Reformatio in Peius: Quando il Ricalcolo della Pena non Viola il Divieto
Il principio del divieto di reformatio in peius rappresenta una garanzia fondamentale per l’imputato nel processo penale: chi impugna una sentenza non può vedersi infliggere una condanna più severa. Tuttavia, la sua applicazione pratica può generare dubbi, specialmente quando cambiano le modalità di calcolo della pena. Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 5509/2024) fa luce su due aspetti cruciali: il ricalcolo della pena a seguito di un concordato in appello e la durata delle pene accessorie fisse.
I Fatti del Caso: Dalla Condanna al Ricorso in Cassazione
Due individui venivano condannati in primo grado dal Tribunale di Velletri per tre episodi di rapina. In sede di appello, gli imputati formulavano un’istanza di concordato, ovvero un accordo con la Procura Generale sulla pena, che veniva accolta dalla Corte di Appello di Roma.
Nonostante l’accordo, entrambi gli imputati decidevano di ricorrere in Cassazione, lamentando proprio una violazione del divieto di reformatio in peius. In particolare:
1.  Un imputato sosteneva che il suo pregiudizio derivasse da un errore nel ricalcolo della pena.
2.  L’altro imputato riteneva che la Corte d’Appello, nel confermare la sentenza “nel resto”, avesse commesso un lapsus, mantenendo inalterata la durata di una pena accessoria (l’interdizione dai pubblici uffici) che, a suo dire, avrebbe dovuto essere ridotta in proporzione alla pena principale.
Le Motivazioni della Corte di Cassazione sul divieto di reformatio in peius
La Suprema Corte ha dichiarato entrambi i ricorsi manifestamente infondati, fornendo chiarimenti importanti sull’applicazione del principio di reformatio in peius.
Nessuna Violazione del Divieto se la Pena Finale è Migliorativa
Per quanto riguarda il primo ricorso, i giudici hanno smontato l’argomentazione difensiva. Hanno evidenziato come sia contrario al senso comune pensare che, in un procedimento concluso con un concordato proposto dalle stesse parti, il trattamento sanzionatorio possa essere peggiorativo. 
La Corte ha chiarito che, dalla semplice lettura del provvedimento, la pena base (cinque anni di reclusione) era rimasta invariata rispetto al primo grado. Le riduzioni, frutto del concordato, avevano operato sugli aumenti di pena per i reati satellite (quelli unificati in continuazione), portando a un risultato finale più contenuto e quindi più favorevole per l’imputato. Un diverso meccanismo di calcolo non implica una violazione del divieto se la pena complessiva non risulta aggravata.
La Durata Fissa della Pena Accessoria: la prevalenza della norma speciale
Anche il secondo motivo di ricorso è stato respinto. L’imputato invocava l’articolo 37 del codice penale, secondo cui la durata di una pena accessoria, se non espressamente determinata, è uguale a quella della pena principale.
Tuttavia, la Cassazione ha sottolineato che questa è una regola generale, derogata da norme speciali. Nel caso specifico, veniva in rilievo l’articolo 29 del codice penale. Tale articolo stabilisce, in misura fissa, la durata dell’interdizione dai pubblici uffici in cinque anni per chi viene condannato a una pena detentiva compresa tra i tre e i cinque anni.
Questa disposizione speciale “sterilizza” la clausola generale dell’art. 37 c.p., poiché fissa una durata predeterminata per la pena accessoria, che prescinde dalla precisa entità della pena principale inflitta (purché rientri nel range previsto). Di conseguenza, la conferma della pena accessoria di cinque anni era corretta e non costituiva né un lapsus né una violazione del divieto di reformatio in peius.
Conclusioni
La sentenza in esame offre due importanti principi guida:
1.  Il divieto di reformatio in peius va valutato in concreto, guardando al risultato finale della pena. Un semplice cambiamento nelle modalità di calcolo che porta a un esito più favorevole per l’imputato non costituisce una violazione del principio.
2.  Nel sistema penale, le norme speciali prevalgono su quelle generali. La durata di alcune pene accessorie è fissata inderogabilmente dalla legge (come nel caso dell’art. 29 c.p.) e non segue automaticamente le variazioni della pena principale.
