Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 20923 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 20923 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 30/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nata a Milazzo il 11/01/1981
avverso la sentenza del 20/05/2024 della Corte di appello di Messina
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendola declaratoria di inammissibilità del ricorso;
udita per l’imputato l’avv. NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il proscioglimento della ricorrente o, in subordine, l’annullamento con rinvio per nuovo esame.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 20/05/2024, la Corte di appello di Messina confermava la sentenza emessa in data 20/06/2023 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con la quale NOME era stata dichiarata responsabile dei reati di cui all’art. 7 comma 1 d.l. 4/2019 (capo D dell’imputazione-in esso assorbiti i reati di cui ai capi C ed E- e capo G dell’imputazione – in esso assorbito il reato di cui al capo F) e condannata alla pena di mesi undici e giorni dieci di reclusione, con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOMECOGNOME a mezzo del difensore di fiducia, articolando quattro motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo lamenta l’esercizio da parte del Giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri.
Espone che la ricorrente veniva condannata per il reato di cui all’art. 7, comma 1, di 4/2019 per un fatto non costituente reato, essendo la fattispecie di reato abrogata al momento della conferma della condanna in appello; l’appello era pendente alla data di abrogazione della norma penale di riferimento (art. 7 di. 4/2019) e gli effetti sanzionatori, come sostenuto invece dai Giudici di appello, non potevano essere estesi e salvati in forza della normativa sull’assegno di inclusione che è fattispecie diversa ed entrata in vigore il 24/1/2024, dopo la cessazione di efficacia della normativa sul reddito di cittadinanza abrogata a far data dal 01/01/2024 senza soluzione di continuità; solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 3, d.l. n. 48/2023 per violazione degli artt. 3 e 25 della Costituzione.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 7 d.l. 4/2019 e vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato.
Lamenta che la Corte di appello aveva confermato l’affermazione di responsabilità per il reato di cui all’art. 7 d.l. 4/2019, difettando il dolo specifi senza tener conto del principio di offensività concreta e delle indicazioni espresse dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 49686/2023.
Con il terzo motivo deduce violazione della norma processuale di cui all’art. 597, comma 3, cod.proc.pen., lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto che ricondurre il fatto contestato al capo E) nell’ambito dell’illecito amministrativo di cui all’art. 316 ter comma 2 cod.pen. avrebbe implicato una
riforma della sentenza sfavorevole per l’imputato; eccepisce, poi, la prescrizione dei reati di cui ai capi C) ed F).
Con il quarto motivo deduce erronea applicazione del concetto di tenuità del fatto ex art. 131-bis cod.pen., rinviando alle motivazioni di cui al quarto motivo di appello e deducendo che non ricorre il presupposto dell’abitualità del comportamento.
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
Il PG ha depositato requisitoria scritta. La difesa della ricorrente ha depositato memoria di replica ex art. 611 cod.proc.pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato. Come già affermato da questa Corte (cfr. Sez.3 n. 7541 del 24/01/2024, Rv. 285964 – 01; Sez. 3 n. 37836 del 18/04/2023 e Sez.3, n.49047 del 2023, non massimate), nel quadro di una più articolata riforma volta, in un primo tempo, ad un ridimensionamento – attuato tramite altre disposizioni contenute nella medesima legge – e, quindi, alla rimozione, in un arco temporale più ampio, della disciplina di cui al d.l. n. 4 del 2019 e successive modificazioni, l’art. 1, comma 318, L. n. 197 del 2022 ha disposto, fra l’altro, l’abrogazione degli artt. da 1 a 13 del citato d.l. n. 4 del 2019, e, quindi, non essendo esso elencato fra le disposizioni espressamente escluse dall’efficacia della abrogazione, anche dell’art. 7 del detto provvedimento normativo, contenente le disposizioni di carattere penale intese a sanzionare chi abbia indebitamente conseguito il beneficio economico previsto dalla medesima legge. Tuttavia, per espressa previsione di legge, l’efficacia di tale effetto abrogativo è stata fissata dal legislatore alla data del 1 gennaio 2024. Pertanto, sebbene la n. 197 del 2022 sia entrata in vigore, anche per quanto attiene al ricordato comma 318, già alla data del 1 gennaio 2023, la concreta efficacia dell’effetto abrogativo previsto