Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 20550 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 20550 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nato a Goteborg (Svezia) il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 04/11/2022 della Corte di appello di Bologna;
visti gli atti del procedimento, il ricorso e la sentenza impugnata; udita la relazione del Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi i difensori del ricorrente, AVV_NOTAIO ed NOME COGNOME, c hanno chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte di appello Bologna ha confermato la condanna di NOME COGNOME per il delitto di peculato, pe essersi appropriato di otto marche da bollo, delle quali aveva la disponibilità sua qualità di addetto all’ufficio passaporti del Commissariato di pubblica sicure di San Giovanni in Persiceto, assolvendolo invece dall’analogo addebito relativo a altre 1.096 marche analoghe, consegnate dagli utenti all’atto della presentazio della richiesta di rilascio del passaporto in quell’ufficio, ma non rinvenut moduli sui quali avrebbero dovuto essere apposte.
Per queste ultime, tenuto conto della caotica gestione dell’ufficio, della prassi, ivi invalsa, di non attaccarle al documento mediante la relativa faccia autoadesiva, bensì soltanto di spillarle allo stesso, nonché della materiale possibilità di accesso alle pratiche anche per altri operatori di quell’ufficio di polizia, la Corte d’appell non ha ritenuto raggiunta la prova dell’impossessamento da parte dell’imputato, perciò assolvendolo per non aver commesso il fatto.
Quanto alle restanti otto marche, per quattro di esse, quei giudici hanno ritenuto decisiva la testimonianza di altrettanti utenti, i quali hanno dichiarato di averle comprate direttamente in commissariato (uno di essi, in verità, si è limitato a riferire di essersi presentato in quell’ufficio già nella disponibilità della marca e che il funzionario con cui aveva parlato, poi individuato per il COGNOME, gli aveva detto che avrebbe comunque potuto comperarla anche direttamente lì). Le altre quattro, invece, sono quelle rinvenute sui documenti relativi ai passaporti dello stesso COGNOME, di sua moglie e dei loro figli.
2. Il ricorso consta di quattro motivi.
2.1. Il primo consiste nella violazione di legge e nel vizio della motivazione in punto di colpevolezza, per avere la Corte d’appello ritenuto raggiunta la prova della condotta appropriativa attraverso una parziale e comunque erronea valutazione del compendio probatorio.
L’istruttoria dibattimentale, infatti, avrebbe fatto emergere l’usanza, in quell’ufficio, di acquistare marche da bollo e metterle a disposizione di amici od utenti che ne fossero stati sprovvisti; in particolare, poi, tre colleghi dell’imputato escussi come testimoni ad iniziativa della sua difesa, hanno riferito della sua particolare disponibilità verso l’utenza e dell’acquisto di marche da bollo da lui personalmente compiuto per conto di alcuni utenti. In proposito, la sentenza sarebbe altresì viziata per la mancata assunzione di una prova decisiva, ovvero la testimonianza dei gestori di una tabaccheria vicina al Commissariato che avrebbero potuto confermare il dato, ma che i giudici d’appello hanno reputato superflua, respingendo la richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruttoria a tal fine.
Evidenzia, inoltre, il ricorso che non sono state individuate le pratiche da cui, in ipotesi, sarebbero state prelevate le quattro marche vendute, né è stato verificato se i moduli relativi alle richieste dei relativi acquirenti presentassero irregolarità formali. Uno di costoro, anzi, tale COGNOME, ha riferito del semplice prospettazione della possibilità di acquistare le marche in quell’ufficio e non di aver ricevuto un’offerta in tal senso, peraltro spiegando di non essere in grado d’individuare il funzionario con cui aveva interloquito.
Riguardo, poi, alle marche apposte sulle pratiche riguardanti i passaporti dello stesso imputato e dei suoi familiari, la sentenza ha valorizzato la circostanza per cui esse risultassero acquistate tutte in luoghi ed in giorni diversi, nonché in date anteriori al preinserimento delle relative pratiche nell’apposito sistema informatico. Nulla però – obietta il ricorso – permetterebbe di escludere che, considerato il disordine di quell’ufficio, si fosse potuto verificare un involontario scambio con altre marche all’atto della compilazione e dell’inserimento dei dati nel sistema.
2.2. Il secondo motivo denuncia i medesimi vizi della sentenza, in relazione alla ricognizione fotografica compiuta dagli acquirenti COGNOME, NOME, NOME COGNOME e COGNOME, che hanno riconosciuto l’imputato per colui che aveva venduto loro – od offerto in vendita – le marche da bollo.
La difesa rappresenta che la sentenza si è limitata a prendere atto di tale riconoscimento, senza tuttavia considerarne, anzitutto, i vizi formali, che invece determinerebbero l’inutilizzabilità dello stesso e la nullità derivata della decisione. Quell’atto, infatti, è stato eseguito senza la necessaria osservanza di formalità simili a quelle della ricognizione rituale, in particolare mostrando ai testimoni, sia in fase d’indagini che in dibattimento, soltanto l’immagine fotografica dell’imputato.
