Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 13345 Anno 2025
In nome del Popolo Italiano
Penale Sent. Sez. 2 Num. 13345 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 05/03/2025
SECONDA SEZIONE PENALE
– Presidente –
COGNOME IMPERIALI NOME
R.G.N. 41733/2024
NOME COGNOME
SENTENZA
NOME COGNOME nata in Repubblica Dominicana il giorno 2.1.1989 (CUI: 04CMMC8) rappresentata ed assistita dall’avv. NOME COGNOME di fiducia; avverso la sentenza in data 8/7/2024 della Corte di Appello di Genova visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
preso atto che non e stata richiesta dalle parti la trattazione orale del procedimento; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME COGNOME
letta la requisitoria scritta con la quale il Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 7, primo comma, del d.l. n. 4/2019 con rinvio alla Corte di appello di Genova per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio in relazione al reato di cui all’art. 640 cod. pen. e dichiararsi l’inammissibilità del ricorso nel resto.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 8 luglio 2024 la Corte di Appello di Genova, in riforma della sentenza emessa all’esito di giudizio abbreviato dal Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale della medesima città, appellata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Genova, ha dichiarato l’imputata responsabile del reato di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4/2019 (convertito nella l. n. 26/2019) (capo A delle rubrica delle imputazioni), nonchØ del reato di cui all’art. 640, comma 2, n. 1 cod. pen. così qualificato il reato di cui agli artt. 640 e 640-bis cod. pen. (capo B) e ritenuta la continuazione tra i reati e riconosciute le circostanze attenuanti generiche, l’ha condannata a pena ritenuta di giustizia.
In estrema sintesi, si contesta all’imputata, al fine di ottenere indebitamente il beneficio, di avere falsamente dichiarato nella domanda di reddito di cittadinanza, di avere risieduto in Italia per almeno 10 anni mentre risultava avere fatto ingresso nel Paese solo in data 26 luglio 2011 (capo A) e di avere, per effetto della condotta descritta tratto in errore i soggetti preposti alla verifica dei requisiti per ottenere il beneficio, cosi conseguendo l’ingiusto profitto di euro 7.309,15 pari all’importo dei
contributi erogati alla stessa dall’INPS (capo B).
Il reato di cui al capo A Ł contestato come commesso in data 23 ottobre 2020, mentre quello di cui al capo B dal 19 novembre 2020 al 20 settembre 2021.
Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputata, deducendo:
2.1. contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per mancanza del dolo specifico.
Rileva la difesa della ricorrente che l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4/2019 richiede per la configurazione del reato la sussistenza del dolo specifico.
Segnala peraltro parte ricorrente:
a) che l’imputata al fine di conseguire il beneficio de qua si era rivolta al CAF per la predisposizione della relativa domanda, facendo quindi affidamento sulla competenza del professionista che ebbe ad assisterla;
non Ł provato che l’imputata fosse a conoscenza della normativa in materia;
l’imputata in occasione della presentazione della domanda (23 ottobre 2020) ebbe ad esibire la propria carta di identità rilasciata il 30 aprile 2018 a dimostrazione della propria buona fede e della collegata mala gestio della pratica da parte del CAF.
A ciò si aggiunge – prosegue la difesa della ricorrente – che l’INPS aveva il dovere di verificare i requisiti per il riconoscimento all’imputata del richiesto beneficio e quindi la possibilità di rendersi agevolmente conto dell’erroneità di quanto comunicato dall’interessata e che, comunque si trattava di una falsità immediatamente verificabile.
2.2. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. per difetto degli elementi oggettivi del reato di cui all’art. 640 cod. pen. e per ‘erroneo concorso ed assorbimento di norme’.
Rileva al riguardo la difesa della ricorrente che tra i due reati in contestazione vi sarebbe un rapporto di specialità con conseguente assorbimento nel piø grave reato di cui all’art. 7 del d.l. n. 4/2019 di ogni altra norma e che comunque non si potrebbe far ricadere la penale responsabilità sull’imputata solo perchØ l’INPS non ha avuto la possibilità di effettuare i doverosi controlli nei tempi imposti dalla legge, soprattutto nel caso in cui la falsità della dichiarazione era agevolmente ricavabile attraverso un semplice controllo anagrafico.
