Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 46543 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 46543 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Gela (CI) il 1°/11/1971
avverso la sentenza del 2/10/2023 della Corte di appello di Caltanissetta; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procurato generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibile il ricorso lette le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. NOME COGNOME ch chiesto, anche con memoria, l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 2/10/2023, la Corte di appello di Caltanissett confermava la pronuncia emessa il 20/9/2022 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Gela, con la quale NOME COGNOME era stato ritenu colpevole del reato di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen., 7, d.l. 28 gennaio 20 4, convertito, con modificazioni, dalla I. 28 marzo 2019, n. 26, e condannato a pena un anno e sei mesi di reclusione.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, contestando, innanzitutto, che la sentenza non avrebbe motivato quanto alla questione prospettata dalla difesa (e fatta propria dalla Corte con ordinanza interlocutoria) circa l’abrogazione del reato a muover dal 1°/1/2024. Ancora, si censura la motivazione con riguardo all’avvenuta presentazione della domanda di reddito di cittadinanza tramite un Caf, circostanza negata in sentenza senza disporre i necessari accertamenti. Infine, quanto all’entità della pena, il ricorso evidenzia che la data di commissione del reato – quanto alla prima annualità – sarebbe da fissare al 21/3/2019, ossia in epoca anteriore alle modifiche apportate alla norma ed indicate nel capo di imputazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso risulta fondato limitatamente all’ultima doglianza.
Con riguardo al primo motivo, il Collegio osserva che lo stesso non costituisce un’effettiva censura alla sentenza impugnata, non contestando la mancata risposta ad un’istanza o ad un’eccezione, ma limitandosi ad affermare che la Corte – dopo un iniziale rinvio in vista di una possibile abrogazione del reato – aveva comunque definito il processo all’udienza del 2/10/2023. Nessuna violazione dell’art. 125, comma 3, cod. proc. pen., dunque, può essere riscontrata.
4.1. A ciò si aggiunga, in ogni caso, che la costante giurisprudenza di questa Corte afferma che l’abrogazione, a far data dall’01/01/2024, del delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, disposta ex art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, nel far salva l’applicazione delle sanzioni penali dallo stesso previste per i fatti commessi sino al termine finale di efficacia della relativa disciplina, deroga al principio di retroattività della “lex mitior”, altrimenti conseguente ex art. 2, comma secondo, cod. pen., ma tale deroga, in quanto sorretta da una plausibile giustificazione, non presenta profili di irragionevolezza, assicurando la tutela penale all’indebita erogazione del reddito di cittadinanza sin tanto che sarà possibile continuare a fruire di detto beneficio, posto che la sua prevista soppressione si coordina cronologicamente con la nuova incriminazione di cui all’art. 8 d.l. 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, riferita agli analoghi benefici per il futuro introdotti sostituzione del reddito di cittadinanza (per tutte, Sez. 3, n. 7541 del 24/1/2024, Picciano, Rv. 285964).
Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
5.1. In particolare, la sentenza ha preso in esame la tesi difensiva secondo cui le varie domande di reddito di cittadinanza sarebbero state proposte non
personalmente dal ricorrente, ma tramite un Caf; ebbene, con argomento del tutto solido e privo di illogicità manifesta, dunque non censurabile, la Corte di appello ha sottolineato che tale circostanza, per un verso, era priva di riscontro e riferita in termini del tutto generici (senza neppure l’indicazione di tale ipotetico centro), e, per altro verso, quand’anche accertata, non avrebbe escluso la responsabilità penale, in quanto gli operatori si sarebbero limitati ad inserire nella domanda i dati forniti dall’interessato. Ancora, del tutto infondato risulta il richiamo ad eventual poteri officiosi che il Giudice avrebbe potuto attivare, atteso che, a tal fine, l’imputato avrebbe dovuto fornire almeno un principio di prova, specie dopo aver scelto di essere giudicato con rito abbreviato. Infine, e con profilo che il ricorso non affronta, la sentenza ha poi richiamato i numerosi e gravi precedenti penali riferibili al COGNOME, così evidenziando che lo stesso doveva per certo ritenersi consapevole di non possedere i requisiti soggettivi per accedere al beneficio economico.
L’affermazione di responsabilità, dunque, non può essere censurata, ed i motivi di ricorso sollevati al riguardo sono inammissibili.
Con riguardo, invece, all’ultima doglianza (poi ribadita con memoria), l’impugnazione risulta fondata.
7.1. Il reato in esame è stato introdotto dal d.l. 28 gennaio 2019, n. 7, il cui art. 7, comma 3, prevedeva che “Alla condanna in via definitiva per i reati di cui ai commi 1 e 2 e per quello previsto dall’articolo 640-bis del codice penale, nonché alla sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti per gli stessi reati, consegue di diritto l’immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva e il beneficiario è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente percepito. La revoca è disposta dall’INPS ai sensi del comma 10. Il beneficio non può essere nuovamente richiesto prima che siano decorsi dieci anni dalla condanna.”
7.2. Lo stesso comma è stato poi modificato – in sede di conversione, dalla I. 28 marzo 2019, n. 26, in vigore dal 30/3/2019 – con l’inserimento, tra i reati ai quali consegue di diritto la revoca del beneficio, di quelli “previsti dagli articoli 270 bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter, 422 e 640-bis del codice penale, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo”.
7.3. Ne consegue che, alla data di presentazione della prima domanda per l’ottenimento del reddito, ossia il 21/3/2019, la norma non prevedeva l’obbligo di dichiarare eventuali condanne definitive con riguardo al delitto di cui all’art. 416bis cod. pen., come quella che aveva colpito lo stesso COGNOME (n. 46/2016, emessa dal Tribunale di Caltanissetta, irrevocabile il 16/3/2016); in ordine a
questa condotta, pertanto, la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non era previsto dalla legge come reato.
7.4. Quanto poi al trattamento sanzionatorio con riguardo alla seconda domanda presentata, quella del 2/10/2020, lo stesso può essere rideterminato da questa Corte ai sensi dell’art. 620, lett. I), cod. proc. pen.: rimuovendo l’aumento operato a titolo di continuazione, infatti, la pena base è individuata nei termini fissati dai giudici di merito, ossia in 2 anni di reclusione, ridotta per il r abbreviato ad 1 anno e 4 mesi di reclusione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condotta del 21/3/2019 perché il fatto non è previsto dalla legge come reato e, per l’effetto, ridetermina la pena per il residuo reato del 2/10/2020 in un anno e quattro mesi di reclusione. Dichiara il ricorso inammissibile nel resto.
Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2024
Il GLYPH igliere estensore
Il Presidente