Inoltre, dei quattro testimoni, solo due lo hanno effettivamente riconosciuto; COGNOME, infatti, come già detto, ha affermato di non esserne in grado; mentre NOME, che nel corso delle indagini aveva riferito di non poter ricordare, essendo trascorsi due anni dai fatti, in dibattimento, invece, a sei anni di distanza dagli stessi, ha irragionevolmente mostrato di ricordare perfettamente.
Su tali vizi formali e logici, tuttavia, la Corte d’appello sostanzialmente avrebbe taciuto, eludendo il dovere di motivazione rafforzata su di essa incombente.
2.3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione dell’art. 597, comma 3, cod. proc. pen., per avere la sentenza d’appello applicato, per i reati ritenuti in continuazione, aumenti di pena superiori a quelli disposti in primo grado: segnatamente, quattro mesi di reclusione per sette episodi, a fronte dei due mesi applicati dal primo giudice in relazione a 1.104 episodi.
2.4. L’ultima doglianza attiene al vizio della motivazione con cui sono state negate le attenuanti generiche, avendo la Corte distrettuale ritenuto di valorizzare la modestia del profitto conseguito dall’imputato soltanto per giustificare il riconoscimento dell’attenuante dell’art. 323-bis, primo comma, cod. pen..
Obietta la difesa che la considerazione di tale dato di fatto anche ai fini delle attenuanti generiche non avrebbe comportato un bis in idem, in quanto
l’attenuante speciale riguarda il fatto nella sua globalità, mentre per le circostanze generiche deve aversi riguardo ai singoli episodi delittuosi.
Ha depositato memoria scritta il Procuratore generale, concludendo per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo non può essere ammesso, perché si risolve nella contestazione del giudizio di colpevolezza formulato dai giudici d’appello e non della congruenza logica del relativo percorso argomentativo.
Come si legge testualmente in ricorso (pag. 4, in fine), la difesa si duole, infatti, dell’«omesso ed erroneo esame di alcuni elementi di prova, che avrebbero consentito una lettura alternativa», sostanzialmente chiedendo, appunto, una rivalutazione degli stessi, che invece al giudice di legittimità è preclusa.
È sufficiente rilevare, allora, in questa sede, quanto alle marche da bollo vendute od offerte all’utenza, che la ricostruzione dei fatti contenuta in sentenza si presenta del tutto lineare dal punto di vista logico, essendo altamente improbabili, e non sorrette da indiscutibili risultati probatori, le due alternativ astrattamente ipotizzabili: ovvero che l’imputato si facesse versare il relativo corrispettivo dagli utenti e, in modo del tutto gratuito e per puro spirito collaborativo, si recasse a comprare le marche per conto degli stessi; oppure, ipotesi ancor più improbabile, che egli se ne munisse preventivamente, anticipando di tasca propria la relativa spesa, per poi farsi rimborsare dagli eventuali utenti. La sentenza spiega a dovere l’assoluta improponibilità di tali ipotesi difensive (pagg. 14-16), debitamente confutando le generiche risultanze probatorie indicate dalla difesa pure in ricorso, nonché suggestivamente evidenziando come, andato via INDIRIZZO da quell’ufficio, il fenomeno sia praticamente finito.
Riguardo, poi, alle marche utilizzate dall’imputato per sé e per i propri familiari, la concludenza logica degli elementi valorizzati in sentenza, a cominciare dall’acquisto delle stesse in momenti e luoghi differenti, trova indiretta ma eloquente conferma nella diversità delle giustificazioni difensive sul punto: se in appello, infatti, quella circostanza era stata giustificata con un acquisto dilazionato nel tempo per ragioni economiche (pur trattandosi di una somma relativamente modesta, in quanto complessivamente inferiore a trecento euro), nel ricorso per cassazione, invece, s’ipotizza lo scambio involontario con altre marche presenti in ufficio, così disvelandosi la natura posticcia di tali allegazioni.
Anche il secondo motivo di ricorso, in tema di inutilizzabilità degli esiti della ricognizione fotografica e di conseguente nullità della sentenza, è inammissibile, poiché manifestamente destituito di fondamento giuridico.
Il riconoscimento fotografico è una prova cd. “atipica”, in quanto non specificamente regolamentata dal codice di rito, e, a norma degli artt. 189 e 191, dello stesso codice, la relativa utilizzabilità incontra i soli limiti dell’inidoneità assicurare l’accertamento dei fatti, del pregiudizio per la libertà morale dell’individuo e della contrarietà a specifici divieti normativi: ipotesi, queste, non ravvisabili nel caso specifico, non avendolo adombrato neppure la difesa.
