclusivamente nell’impossibilità di irrogare all’imputato, in assenza
d’impugnazione del P.M., una sanzione più grave di quella già inflittagli, e non implica affatto l’intangibilità del trattamento penale nel suo complesso, tanto che l’art. 597 c.p., comma 3 prevede espressamente la facoltà del giudice di dare al fatto una definizione giuridica più grave. Il ricorrente non può quindi dolersi dell’allungamento dei termini di prescrizione derivato dalla nuova definizione giuridica».
Si tratta di una lettura espressamente avvalorata da successive pronunce quali Sez. 6, n. 11055 del 30/01/2008, COGNOME, Rv. 239424; Sez. 5, Sentenza n. 3246 del 22/10/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 242953; Sez. 2, n. 36217 del 16/06/2011, COGNOME; Sez. 1, n. 474 del 17/12/2012, COGNOME, Rv. 254207; Sez. 2, n. 26729 del 05/03/2013, COGNOME, Rv. 256649; Sez. 6, n. 32710 del 16/07/2014, COGNOME, Rv. 260663; nonché Sez. 1, n. 49671 del 24/09/2019, COGNOME, Rv. 277859, nella cui parte motiva era stato rilevato che «va chiarito che l’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., nell’occuparsi dell’appello proposto dal solo imputato, fa salva la possibilità di una definizione giuridica più grave in relazione ai fatti ai quali si riferiscono i motivi, ma pone determinati limiti rispetto alle modifiche in peius . Si ha al riguardo una precisa elencazione che vieta l’irrogazione di una pena più grave, l’applicazione di una misura di sicurezza nuova o più grave, il proscioglimento dell’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza impugnata, la revoca dei benefici. Tale specificazione non garantisce così un trattamento sotto ogni altro aspetto uguale o migliore rispetto a quello intervenuto in primo grado. L’errore nella qualificazione giuridica riscontrato in sede di appello può allora giovare all’imputato solamente in detti tassativi casi. Mentre per il resto rimane preminente l’interesse dell’ordinamento giuridico a vedere la decisione giurisdizionale uniformarsi correttamente al diritto. E ci si riferisce non solo alta prescrizione, ma anche alle altre cause estintive del reato o della pena e, più in generale, a tutti i rimanenti effetti della condanna dovuti alla riqualificazione giuridica del fatto».
Ancora più recentemente, Sez. 2, n. 23410 del 01/07/2020, Ndiaye, Rv. 279772, ha osservato in parte motiva che «(non) sussiste alcuna irragionevolezza della previsione normativa così interpretata. Il legislatore si è preoccupato, invero, di consentire, in presenza di un errore del primo giudice in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, al giudice di appello di porvi rimedio e ciò al fine di garantire una corretta applicazione della legge penale. È evidente che da una diversa e più grave qualificazi one possono derivare effetti negativi per l’imputato (in termini di impossibilità di applicare cause estintive o benefici), (v. in materia di confisca obbligatoria Sez. 6, 10708/2016, Rv. 266558; in ordine all’aggravamento del trattamento penitenziario Sez. 2, n. 2884/2015; con riferimento alla diminuzione di pena proporzionalmente inferiore in relazione alle
ritenute attenuanti generiche Sez. 5, 4118/2014), ma questa è una conseguenza necessaria collegata allo “statuto” della fattispecie giuridica individuata una volta qualificato diversamente il fatto. Il legislatore nel prevedere tale possibilità, ha ritenuto preminente l’interesse alla corretta applicazione della legge».
Mentre la successiva Sez. 6, Sentenza n. 47488 del 17/11/2022, F., 15/12/2022, Rv. 284025 ha ritenuto di aderire a tale orientamento evidenziando che « Questa Corte di cassazione ha reiteratamente puntualizzato come il potere di dare la corretta qualificazione giuridica al fatto contestato e accertato costituisce espressione diretta del potere giurisdizionale, dunque aspetto immanente al sistema processuale: compito che spetta anche al giudice di impugnazione laddove la questione, pur esaminata d’ufficio, sia strettamente connessa ad un capo o ad un punto della decisione impugnata che ha costituito oggetto del ricorso e che sia stato così devoluto alla sua cognizione (in questo senso Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015, COGNOME, Rv. 266953; Sez. 2, n. 3211 del 20/12/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258538; Sez. 2, n. 37413 del 15/5/2013, COGNOME, Rv. 256653)» (decisioni, queste ultime, peraltro relative specificamente al giudizio di legittimità).
Tale pronuncia da ultima citata appare, nella specie, particolarmente conferente al caso di specie, in quanto verte in un’ipotesi di riqualificazione in peius avente specifico effetto in ordine al regime di procedibilità del reato, riguardando una fattispecie relativa a sentenza di appello che, riqualificando il delitto di cui all’art. 570, comma primo, cod. pen. in quello, procedibile di ufficio, di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., aveva “neutralizzato” l’intervenuta remissione di querela.
Deve quindi ritenersi, in conclusione, che -contrariamente alla prospettazione difensiva -il giudice di secondo grado non sia incorso nella violazione del divieto di reformatio in peius e che, nel ritenere perfezionata l’aggravante suddetta, la stessa abbia correttamente escluso la necessità della condizione di procedibilità prevista per effetto dello ius superveniens .
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 30/10/2025
Il AVV_NOTAIO estensore NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME