Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 12443 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 12443 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 11/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOMECOGNOME nato a Ruvo di Puglia il 14/8/1958
avverso la sentenza del 16/5/2024 della Corte di appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 5 ottobre 2023 la Corte di cassazione aveva annullato la pronuncia emessa nei confronti di NOME COGNOME dalla Corte di appello di Milano, limitatamente alla statuizione della confisca, disposta in relazione al reato di usura di cui al capo B).
2. La pronuncia rescindente aveva ritenuto erronea la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, dopo aver affermato l’impossibilità di determinare il profitto del reato di usura in danno di NOME COGNOME, aveva disposto la confisca per equivalente dei beni immobili e mobili nella disponibilità dell’imputato sino alla concorrenza della somma di 50.000 euro, avendo ritenuto che gli interessi usurari, allo stesso corrisposti, ammontassero a quell’importo, coincidente con la somma riconosciuta dal Giudice di primo grado alla parte civile a titolo di provvisionale. La Corte regolatrice ha evidenziato l’errata sovrapposizione concettuale da parte del Giudice di secondo grado tra danno subito dalla parte civile in conseguenza del reato e profitto del reato medesimo, al quale consegue l’ulteriore risposta sanzionatoria, prevista dal legislatore con la confisca c.d. per equivalente. In particolare, la sentenza rescindente, nel sottolineare la non sovrapponibilità tra le voci di risarcimento del danno e di profitto confiscabile, ha evidenziato che la prima riguarda «gli effetti provocati dal reato nella sfera patrimoniale della persona offesa o di quella danneggiata, che deve essere ricompensata e ristorata dal reo quale autore dell’illecito civile insito nella commissione del reato», concernendo, quindi, il profilo civilistico dello stesso che si svolge all’interno del processo penale, mentre la confisca per equivalente «è totalmente estranea a tale rapporto privatistico, in quanto strumentale alla soddisfazione di interessi di natura esclusivamente pubblica», ed è connotata da una «natura sanzionatoria», assolvente «una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l’imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile».
Decidendo in fase di rinvio, la Corte di appello di Milano ha disposto la confisca per equivalente in relazione al reato di cui al capo B) fino alla concorrenza della somma di euro 79.000.
3. Contro la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, che ha dedotto la violazione del divieto di reformatio in peius. Se è vero che il giudice di rinvio avrebbe dovuto riconsiderare l’eventuale sussistenza di interessi illegittimamente corrisposti dalla persona offesa e, quindi, quantificarli nel loro esatto ammontare, è altrettanto vero che tale accertamento non avrebbe potuto superare l’importo indicato dalla sentenza annullata e, cioè, quello di 50.000 euro.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il principio sancito dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. opera anche nel giudizio di rinvio e si estende a tutti gli eventuali ulteriori giudizi di rinvio, nel senso che la comparazione fra sentenze, necessarie all’individuazione del trattamento meno deteriore, deve essere eseguita fra quella di primo grado e quella resa in detti giudizi, restando immodificabile in peius l’esito più favorevole tra quelli intervenuti a seguito di esclusiva imputazione dell’imputato (Sez. 1, n. 5517 del 30/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285801 – 04; Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258652 01).
Il divieto di reformatio in peius concerne anche la confisca, in quanto misura afferente al trattamento sanzionatorio inflitto all’imputato.
Al riguardo, questa Corte – con riguardo al procedimento di prevenzione, al quale ha ritenuto applicabile il divieto di reformatio in peius, previsto dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. per il giudizio di appello, pur non essendo espressamente richiamato dall’art. 10, comma 4, d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 – ha precisato che tale divieto risulta violato nel caso in cui il contenuto precettivo della decisione di appello comporti, in assenza di impugnazione della pubblica accusa, un trattamento deteriore rispetto a quello inflitto in primo grado in termini di maggior durata temporale della misura di prevenzione, di inflizione di una misura più restrittiva o di incremento dei beni assoggettati a confisca.
Nel caso in esame, la Corte territoriale, in fase rescissoria, ha quantificato la confisca nella somma di euro 79.000,00 e, quindi, in misura superiore rispetto alla precedente sentenza, annullata sul punto dalla Seconda Sezione di questa Corte, che l’aveva determinata in euro 50.000,00.
È evidente che la Corte territoriale ha violato il divieto di reformatio in peius.
Va precisato che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, essendo superfluo, per le ragioni di seguito indicate, disporre la prosecuzione del giudizio.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, la nozione di profitto del reato confiscabile si identifica nel vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dall’illecito presupposto e il profitto è individuabile soltanto in un effettivo arricchimento patrimoniale acquisito e non nella semplice esistenza di un credito, per così dire, “virtuale”, in quanto non riscosso (Sez. 6, n. 45090 del 2/10/2014, COGNOME, Rv. 260665 – 01; Sez. 2, n. 8339 del 12/11/2013, dep. 2014, De COGNOME, Rv. 258787 – 01).
Nel caso in esame, dalla sentenza impugnata emerge che, a fronte della somma prestata di euro 100.000,00, è stata restituita dalla persona offesa
all’imputato la somma di euro 79.000,00, così che è evidente che nessun profitto può dirsi conseguito dall’imputato.
Giova aggiungere che la Corte di appello, per un verso, ha richiamato l’art. 1194 cod. civ. e, dunque, una norma inconferente nella specie, in quanto afferente ai criteri, valevoli nei rapporti obbligatori civili, di imputazione dei pagamenti eseguiti dal debitore; per altro verso, ha trascurato di considerare che, per determinare l’effettivo arricchimento che, secondo i principi appena richiamati, configura lo specifico profitto nella fattispecie de qua, deve aversi riguardo anche alla somma restituita e a quella ricevuta in prestito.
Ciò rende evidente anche che non può sostenersi – come pure affermato nella sentenza impugnata, richiamando un arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 16045 del 22/03/2023, COGNOME, Rv. 284447 – 01) – che il profitto coincide con gli interessi e resta irrilevante il profilo dell’omessa restituzione delle somme prestate come capitale. Non può prescindersi, infatti, da tale ultimo profilo, atteso che, in ragione di quanto prima osservato, anch’esso influisce nella quantificazione dello specifico profitto realizzato in concreto per effetto del reato.
Ne discende che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente alla disposta confisca, che va eliminata.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata quanto alla confisca, che elimina. Così deciso 1’11 marzo 2025.