Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 37471 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 37471 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/09/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME, nato a BARI il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a BARI il DATA_NASCITA COGNOME NOME, nato a MODUGNO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 27/01/2023 della CORTE APPELLO di BARI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso udito il difensore
AVV_NOTAIO in difesa di COGNOME quale imputato insiste per l’accoglimento del ricorso e, quale difensore e procuratore speciale del COGNOME costiuito parte civile, deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione.
RITENUTO IN FATTO
1. COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, ricorrono per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Bari del 27/01/2023 (dep. 20/04/2023, fascicolo pervenuto in Corte di cassazione il 16/05/2024), con la quale, riconosciute all’ultimo ricorrente le attenuanti generiche prevalenti ed esclusa la recidiva, è stata confermata per i primi due imputati la pena di giustizia loro inflitta con sentenza del Tribunale d Bari e riformata tale decisione con riguardo al terzo imputato in ordine al trattamento sanzionatorio (riguardo al capo D) della rubrica.
2. Le difese affidano i ricorsi a diversi motivi che saranno enunciati, ai sensi dell’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., nei limiti strettamente necessari per la motivazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Ricorso di NOME
1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, commi 3 e 4, 371, comma 2, lett. b) cod. proc. pen. e 56, 629, commi 1 e 2, 416-bis.1 cod. pen. (Episodio di cui al capo A della rubrica).
La censura attiene alla veste processuale e al conseguente regime probatorio da riconoscersi alle dichiarazioni di COGNOME, la cui attendibilità la difesa decisamente contesta in considerazione del fatto che questi, oltre che persona offesa dei reati di cui ai capi A), B) e C) della rubrica, era a sua volta imputato, capo D), di estorsione ai danni del COGNOME (originariamente in concorso proprio con quei soggetti dei quali asseriva di essere stato vittima).
Le dichiarazioni accusatorie del COGNOME dovevano valutarsi alla stregua dei criteri dettati dall’artt. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (ossia di person imputata in un reato collegato), stante l’esistenza di una connessione probatoria tra tutti i fatti in contestazione, da ricavarsi dal fatto che la vicenda di cui al A) si inserisce nell’unico procedimento in cui sono state contestate le condotte di cui ai capi B), C) e D), legate tra di loro dal vincolo della continuazione, dal comunanza degli elementi di prova costituita dalle intercettazioni che lega tutti gli episodi contestati e dalla comune finalità di agevolare l’associazione di tipo mafioso
denominata clan COGNOME.
Con la conseguenza che le propalazioni accusatorie del COGNOME necessitavano di riscontri, non ravvisabili nelle affermazioni della di lui moglie COGNOME NOME, scarsamente rilevanti dal punto di vista probatorio essendosi ella limitata a riferire su circostanze apprese de relato dal marito e in un momento successivo al verificarsi dei fatti, né in quelle del teste COGNOME NOME. Questi infatti, aveva dichiarato di non essere a conoscenza di richieste estorsive ai danni del COGNOME da parte della criminalità locale, precisando che allorquando aveva chiesto spiegazioni al COGNOME circa la sua volontà di abbandonare i lavori, quest’ultimo gli aveva genericamente parlato di alcuni problemi.
Parimenti doveva affermarsi con riguardo al contenuto delle intercettazioni captate tra COGNOME, COGNOME e Giurano, in quanto prive di riscontri esterni di carattere convergente e individualizzante soprattutto con riferimento alla specifica condotta criminosa contestata al ricorrente, ossia di essersi portato in una prima occasione al cospetto del COGNOME. L’assenza di riscontri aveva portato la Corte di merito a rendere una motivazione apparente.
Il ricorso è infondato.
Invero, sebbene in ordine alla questione relativa all’esatta veste processuale da riconoscersi al dichiarante COGNOME, la Corte d’appello si sia limitata ad affermare che il collegamento tra le vicende estorsive ai danni del COGNOME (capi A, B e C) e del COGNOME (capo D) è solo di carattere temporale e spaziale “ma tale situazione non integra certamente un collegamento probatorio rilevante”, va, al contempo, sottolineato che la sentenza impugnata si è fatta, però, carico di indicare plurimi elementi convergenti di riscontro al narrato accusatorio del COGNOME, in relazione al contenuto e alla pregnanza dei quali le doglianze difensive finiscono per essere riproduttive dei profili di censura già avanzati con l’atto di appello e motivatamente disattesi.
