Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 24415 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 24415 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 11/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da COGNOME COGNOME nata ad Agropoli il 04/06/1991;
avverso la sentenza della Corte di appello di Salerno in data 12/11/2024
visti gli atti e la sentenza impugnata; esaminati i motivi del ricorso; dato avviso alle parti; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’appello di Salerno confermava la sentenza del GUP del Tribunale di Vallo della Lucania del 16/01/2024, che aveva condannato COGNOME Mara per il delitto di cui agli artt. 81 c.p., 7 d.l. 4/2019 d. lgs. 74/2000 alla pena di anni 1, mesi 4 e giorni 20 di reclusione.
Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sopravvenuta irrilevanza penale del fatto all’epoca di celebrazione del giudizio.
Il ricorso è inammissibile.
Con l’art. 1, co. 318, della l. 29 dicembre 2022, n. 197, è stata disposta, a decorrere dal 2024, l’abolizione del c.d. «reddito di cittadinanza». Si è quindi stabilito che, «a decorrere dal 1° gennaio 2024 gli articoli da 1 a 13 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, sono abrogati».
Oggetto dell’abrogazione è stato anche l’articolo 7, contenente la disciplina sanzionatoria per l’indebita percezione del sussidio, il cui comma 1 punisce con la reclusione da due a sei anni (salvo che il fatto costituisca più grave reato) «chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio…, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute».
Questa Corte ha avuto modo di chiarire (Sez. 3, n. 49047 del 16/11/2023, COGNOME n.m.; Sez. 3, n. 37836 del 18/04/2023, COGNOME, n.m.) che la condotta di cui all’articolo 7 si doveva ritenere penalmente sanzionata fino a quella data, a nulla ostando il disposto dell’art. 2, comma 2, cod. pen., atteso che ai fini della applicazione della legge penale deve farsi riferimento alla normativa vigente sia al momento del fatto che della celebrazione del giudizio, con conseguente rilievo penale delle condotte poste in essere anche nel periodo compreso tra il 1°gennaio 2023 e il 1° gennaio 2024.
Prima dell’indicata data di abolitio criminis , tuttavia, il legislatore è intervenuto per modificare la previsione di cui si discute, la quale, proprio con riguardo all’abrogazione anche delle disposizioni penali, era stata in dottrina ritenuta frutto di una mera «svista» (v. sul punto Se.z 3, n. ).
Ed infatti, il d.l. 4 maggio 2023 n. 48 (recante «misure urgenti per l’inclusione e l’accesso al mondo del lavoro”, convertito, con modificazioni, dalla l. 3 luglio 2023 n. 85) all’art. 8 prevede un’analoga fattispecie riferita al c.d. «assegno di inclusione», per la cui violazione è prevista la medesima pena; i due strumenti, connotati entrambi da funzione assistenziale, prevedono requisiti economici per la fruizione del contributo statale praticamente identici (in entrambi i casi l’ISEE del nucleo familiare non deve superare i 9.360 euro); tuttavia, la platea dei potenziali fruitori dell’Assegno di inclusione interesserà un gruppo più ristretto di cittadini. Per poter fruire dell’Assegno, infatti, i nuclei familiari devono avere, necessariamente, almeno: un minorenne; un disabile; una persona con almeno 60 anni di età; una persona in condizione di svantaggio e inserita in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati, mentre restano esclusi i c.d. «occupabili», ossia le persone in grado di lavorare, per i quali è prevista una differente misura, il c.d. «supporto per la formazione e il lavoro».
Il successivo articolo 13, comma 3, del d.l. (collocato tra le disposizioni transitorie e finali), statuisce che «al beneficio di cui all’articolo 1 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023».
Sul punto anche le Sezioni Unite hanno osservato che «l’art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, ha abrogato l’art. 7 dl. n. 4 del 2019, a decorrere, però, dal 1° gennaio
2024. Il legislatore, peraltro, nell’introdurre il c.d. «assegno di inclusione» (misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale destinata a sostituire integralmente il Rdc e definita dall’art. 1, comma 1, decreto legge 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, «quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro»), ha contestualmente ed espressamente previsto che al Rdc continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023 (Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Rv.285435 – 01, in motivazione).
È evidente, pertanto, che coordinandosi con la prevista abrogazione della disciplina del reddito di cittadinanza a far tempo dal 10 gennaio 2024, la sopravenuta disposizione – richiamata in motivazione anche dalla citata decisione delle Sezioni unite che ne ha sostanzialmente tratto analoghe conclusioni – fa salva l’applicazione delle sanzioni penali dalla stessa previste per i fatti commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina.
La norma transitoria, pertanto, assicura tutela penale all’erogazione del reddito di cittadinanza, in conformità ai presupposti previsti dalla legge, sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di tale beneficio, così coordinandosi con la sua prevista soppressione a far tempo dal 1° gennaio 2024 e con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 d.l. 48/2023, che, strutturata in termini del tutto identici e riferita agli analoghi benefici per il futuro introdotti in sostituzione del reddito di cittadinanza, continua a prevedere il medesimo disvalore penale delle condotte di mendacio e di omessa comunicazione volte all’ottenimento o al mantenimento delle nuove provvidenze economiche.
Costituisce quindi giurisprudenza consolidata quella seguita dalla Corte territoriale, secondo cui (v. da ultimo Sez. 3, n. 39155 del 24/09/2024, COGNOME, Rv. 286951 – 01; Sez. 3, n. 7541 del 24/01/2024, COGNOME, Rv. 285964 – 01) l’abrogazione, a far data dall’01/01/2024, del delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, disposta ex art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, nel far salva l’applicazione delle sanzioni penali dallo stesso previste per i fatti commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina, deroga al principio di retroattività della lex mitior , altrimenti conseguente ex art. 2, comma secondo, cod. pen., ma tale deroga, in quanto sorretta da una plausibile giustificazione, non presenta profili di irragionevolezza, assicurando la tutela penale all’indebita erogazione del reddito di cittadinanza sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di detto beneficio, posto che la sua prevista soppressione si coordina cronologicamente con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 d.l. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, riferita agli analoghi benefici per il futuro introdotti in sostituzione del reddito di cittadinanza.
4. Il motivo è quindi manifestamente infondato e non può che concludersi nel senso dell’inammissibilità del ricorso.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma l’11 aprile 2025.