dalla disposizione in esame deve intendersi sospesa sino alla diversa data del 1 gennaio 2024, con la conseguente perdurante applicazione, trattandosi di disposizione ancora in vigore, del citato art. 7 e degli effetti penali da esso previsti; sicché, al momento della pronuncia impugnata, il reato ascritto all’imputato non poteva certamente dirsi abrogato. Va, quindi, ribadito il corretto principio, già affermato da questa Corte e con cui il ricorrente non si confronta, secondo il quale non può riconoscersi effetti, prima del termine di efficacia indicato, all’abrogazione della fattispecie incriminatrice a far tempo dal 10 gennaio 2024 prevista dall’art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197 (Sez. 3, n. 39205 del 20/06/2023, Fasulo, Rv. 285140). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Inoltre, prima dell’indicata data, il legislatore è intervenuto per modificare la previsione di cui si discute, la quale, proprio con riguardo all’abrogazione anche delle disposizioni penali, era stata in dottrina ritenuta frutto di una mera “svista”
Successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, è stato emanato il di. 4 maggio 2023 n. 48, recante “misure urgenti per l’inclusione e l’accesso al mondo del lavoro”, conv., con modiff., dalla I. 3 luglio 2023 n. 85. Dopo aver riproposto, all’art. 8, commi 1 e 2, previsioni incriminatrici per le false od omesse comunicazioni concernenti l’ottenimento o il mantenimento dei nuovi benefici economici previsti dagli artt. 3 e 12 della legge, previsioni sostanzialmente identiche a quelle già contenute nell’art. 7, commi 1 e 2, d.l. 4/2019 con riguardo al reddito di cittadinanza, l’art. 13, comma 3, d.l. 48/2023, collocato tra l disposizioni transitorie e finali, statuisce che «al beneficio di cui all’articolo 1 decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 7 del medesimo decreto-legge, vigenti alla data in cui il beneficio è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023».
Sul punto anche le Sezioni Unite hanno osservato che “L’art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, ha abrogato l’art. 7 dl. n. 4 del 2019, a decorrere, però, dal 1 gennaio 2024. Il legislatore, peraltro, nell’introdurre il cd. «assegno di inclusione» (misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale destinata a sostituire integralmente il Rdc e definita dall’art. 1, comma 1, decretolegge 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, «quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonché di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro»), ha contestualmente ed espressamente previsto che al Rdc continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 7 di. n. 4 del 2019 vigenti alla data in cui il benef è stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023 (Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Rv.285435 – 01, in motivazione).
E’ evidente, pertanto, che coordinandosi con la prevista abrogazione della disciplina del reddito di cittadinanza a far tempo dal 10 gennaio 2024, la sopravenuta disposizione – richiamata in motivazione anche dalla citata decisione delle Sezioni unite che ne ha sostanzialmente tratto analoghe conclusioni – fa salva l’applicazione delle sanzioni penali dalla stessa previste per i fatti commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina. La previsione sostanzialmente deroga al principio di retroattività della lex mitior altrimenti conseguente, ex art. 2, comma 2, cod. pen., alla prevista abrogazione dell’art. 7 d.l. 4/2019, ma questa deroga – che, come noto, sul piano del rispetto delle garanzie costituzionali è suscettibile d’essere valutata esclusivamente con riguardo di principi ricavabili
dall’art. 3 Cost. e, ove non contrasto con questi, è altresì rispettosa della disciplina ricavabile dalle convenzioni internazionali (cfr., per tutte, Corte cost., sent. n. 236 del 22 luglio 2011) – non presta il fianco a censure, essendo indubbiamente sorretta da una del tutto ragionevole giustificazione. Ed invero, essa semplicemente assicura tutela penale all’erogazione del reddito di cittadinanza, in conformità ai presupposti previsti dalla legge, sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di tale beneficio, così coordinandosi con la sua prevista soppressione a far tempo dal 10 gennaio 2024 e con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 di. 48/2023, che, strutturata in termini del tutto identici e riferita analoghi benefici per il futuro introdotti in sostituzione del reddito di cittadinanza continua a prevedere il medesimo disvalore penale delle condotte di mendacio e di omessa comunicazione volte all’ottenimento o al mantenimento delle nuove provvidenze economiche.
Dalle suesposte argomentazioni discende anche la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.
Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
I Giudici di appello, con argomentazioni congrue ed aderenti alle risultanze istruttorie, condividendo le valutazioni del primo giudice, hanno ritenuto integrato il reato contestando sulla base della documentazione in atti, comprovante che l’imputata aveva omesso di indicare, nelle domande presentate per l’erogazione del beneficio in data 26.2.2021, 29.3.2021 e 5.7.2021, quale componente del proprio nucleo familiare, il convivente more uxorio e, conseguentemente, i redditi percepiti da questi, e ciò, al fine di ottenere indebitamente l’erogazione del reddito di cittadinanza.
Ha, quindi, correttamente ritenuto sussistente il reato contestato, in linea con il dictum delle Sezioni Unite, secondo cui integrano il delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il benefico se funzionali a ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge (Sez.U, n. 49686 del 13/07/2023, Rv.285435 – 01).
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile.
La sentenza di primo grado, confermata dal giudice d’appello, ha ritenuto l’assorbimento del reato del capo E) in quello di cui al capo D) per cui è intervenuta condanna. I Giudici di merito, quindi, non hanno adottato alcuna statuizione pregiudizievole per l’imputata in ordine al reato di cui al capo E). Ne, quindi, consegue la assoluta carenza di interesse ad impugnare tale profilo della sentenza.
La sussistenza dell’interesse ad impugnare va, infatti, valutata con riferim non ad uno specifico risultato bensì all’ottenimento di un risultato più favore al proponente: tale interesse deve essere, quindi, concreto, sicchè esso non si riscontrare quando si risolva in una mera pretesa, teorica ed astratta, all’esa della decisione o, comunque, sia tale da non condurre ad alcuna modifica degl effetti del provvedimento, (Sez. U, n.10372 del 27/09/1995, Rv.202269; Sez.1,n.9531 del 22/03/1999, Rv.215126; Sez.5, n.27917 del 06/05/2009, Rv.244207; Sez.3, n.23485 del 07/03/2014, Rv.260082).
La Corte territoriale, nel valutare la richiesta ex art 131 bis cod.pen., ha denegato la configurabilità della causa di esclusione della punibilità, rimarcand gravità del fatto, sulla base di una valutazione in senso negativo delle mod della condotta, e dando rilievo ostativo anche all’entità della somma di den indebitamente percepita.
Manifestamente infondata è, poi, l’eccezione di prescrizione dei rea trattandosi di delitti commessi in data 26.2.2021 e 5.7.2021. Va ricordato l’art. 159, comma 2, cod. pen., così come riformulato dall’art. 1, comma 1 let n, 1, legge n.3/2019 (c.d. «legge Bonafede»), aveva introdotto, a decorrere da gennaio 2020, la previsione per cui il corso della prescrizione rimane sospeso da pronunzia della sentenza di primo grado, o dal decreto di condanna, fino alla d di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o alla irrevocabilità del di condanna. Il citato art. 159, comma 2, cod. pen. è stato abrogato dall’a comma 1, lett. a), legge n.134/2021, che ha contestualmente introdotto l’art. bis cod. pen., a norma del quale il corso della prescrizione cessa definitivame con la pronuncia della sentenza di primo grado. La stessa legge ha introdotto, i reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020 (ai sensi dell’art.2 comma 3), l’art. 344 bis cod. proc. pen., l’improcedibilità dell’azione penale in caso di mancat definizione del giudizio di appello e di cassazione entro il termine, rispettivam di due anni e di un anno, decorrenti dal novantesimo giorno successivo al scadenza del termine previsto dall’art.544 cod. proc. pen., (nella sp l’improcedibilità opererebbe in data 8/12/2025), eventualmente prorogato ai sen dell’art. 154 disp. att. cod. proc. pen.; termini prorogabili con ordinanza n previsti dall’art. 344 bis, comma 4, cod. proc. pen. 4. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Le argomentazioni sono congrue e non manifestamente illogiche e la motivazione, pertanto, si sottrae al sindacato di legittimità.
Del resto, questa Corte ha affermato che, ai fini dell’applicabilità della di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’a bis cod. pen., il giudizio sulla tenuità dell’offesa dev’essere effettu riferimento ai criteri di cui all’art. 133, comma primo, cod. pen., ma n
necessaria la disamina di tutti gli elementi di valutazione previsti, essendo sufficiente l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti (Sez 6-n.55107 del 08/11/2018,
Rv.274647 – 01).
5. Consegue, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
6. Essendo il ricorso inammissibile e, in base al disposto dell’art. 616 cod.
proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della
ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura, ritenuta equa, indicata in
dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende
Così deciso il 30/04/2025