In particolare, non essendo questa la sede per passare in rassegna – a fronte dell’assenza della denuncia di specifici travisamenti – le fonti di prova additate ad elementi di riscontro dai giudici di merito, altrimenti procedendosi ad una rilettura non consentita in sede di legittimità – va nell’insieme evidenziato come si tratti d dichiarazioni provenienti sia da soggetti che hanno rinvenuto a loro volta conferma del narrato con riguardo alle altre vicende oggetto di giudizio (il riferimento è a de relato della moglie del dichiarante), sia del tutto avulsi dalle dinamiche in cui si inseriscono i fatti (il teste COGNOME conferma appieno le difficoltà in cui viene trovarsi lavorativamente COGNOME in quel di Bitritto a seguito delle minacce subite, in coerenza con il comportamento da costui successivamente assunto) e,
soprattutto, dagli stessi imputati che quelle condotte illecite in concorso hanno realizzato. E, a tale riguardo, con riferimento al rilievo attribuito al contenuto de intercettazioni svolte, va ribadito il principio di diritto affermato dalla Cor legittimità secondo cui le dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall’art. 192, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714 – 01).
Ricorso di COGNOME NOME.
1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 629 e 610 cod. pen. (capo A della rubrica, già irrevocabili capi B, C ed E).
Premesso che il COGNOME, quale fonte di prova a carico, era stato ritenuto inattendibile quanto al reato di cui al capo D) e necessitando le sue dichiarazioni di riscontri in quanto costituito parte civile, la censura attiene alla corr qualificazione giuridica del fatto di cui al capo A), da ricondursi nell’alveo del tentata violenza privata, in ragione del diverso dolo che si sostiene abbia animato la condotta dell’imputato (l’incontro in occasione del quale il ricorrente aveva avanzato la richiesta di denaro nei confronti del COGNOME era avvenuto dopo che questi aveva chiuso il cantiere di Bitritto ed aveva manifestato la volontà di non lavorare più nel detto comune, ragione per cui risultando detta condotta inidonea ad arrecare alcun tipo di danno ingiusto alla p.o., andava tutt’al più inquadrata nell’alveo degli artt. 56- 610 cod. pen.) e all’assenza di pregnanza del richiamato riscontro costituito dalle dichiarazioni della compagna della p.o.
Il ricorso è inammissibile.
Invero, il motivo di ricorso, in punto di qualificazione giuridica del fatt risulta riproduttivo, peraltro genericamente, dei profili di censura gi adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dalla Corte di merito e non scanditi da specifica critica delle argomentazioni posta a base della sentenza impugnata (v. pagg. 30-32).
Inoltre, appare introdurre, con riguardo alla attendibilità e pregnanza degli elementi probatori a carico, ulteriori profili di doglianza non previamente introdott in modo specifico con l’atto di appello e motivatamente disattesi dalla sentenza impugnata nella parte dedicata all’esame delle censure svolte sul punto dai coimputati.
Ricorso di COGNOME NOME (estorsione continuata ai danni di COGNOME NOME di cui al capo D) della rubrica).
Violazione dell’art. 606, lett. b), c), e), cod. proc. pen., in relazione artt. 125, 192, 530, 546 cod. proc. pen. e in ulteriore rapporto all’art. 629 cod pen.
La censura investe l’attendibilità del contenuto delle intercettazioni ambientali effettuate in carcere tra gli altri imputati coinvolti nella vicenda, su scorta delle quali il tribunale, discostandosi dalla richiesta assolutoria avanzata dal pubblico ministero, aveva fondato l’affermazione di responsabilità del COGNOME.
In particolare, si osserva come tutti i soggetti le cui captazioni sono state ritenute veritiere ed indizianti a carico dell’imputato siano stati tutti condann per gravissime condotte commesse proprio ai danni dell’odierno ricorrente (si tratta dei capi A, B e C della rubrica); che il COGNOME è l’unico soggetto che aveva avuto il coraggio di denunciare tutte le angherie e i reati da costoro patiti e che, sin dal primo momento, aveva anche chiarito ogni rapporto con il COGNOME, presunta persona offesa dell’estorsione che lo vede coinvolto al capo D) e condannato con sentenza di applicazione pena irrevocabile per la grave condotta estorsiva ai suoi danni di cui al capo B).
Il giudice di primo grado aveva erroneamente valutato l’attendibilità e la veridicità del contenuto delle captazioni ambientali operate in carcere, tralasciando di apprezzare come i soggetti intercettati fossero stati arrestati su ordinanza di custodia cautelare emessa proprio a seguito delle denunce sporte dal ricorrente, il cui contenuto avevano conosciuto e approfondito leggendo il provvedimento cautelare e quindi, ben consci di essere intercettati, si erano premuniti di rendere dichiarazioni che, da un lato, assumessero valenza in proprio favore e, dall’altro, risultassero indizianti nei confronti dell’odierno ricorrente.
