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Reddito di cittadinanza: condanna e revoca del sussidio

La Corte di Cassazione conferma la condanna per indebita percezione del reddito di cittadinanza a un soggetto che aveva omesso di dichiarare una condanna definitiva per reati di stampo mafioso. La Corte ribadisce la legittimità dei requisiti morali, come l’assenza di condanne per reati ostativi negli ultimi dieci anni, quale presupposto inderogabile per l’accesso al beneficio.

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Pubblicato il 26 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reddito di cittadinanza: Condanna Definitiva e Perdita del Beneficio

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 27663 del 2025, si è pronunciata su un caso emblematico riguardante la revoca del reddito di cittadinanza a seguito di una condanna per reati gravi. La decisione ribadisce la fermezza dei requisiti di onorabilità morale richiesti dalla legge per accedere al sussidio, confermando che l’omessa comunicazione di condanne per reati ostativi costituisce un illecito.

I Fatti del Caso

Un individuo veniva condannato in primo grado e in appello per aver percepito indebitamente il reddito di cittadinanza per diversi mesi. Al momento della domanda, l’uomo aveva omesso di comunicare all’INPS informazioni cruciali: una condanna divenuta definitiva per reati di associazione mafiosa, estorsione e usura, e la sua sottoposizione al regime di detenzione domiciliare. Tali omissioni gli avevano permesso di ottenere un beneficio a cui non aveva diritto.

La difesa del condannato ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando dubbi sulla costituzionalità della norma che impone un’attesa di dieci anni dalla condanna per reati ostativi, anche per chi ha collaborato con la giustizia.

Requisiti per il Reddito di Cittadinanza e Reati Ostativi

La legge istitutiva del reddito di cittadinanza (d.l. n. 4 del 2019) stabiliva una serie di requisiti stringenti per poter accedere al beneficio. Tra questi, spiccavano quelli di natura morale e di onorabilità, volti a escludere soggetti ritenuti socialmente pericolosi. In particolare, la normativa prevedeva:

* L’assenza di sottoposizione a misure cautelari personali.
* L’assenza di condanne definitive, nei dieci anni precedenti la richiesta, per una serie di reati di particolare allarme sociale (i cosiddetti ‘reati ostativi’), tra cui associazione di tipo mafioso, terrorismo, estorsione e altri gravi delitti.

Questi paletti normativi, come ricordato dalla stessa Corte Costituzionale in diverse pronunce, sono stati considerati pienamente legittimi, in quanto mirano a garantire che il sostegno statale sia destinato a soggetti che rispettino i principi fondamentali della convivenza civile.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso manifestamente infondato, confermando la condanna del ricorrente. Gli Ermellini hanno smontato le argomentazioni difensive punto per punto, riaffermando la piena validità e coerenza del quadro normativo.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su diversi pilastri giuridici. In primo luogo, i giudici hanno ribadito che i requisiti di onorabilità non sono un dettaglio formale, ma il cuore della misura. La mancanza di condanne per reati ostativi è una condizione essenziale per accedere e mantenere il sussidio. La Corte Costituzionale ha più volte avallato questa impostazione, definendola non irragionevole né sproporzionata.

In secondo luogo, la Cassazione ha respinto la tesi difensiva secondo cui l’abrogazione della norma incriminatrice specifica (art. 7 d.l. n. 4 del 2019) a partire dal 1° gennaio 2024 avrebbe comportato una abolitio criminis. I giudici hanno chiarito che non si tratta di una depenalizzazione del fatto, ma di una successione di leggi nel tempo, che non cancella l’illiceità delle condotte commesse quando la norma era in vigore.

Infine, è stata respinta la questione di legittimità costituzionale. La Corte ha ritenuto non irragionevole la scelta del legislatore di imporre un periodo di ‘decantazione’ di dieci anni dalla condanna, senza distinguere tra chi ha collaborato con la giustizia e chi no. Questa scelta rientra nella discrezionalità del legislatore nel definire i criteri di accesso alle prestazioni sociali.

Le Conclusioni

La sentenza consolida un principio fondamentale: i benefici sociali come il reddito di cittadinanza sono legati non solo a uno stato di bisogno economico, ma anche al rispetto di requisiti di onorabilità morale. Una condanna definitiva per reati di grave allarme sociale rappresenta una barriera insormontabile per l’accesso al sussidio per un periodo di dieci anni. La decisione sottolinea che l’omissione di tali informazioni è un comportamento illecito che porta a conseguenze penali, riaffermando la logica e la coerenza di un impianto normativo che lega il sostegno pubblico alla condotta legale e morale del cittadino.

Una condanna definitiva per associazione mafiosa impedisce di ricevere il reddito di cittadinanza?
Sì. La legge che istituiva il beneficio prevedeva espressamente che l’assenza di condanne definitive per reati gravi, come quelli di mafia, nei dieci anni precedenti la domanda, fosse un requisito indispensabile per ottenere il sussidio.

Se la legge che punisce l’indebita percezione del reddito di cittadinanza viene abrogata, il reato commesso in precedenza viene cancellato?
No. La Corte di Cassazione ha specificato che la formale abrogazione della norma incriminatrice non costituisce una ‘abolitio criminis’, ovvero una decriminalizzazione del fatto. Pertanto, le condotte illecite commesse quando la legge era in vigore restano pienamente punibili.

Aver collaborato con la giustizia permette di ottenere il reddito di cittadinanza prima che siano passati dieci anni dalla condanna per un reato ostativo?
No. Secondo quanto emerge dalla sentenza, il requisito temporale dei dieci anni dalla condanna definitiva per un reato ostativo è inderogabile e non prevede eccezioni per chi abbia intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia. La Corte ha ritenuto questa scelta del legislatore non incostituzionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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