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Reddito di cittadinanza: inammissibile ricorso per frode

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un individuo condannato per truffa aggravata ai danni dello Stato. L’imputato, beneficiario del reddito di cittadinanza, aveva omesso di comunicare all’ente preposto il proprio stato di custodia cautelare in carcere. Il ricorso è stato respinto perché i motivi erano scollegati dalla sentenza impugnata e sollevavano questioni non presentate nel precedente grado di giudizio, confermando così la condanna e la confisca di oltre 23.000 euro.

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Pubblicato il 26 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reddito di Cittadinanza e Obblighi: Condanna per Frode

La percezione del reddito di cittadinanza comporta una serie di obblighi di comunicazione la cui violazione può avere gravi conseguenze penali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio, dichiarando inammissibile il ricorso di un soggetto condannato per truffa aggravata per aver omesso di comunicare il proprio stato di detenzione. L’analisi della decisione offre spunti importanti sulla diligenza richiesta ai beneficiari di sussidi statali e sui limiti processuali dei ricorsi in Cassazione.

I fatti del caso

Un cittadino, dopo aver ottenuto il reddito di cittadinanza a seguito di una domanda presentata nel 2019, veniva successivamente sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere nel 2020. L’uomo ometteva di comunicare tale variazione della sua condizione personale all’ente erogatore, continuando a percepire indebitamente il beneficio. Tale omissione, secondo l’accusa, integrava i reati di cui all’art. 7 del d.l. 4/2019 e all’art. 640 bis del codice penale (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche). I giudici di primo grado e d’appello lo ritenevano responsabile, condannandolo alla pena di un anno e sei mesi di reclusione e ordinando la confisca dell’ingiusto profitto, quantificato in 23.672,50 euro.

I motivi del ricorso e il reddito di cittadinanza

L’imputato, tramite il suo difensore, proponeva ricorso per Cassazione basandosi su due motivi principali.

In primo luogo, lamentava un presunto deficit di motivazione da parte dei giudici di merito. La difesa sosteneva che la misura cautelare fosse successiva alla presentazione della domanda per il reddito di cittadinanza, tentando di creare confusione con la posizione del figlio, anch’esso sottoposto a misure restrittive in un diverso momento.

In secondo luogo, contestava la qualificazione giuridica del fatto, sostenendo che la condotta dovesse essere inquadrata nel reato meno grave di cui all’art. 316 ter c.p. (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato) anziché nella truffa aggravata (art. 640 bis c.p.), senza però argomentare in modo specifico le ragioni di tale riqualificazione.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso interamente inammissibile, smontando punto per punto le argomentazioni difensive.

Anzitutto, il primo motivo è stato giudicato “del tutto scollegato” con la motivazione della sentenza impugnata. I giudici hanno chiarito che l’imputazione non riguardava la situazione del figlio, ma l’omessa comunicazione dello stato di detenzione dell’imputato stesso. Il tentativo di confondere le due posizioni è stato quindi ritenuto irrilevante e non pertinente rispetto al nucleo dell’accusa.

Anche il secondo motivo è stato rigettato con nettezza. La Corte lo ha definito “generico”, poiché si limitava a richiamare una diversa norma senza spiegare perché i principi applicati dai giudici di merito fossero errati nel caso di specie. Inoltre, e in modo decisivo, la doglianza è stata ritenuta “tardiva”. La questione della riqualificazione del reato, infatti, non era mai stata sollevata nei motivi d’appello. La Cassazione ha richiamato il consolidato principio processuale secondo cui non possono essere dedotte per la prima volta in sede di legittimità questioni che non siano state prospettate nei precedenti gradi di giudizio, a meno che non siano rilevabili d’ufficio.

Conclusioni

La sentenza rafforza due importanti principi. Sul piano sostanziale, ribadisce la serietà degli obblighi di trasparenza e comunicazione che gravano sui percettori di benefici pubblici come il reddito di cittadinanza. L’omissione di informazioni rilevanti, come lo stato di detenzione, integra una condotta fraudolenta sanzionata penalmente. Sul piano processuale, la decisione evidenzia il rigore con cui la Corte di Cassazione valuta l’ammissibilità dei ricorsi: i motivi devono essere pertinenti, specifici e non possono introdurre per la prima volta questioni che avrebbero dovuto essere discusse in appello. Un ricorso basato su argomenti pretestuosi o tardivi è destinato a un inevitabile rigetto.

È obbligatorio comunicare all’ente erogatore il proprio stato di detenzione se si percepisce il reddito di cittadinanza?
Sì, la sentenza conferma che l’omessa comunicazione della sottoposizione a una misura cautelare come la custodia in carcere costituisce un reato, in quanto tale condizione è incompatibile con il beneficio.

Perché il ricorso dell’imputato è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per due ragioni principali: il primo motivo era basato su argomentazioni scollegate e non pertinenti rispetto alla motivazione della sentenza impugnata, mentre il secondo motivo era generico e tardivo, poiché sollevava una questione (la riqualificazione del reato) non proposta nel precedente grado di appello.

È possibile contestare per la prima volta in Cassazione la qualificazione giuridica di un reato?
No, di regola non è possibile. La Corte ha ribadito che, salvo i casi di questioni rilevabili d’ufficio, non si possono dedurre in Cassazione questioni non prospettate nei motivi di appello, poiché ciò violerebbe i principi del processo e le funzioni della Corte di legittimità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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