La contestazione della violazione del citato art. 7 si porrebbe, poi, in contrasto con la sentenza della Corte di Giustizia Europea, Grande Sezione, del 29 luglio 2024 pronunciata in materia di reddito di cittadinanza che sostanzialmente impone la rivisitazione del requisito della residenza decennale, risolvendo il contrasto tra la normativa europea e quella nazionale a favore della prima.
2.3. Violazione di legge e vizi di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. in relazione all’eccessività del trattamento sanzionatorio irrogato per effetto della ritenuta continuazione tra i reati.
Si duole, al riguardo, la difesa della ricorrente che la Corte di appello nello stabilire l’aumento sanzionatorio per effetto della riconosciuta continuazione tra i reati non ha tenuto in debito conto i parametri di cui all’art. 133 cod. pen. e, in particolare, della reale gravità del reato commesso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Ritiene la Corte di dover procedere in via prioritaria all’esame del secondo motivo di ricorso con particolare riguardo agli effetti nel caso in esame della richiamata sentenza della Corte di giustizia europea – Grande Sezione – del 29 luglio 2024 (cause C112/22 e C223/22) pronunciata all’esito di rinvvi pregiudiziali nell’ambito di procedimenti penali promossi per il reato di false dichiarazioni
relative ai requisiti di accesso al «reddito di cittadinanza».
Deve, innanzitutto, rilevarsi che la questione relativa all’eventuale rilevanza della decisione della CGUE per la soluzione del caso qui in esame non poteva essere sottoposta dalla difesa dell’odierna ricorrente in sede di gravame innanzi alla Corte di appello perchØ il giudizio di secondo grado si Ł svolto e concluso in epoca precedente rispetto a detta pronuncia.
La menzionata sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024 ha, in particolare, riguardato il requisito di residenza decennale per accedere al beneficio dell’erogazione del reddito di cittadinanza richiesto ai cittadini di Paesi terzi (extra UE), titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, e l’eventuale (in)compatibilità della normativa italiana con l’art. 11, par.1, lettera d) della Direttiva 2003/109/CE.
Come Ł noto l’art. 2 del d.l. n. 4/2019 (convertito nella l. n. 26/2019), vigente all’epoca dei fatti di cui Ł processo, prevedeva per avere accesso al ‘Reddito di cittadinanza’ la presenza di altri requisiti (oltre a quelli reddituali), quali quelli di «essere in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell’Unione europea … ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», nonchØ «residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, in modo continuativo».
Fatto sta che, come risulta dalle cronache quotidiane, molti stranieri – talvolta perchØ indotti da erronee informazioni fornite dai patronati, talaltra per incomprensione della normativa, talaltra ancora per consapevole volontà di aggirare il requisito – hanno presentato domanda di accesso al ‘Reddito di cittadinanza’ pur in assenza del requisito decennale, rilasciando la relativa autocertificazione ai sensi del d.p.r. n. 445/2000 e, come nel caso qui in esame, hanno poi ottenuto il beneficio.
Da tale situazione normativa ne sono nati dunque una serie di giudizi civili per accertare l’inesistenza dell’indebito e il diritto alle prestazioni successive alla revoca e giudizi penali relativi alle false dichiarazioni rese in sede di domanda.
PoichØ Ł fatto notorio che l’esito dei giudizi penali di merito ha portato a conclusioni differenti nei Tribunali e nelle Corti chiamati ad occuparsi degli stessi, il Tribunale di Napoli ha ritenuto di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea evidenziando di nutrire dubbi sulla conformità del d.l. n. 4/2019 al diritto dell’Unione, nella misura in cui, al fine di ottenere il ‘reddito di cittadinanza’, che costituisce una prestazione di assistenza sociale volta a garantire un livello minimo di sussistenza, tale normativa impone, in particolare, ai cittadini di paesi terzi di avere risieduto in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo. Il Tribunale ha osservato che, in tal modo, il decreto-legge in parola istituiva un trattamento sfavorevole nei confronti di tali cittadini, ivi compresi coloro i quali sono titolari di permessi di soggiorno di lungo periodo, rispetto al trattamento riservato ai cittadini nazionali.