Il rispetto delle prescrizioni previste per la ricognizione di persone (artt. 213214, cod. proc. pen.) può sicuramente offrire una maggiore garanzia di attendibilità del risultato probatorio, incidendo perciò sulla maggiore o minore valenza dimostrativa dello stesso, ma non può ostacolarne l’ingresso nel compendio valutabile dal giudice né, di conseguenza, compromettere la validità della sentenza.
Quanto, poi, alla rilevanza probatoria del riconoscimento effettuato nel caso di specie, la sentenza spiega espressamente perché si debba escludere l’eventualità del “complotto” ordito dagli autori dello stesso, od anche soltanto del reciproco condizionamento tra costoro, quantunque solamente involontario (pag. 15), e la motivazione non si presenta manifestamente illogica.
È fondato, invece, il terzo motivo di ricorso, in tema di violazione del divieto di “reformatio in peius” (art. 597, comma 3, cod. proc. pen.), in ragione della commisurazione degli aumenti di pena per continuazione in misura maggiore rispetto a quanto disposto, per gli stessi reati, dalla sentenza di primo grado.
In fatto, la deduzione difensiva è indiscussa, risultando dalla semplice lettura delle sentenze: il Tribunale, per 1.103 episodi di appropriazione, aveva applicato un complessivo aumento di pena per continuazione di due mesi di reclusione; la Corte d’appello, invece, per sette di quelle, quattro mesi di reclusione.
Il Procuratore generale, nella sua memoria, ha ritenuto infondata la doglianza, richiamando, a proprio sostegno, Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653, secondo cui non viola il divieto di “reformatio in peius” il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato, apporti per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore.
Tale precedente, tuttavia, non è conferente, poiché riguarda l’ipotesi in cui, all’esito del giudizio d’appello, muti la struttura del reato continuato, come accade
quando il “reato-satellite” divenga quello più grave oppure cambi la qualificazione giuridica del reato ritenuto più grave.
Nel caso in esame, invece, la struttura del reato continuato non è cambiata, se non per un dato puramente quantitativo, in conseguenza della riduzione degli episodi per i quali è stata pronunciata condanna, dovendo perciò trovare applicazione i seguenti princìpi di diritto:
nel giudizio di appello, il divieto di “reformatio in peius” della sentenza impugnata dall’imputato non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione (Sez. U, n. 40910 del 27/09/2005, NOME COGNOME, Rv. 232066);
l’accoglimento dell’impugnazione dell’imputato in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio impone la riduzione del medesimo, non potendo essere neutralizzato da improprie forme di “compensazione” con altro punto ad esso inerente, tuttavia non devoluto alla cognizione del giudice (Sez. U, n. 7578 del 17/12/2020, dep. 2021, Acquistapace, Rv. 280539);
tanto vale, in particolare, anche per gli aumenti di pena conseguenti al riconoscimento della continuazione (tra le tante, Sez. 2, n. 6043 del 16/12/2021, dep. 2022, Ackom, Rv. 282628).
Ne consegue che l’aumento di pena per continuazione disposto in appello dev’essere ridimensionato, potendovi provvedere direttamente questa Corte, sulla base dei criteri seguiti dal primo giudice, in quanto non censurati da impugnazione del Pubblico ministero e più favorevoli al reo. Pertanto, considerando che l’aumento di pena per continuazione non incontra il limite minimo legale, stabilito per la reclusione dall’art. 23, cod. pen., in quindici giorni (vds., tra molte altre, Sez. 3, n. 23961 del 04/03/2014, COGNOME, Rv. 259179), e visto il complessivo incremento di pena disposto in primo grado per oltre mille episodi, per i sette reati residui si stima equo applicare un solo giorno di reclusione.
La pena complessiva dev’essere, dunque, rideterminata in due anni, nove mesi ed un giorno di reclusione.
Inammissibile, infine, perché manifestamente infondato, oltre che volto ad ottenere un giudizio di merito, è il quarto motivo di ricorso, in punto di attenuanti generiche.
Il ricorrente fraintende la giurisprudenza per cui la valutazione da compiersi ai sensi dell’art. 323 -bis, cod. pen., debba riguardare il disvalore del fatto nella sua complessità: tanto significa, infatti, che, nella valutazione del singolo reato, debba aversi riguardo al danno criminale, vale a dire all’offesa complessiva e non solamente alle conseguenze economiche (profitto e danno). Anche tale attenuante speciale, dunque, in caso di una pluralità di reati avvinti per continuazione, non va
valutata in relazione alla complessiva attività criminale, ma a ciascuno dei reati commessi, non diversamente da quanto accade per le attenuati generiche.
Per altro verso, poi, va osservato come la sentenza abbia escluso l’esistenza di altri profili valutabili a favore dell’imputato, diversi da quello posto a fondamento dell’attenuante speciale, senza che il ricorso abbia replicato alcunché in proposito.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla misura della pena, che ridetermina in anni due, mesi nove e un giorno di reclusione.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.