In sostanza, ci si trovava dinanzi ad un rudimentale depistaggio operato dagli altri imputati.
Il tribunale aveva ritenuto che il pestaggio subito dal COGNOME e per cui sono stati condannati gli altri computati fosse stato determinato dalla circostanza che lo stesso si fosse impadronito delle somme versate dal COGNOME destinate agli esponenti del clan mafioso RAGIONE_SOCIALE COGNOME. Si trattava, però, di una conclusione che non teneva conto della versione contrastante fornita dall’imputato, l’unica avente carattere genuino.
A conferma dell’illogicità della motivazione di condanna si cita il fatto che la Corte d’appello aveva comunque asseverato che la parte offesa aveva ordito la
trappola di cui fu vittima il ricorrente; che i fatti delittuosi di cui al pr processo furono accertati a seguito della spontanea e coraggiosa denuncia del COGNOME; che il ricorrente aveva sempre reso dichiarazioni non solo intrinsecamente attendibili, ma pure riscontrate da fonti ed elementi esterni. Peraltro, si aggiunge che le vicende estorsive patite dal ricorrente sono state definite con due sentenze entrambe divenute irrevocabili all’esito di processi in cui il COGNOME, con senso civico, ebbe anche a costituirsi parte civile.
Illogico era attribuire all’imputato una condotta estorsiva di euro 2.500,00 in danno del COGNOME quando poi al contempo si riconosce che lo stesso imputato fosse creditore di decine di migliaia di euro unitamente al di lui suo suocero proprio verso il COGNOME che si era reso inadempiente.
Inoltre, si censura il giudizio di attendibilità del COGNOME allorquando assume di avere subito da parte del ricorrente un’estorsione di € 2.500,00 benché lo stesso abbia patteggiato una pena per una situazione di ben alto e rilevante importo in danno dello stesso imputato.
Il motivo è inammissibile, in quanto riproduttivo di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice del merito (v. pagg. 32-35 della sentenza impugnata) e non corredati da elementi di doglianza di spiccata e decisiva novità, con la conseguenza che il motivo stesso finisce anche per essere generico.
La Corte d’appello, infatti, con motivazione congrua e scevra da vizi logici:
si è fatta anzitutto carico di escludere che nella vicenda in esame ci si trovi al cospetto dell’ipotesi dell’intermediario che agisca per conto dell’estorto animato dal solo fine di perseguire l’interesse della vittima, ricorrendo, invece, la diver ipotesi, avente valenza concorsuale, di colui che si attiva per ricevere il denaro a titolo di pizzo destinato a terze persone, evenienza, quest’ultima, peraltro esclusa dalla sentenza impugnata che addita l’imputato, sulla scorta del dichiarato del COGNOME, di essersi trattenuto le somme destinate a COGNOME;
ha escluso che le captazioni ambientali relative ai colloqui in carcere dei diversi imputati ivi ristretti in stato di custodia cautelare siano stato frut un’artificiosa e programmata precostituzione volta ad accusare il COGNOME, alla luce anche del dichiarato di quest’ultimo a proposito del pestaggio subito il 7 dicembre 2013 che avvalora l’ipotesi che vede il COGNOME riscuotere tangenti a nome del clan senza però consegnare le somme ricevute (v. pag. 34 secondo e terzo cpv.);
ha spiegato le ragioni che rendono non plausibile l’ipotesi che il COGNOME, non volendo più pagare le somme richiesta a titolo di tangente dal COGNOME,
abbia deciso di mentire ai COGNOME (che riteneva essere i destinatari ultimi della somma), affermando falsamente che era stato il COGNOME, che fungeva da tramite, ad appropriarsi del denaro consegnatogli (si richiamano, sul punto, le conversazioni captate in carcere tra il COGNOME ed i suoi familiari, osservandosi, a conferma della genuinità del contenuto, non solo e non tanto che il COGNOME non avesse anche un concreto interesse ad accusare il COGNOME dinanzi ai suoi familiari, ma soprattutto che non appare realisticamente sostenibile che il COGNOME – alla sua prima esperienza carceraria – potesse concretamente ipotizzare che le sue conversazioni venissero intercettate e, per tale ragione, abbia deciso di dire il falso ai suoi parenti per cautelarsi dinanzi a COGNOME, nel timore che gli stessi venissero successivamente a conoscenza del contenuto delle conversazioni captate”; si osserva, poi, che, ove davvero il COGNOME avesse deciso di non pagare la tangente e di accusare il COGNOME di essersi appropriato delle some riscosse, sarebbe stato maggiormente plausibile che questi avesse assunto tale condotta sin dall’inizio, senza versare alcunché mentre, invece, come già rilevato, è pacifico che il COGNOME ha versato nelle mani del COGNOME almeno la somma di C 2.000,00; pag. 35);
– ha argomentato in ordine all’assenza di interferenza logica tra la ritenuta inattendibilità del COGNOME in parte qua con l’attendibilità invece asseverata quanto alle vicende sub capi A), B) e C) della rubrica, richiamando sia il principio affermato dalla Corte di legittimità in ordine alla valutazione frazionata de dichiarato allorché si riferisca a diversi episodi, sia l’esistenza di plurimi risc esterni a sostegno della porzione di narrazione che riguarda i primi tre capi di imputazione, a differenza di quella di cui al capo D).(sulla scindibilità del dichiarat testimoniale, v. Sez. 2, n. 10193 del 13/02/2024, Petrone, Rv. 286139 – 01).