Nella richiesta di pronuncia pregiudiziale il Tribunale di Napoli ha anche rammentato che, nella sentenza del 24 aprile 2012, Kamberaj (C571/10, EU:C:2012:233), la Corte ha già dichiarato che l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della Direttiva n. 2003/109 dev’essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale la quale, per quanto riguarda la concessione di un sussidio per l’alloggio, riservi ad un cittadino di un paese terzo, beneficiario dello status di soggiornante di lungo periodo conferito conformemente alle disposizioni di detta direttiva, un trattamento diverso da quello riservato ai cittadini nazionali. Lo stesso Giudice rimettente ha citato altresì le sentenze del 27 marzo 1985, Hoeckx (249/83, EU:C:1985:139), e del 27 marzo 1985, COGNOME e Cole (122/84, EU:C:1985:145), che riguarderebbero una misura di assistenza sociale paragonabile al ‘reddito di cittadinanza’. In tali sentenze, la Corte avrebbe dichiarato che, ai sensi del regolamento n. 492/2011, una siffatta misura doveva essere concessa sia ai lavoratori nazionali che ai lavoratori di
altri Stati membri.
Quanto alla rilevanza della questione lo stesso Tribunale ha, infine, evidenziato che in caso di dichiarata incompatibilità del diritto nazionale con i principi contenuti nella normativa europea «… la disapplicazione per contrarietà al diritto europeo della disposizione di legge che prevede la decennalità della residenza per l’accesso al reddito di cittadinanza, determinerebbe il venir meno del presupposto di fatto che connota la dichiarazione di rilevanza penale. La inapplicabilità della norma relativa all’obbligo di dichiarare la residenza decennale, infatti, farebbe venir meno la rilevanza del contenuto della dichiarazione non vera ai sensi della norma incriminatrice prevista dall’art. 7, comma 1, d.l. 4/2019» dal che «potrebbe ravvisarsi un caso di abolitio criminis , con applicazione del
principio di retroattività favorevole della norma penale».
Da qui la sentenza della Corte Europea in esame che ha stabilito che il requisito di residenza per dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, crea una disparità di trattamento tra cittadini di paesi terzi e cittadini nazionali, configurandosi, appunto, come una ‘discriminazione indiretta’, situazione che si verifica quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutra, mettono in una posizione di svantaggio particolari gruppi di persone rispetto ad altri, senza che vi sia una giustificazione obiettiva.
La Corte ha sottolineato che, mentre le disparità di trattamento possono essere giustificate da obiettivi legittimi, esse devono essere appropriate e non eccedere quanto necessario per raggiungere tali obiettivi.
In questo caso, la Corte ha ritenuto che il requisito di residenza imposto dalla normativa italiana non fosse giustificato, poichØ esiste già un requisito minimo di residenza legale e ininterrotta di cinque anni per acquisire lo status di soggiornante di lungo periodo.
La Corte ha, pertanto, concluso che la normativa italiana Ł incompatibile con l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d) della Direttiva 2003/109/CE testualmente affermando che «L’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che: «esso osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
Pertanto, la normativa che richiede un requisito di residenza di dieci anni per i cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo per accedere al reddito di cittadinanza e che impone sanzioni penali per dichiarazioni false relative a tale requisito, Ł stata ritenuta contraria al diritto dell’Unione Europea.