Questa decisione ribadisce la necessità di un’analisi attenta e completa delle norme applicabili, evitando interpretazioni parziali che potrebbero condurre a ricorsi infondati, come accaduto nel caso di specie, con conseguente condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria.
 
Che cos’è il divieto di reformatio in peius?
È il principio che impedisce al giudice di appello di peggiorare la condanna di un imputato quando è stato solo quest’ultimo a impugnare la sentenza.
Se la Corte d’Appello ricalcola la pena in modo diverso dal primo grado, c’è una violazione di tale divieto?
No, non necessariamente. Secondo la sentenza, se la pena base rimane la stessa e il nuovo calcolo porta a una pena complessiva più mite (ad esempio, riducendo gli aumenti per i reati connessi), non c’è alcuna violazione perché il trattamento finale è più favorevole per l’imputato.
Perché la durata della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici non è stata ridotta?
Perché l’articolo 29 del codice penale, che è una norma speciale, stabilisce una durata fissa di cinque anni per questa pena accessoria quando la condanna principale è tra i tre e i cinque anni di reclusione. Questa norma speciale prevale sulla regola generale (art. 37 c.p.) che lega la durata della pena accessoria a quella principale.
 
Testo del provvedimento
Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 5509 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2   Num. 5509  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 03/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME COGNOME nato il DATA_NASCITA
NOME nato a ROMA il DATA_NASCITA
awerso la sentenza del 20/01/2023 della CORTE di APPELLO di ROMA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il AVV_NOTAIO Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità dei ricorsi;
udito il difensore degli imputati che si riporta ai motivi;
RITENUTO IN FATTO
 NOME e NOME COGNOME, condannati con sentenza del Tribunale di Velletri del 18 novembre 2021 alle pene di giustizia per tre episodi di rapina ai danni di prostitute rom hanno formulato in sede di appello istanza di concordato che è stata assentita dal procurato generale ed accolta dalla Corte di appello di Roma.
 Entrambi gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione per violazioni del diviet reformatio in peius. Secondo NOME, il pregiudizio deriverebbe dalle erronee modalità di ricalcolo mentre per NOME ciò sarebbe conseguenza di un lapsus della sentenza che nel “confermare nel resto” ha incluso altresì la durata della pena accessoria che, al contra doveva essere parametrata alla pena principale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il motivo del ricorso presentato da NOME COGNOME è manifestamente infondato.
L’assunto difensivo secondo cui la pena sarebbe stata determinata per il reato più grave misura addirittura più grave che in primo grado è smentita, oltre che dal senso comune (i appello il procedimento si è concluso a seguito del concordato presentato dalle parti, interessate certamente ad un trattamento deteriore, che il giudice si è limitato a recepire), semplice lettura del provvedimento, dove si stabilisce appunto che la pena base rimane determinata in cinque anni di reclusione e € 930,00 di multa mentre le riduzioni operano ne fase successiva del calcolo della pena, vale a dire sull’entità degli aumenti (risult contenuti) per i reati unificati al primo ai fini della continuazione. Ulteriori profili di sentenza non vi sono, di tal che il ricorso va dichiarato inammissibile.
 Anche il motivo formulato da NOME, in relazione alla pena accessoria dell’interdizion dei pubblici uffici, è manifestamente infondato.
Si indica e si trascrive l’art.37 c.p. affermando la necessità che la pena accessori commisurata alla pena detentiva principale, ma si trascura l’art.29 c.p. (pure menzionato n dispositivo di primo grado) che dispone (in misura fissa) la pena dell’interdizione dai pub uffici per cinque anni, in caso di condanna a pena detentiva tra i tre ed i cinque anni. disposizione ‘sterilizza’ la clausola contenuta nell’art.37 c.p. (“Quando … la durata -del accessoria – non è espressamente determinata, la pena accessoria ha una durata eguale a quella della pena principale inflitta) poiché stabilisce, con disposizione speciale e prevalente, la pena accessoria nella misura fissa indicata nel dispositivo della sentenz primo grado e confermata in quella d’appello.
 All’inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la con dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di col nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della cassa del ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processua e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 3 novembre 2023
Il Conigliere relatore
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Il Pregdente