In conclusione, la motivazione in punto di affermazione di responsabilità del COGNOME sfugge ai vizi di legittimità denunziati, tenuto conto che alla Corte di cassazione è preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti preferiti a quelli adott dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (sempreché non sfocino in irragionevolezza). Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di
rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione (Sez. 6, n. 9923 del 05/12/2011, dep. 2012, Rv. 252349).
Con il secondo motivo si deduce la violazione di legge e l’inosservanza degli artt. 178, 546 e 597 cod. proc. pen. e in ulteriore rapporto agli artt. 133 62-bis cod. pen.
Si lamenta che la Corte di appello, pur essendo pervenuta ad una rideterminazione favorevole del trattamento sanzionatorio nei confronti dell’imputato, abbia operato una illegittima reformatio in peius, con riguardo all’individuazione della pena base.
In particolare, si rappresenta che:
la pena base, all’esito del giudizio di primo grado, era stata così determinata: previa esclusione di tutte le circostanze aggravanti contestate ad eccezione della recidiva, anni sei di reclusione ed euro 1.500,00; aumentata alla pena finale tenuto conto della continuazione interna ex art. 81 cpv. cod. pen:Piella misura di anni due di reclusione ed euro 500,00 di multa, ad anni otto di reclusione ed euro 2.000,00 di multa;
il giudice di appello, pur avendo escluso la recidiva, è partito dalla pena base di anni sei di reclusione ed euro 1.200,00 di multa, ridotta per la concessione delle attenuanti generiche ad anni quattro e mesi sei di reclusione ed euro 700,00 di multa, aumentata per la continuazione tra i diversi episodi di estorsione sino ad anni cinque di reclusione ed euro 800,00.
La Corte d’appello avrebbe dovuto conseguentemente individuare la pena base detentiva in quella di anni cinque di reclusione e non di anni sei di reclusione, con violazione del principio espresso dalle Sezioni unite penali COGNOME.
Il motivo è fondato.
La Corte di appello, pur avendo escluso la recidiva e riconosciuto le attenuanti generiche è partita dalla stessa pena base della reclusione stabilita dal primo giudice pur in costanza di recidiva.
Si è, quindi, violato il divieto di reformatio in peius, per come affermato dalle Sezioni unite secondo cui nel giudizio di appello tale divieto non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione, per cui il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante e per l’effetto irroga una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza (art. 597, comma 4, cod. proc. pen.), non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, COGNOME, Rv. 232066 – 01).
In conclusione:
la sentenza impugnata va annullata nei confronti di COGNOME limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio sul punto a diversa sezione della Corte di appello di Bari; va rigettato il ricorso nel resto dichiarata irrevocabile l’affermazione di responsabilità dell’imputato;
va dichiarata l’inammissibilità del ricorso di COGNOME NOME, con condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità e così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti;
va rigettato il ricorso di RAGIONE_SOCIALE, con condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali;
vanno condannati gli imputati COGNOME NOME e COGNOME NOME alla rifusione delle spese di assistenza e difesa sostenute nel grado dalla parte civile COGNOME, liquidate come in dispositivo tenendo conto dell’attività defensionale svolta, della tariffa legale e della nota spese presentata dal difensore.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di COGNOME NOME limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bari. Rigetta nel resto il ricorso e dichiar irrevocabile l’affermazione di responsabilità dell’imputato.
Dichiara inammissibile il ricorso di COGNOME NOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Rigetta il ricorso di NOME che condanna al pagamento delle spese processuali.
Condanna COGNOME NOME e COGNOME NOME in solido alla rifusione delle spese di assistenza e difesa sostenute nel grado dalla parte civile COGNOME NOME, che liquida in complessivi euro quattromila, oltre accessori di legge.
Così deciso, il 20 settembre 2024.