Ora, Ł noto che una sentenza della CGUE ha un alto valore giuridico nell’ordinamento dell’Unione Europea e negli ordinamenti nazionali degli Stati membri poichØ ha i seguenti effetti diretti:
Ł vincolante per le parti coinvolte nel procedimento in cui Ł pronunciata;
quando interpreta il diritto dell’Unione Europea ha un effetto vincolante su tutti gli Stati membri. Di conseguenza non solo l’Italia, Paese interessato in questo caso, ma anche gli altri Stati membri devono adeguare le loro normative nazionali per garantire la conformità con il diritto dell’Unione, come interpretato dalla Corte;
costituisce un precedente giuridico per casi simili futuri con la conseguenza che i giudici nazionali negli Stati membri devono tener conto di questa interpretazione quando si trovano ad affrontare casi analoghi;
impone un obbligo agli Stati membri, in questo caso all’Italia, di modificare la propria legislazione
nazionale per conformarsi al diritto dell’Unione così come interpretato dalla Corte.
Prima di procedere oltre, Ł opportuno dar conto del fatto che l’art. 1, comma 318, legge 29 dicembre 2022, n. 197, ha abrogato l’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019, a decorrere, però, dal 1 gennaio 2024.
Il legislatore, peraltro, nell’introdurre il cd. «assegno di inclusione» (misura di sostegno economico e di inclusione sociale e professionale destinata a sostituire integralmente il Reddito di cittadinanza e definita dall’art. 1, comma 1, decreto-legge 4 maggio 2023, n. 48, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 luglio 2023, n. 85, «quale misura nazionale di contrasto alla povertà, alla fragilità e all’esclusione sociale delle fasce deboli attraverso percorsi di inserimento sociale, nonchØ di formazione, di lavoro e di politica attiva del lavoro»), ha contestualmente ed espressamente previsto che al ‘Reddito di cittadinanza’ continuano ad applicarsi le disposizioni di cui all’art. 7 d.l. n. 4 del 2019 vigenti alla data in cui il beneficio Ł stato concesso, per i fatti commessi fino al 31 dicembre 2023.
Ne consegue che la problematica in esame relativa all’applicazione dell’art. 7 citato Ł da ritenersi ancora attuale e rilevante per la decisione di cui al presente procedimento.
Nulla quaestio poi circa il fatto che la condotta addebitata all’imputata Ł (per quanto si osserverà nel prosieguo Ł meglio dire ‘era’) caratterizzata da penale rilevanza atteso che appare indubbio che la falsa dichiarazione resa dalla Pena COGNOME era finalizzata ad ottenere il beneficio de quo , avendo le Sezioni Unite di questa Corte di legittimità chiarito che «Integrano il delitto di cui all’art. 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza solo se funzionali a ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge» (Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Giudice, Rv. 285435 – 01).
Al riguardo la Corte di appello (v. pag. 4 della sentenza impugnata) ha, infatti, debitamente spiegato, con motivazione congrua e di certo non manifestamente illogica le ragioni per le quali ha ritenuto di configurare in capo all’imputata l’elemento soggettivo richiesto per la configurabilità del reato di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4/2019 evidenziando:
a) che l’imputata nel rendere la (falsa) dichiarazione non poteva certo fare affidamento su di un contestuale controllo da parte dell’impiegata del Patronato incaricata solo dell’assistenza nella redazione della domanda ed alla quale aveva fornito esclusivamente la propria carta di identità dalla quale non poteva evincersi il requisito della residenza decennale in Italia;
b) che il requisito della residenza decennale che ha formato oggetto della specifica dichiarazione poteva essere conosciuto in quel momento solo dalla dichiarante;
c) che non può fondatamente ipotizzarsi un errore incolpevole dell’imputata in ordine alla rappresentazione ed alla dichiarazione dei requisiti necessari per ottenere il beneficio richiesto trattandosi di errore inescusabile sulla legge penale.
Quanto poi all’asserita ignoranza da parte dell’interessata della normativa in materia, devesi rilevare che la Corte di appello ha fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale «In tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa la sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal fine richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato d.l.» (In motivazione, la Corte ha aggiunto che non ricorre neanche un caso di inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza connotati di cripticità tali da far ritenere l’oscurità del precetto) (Sez. 2, n. 23265 del 07/05/2024, El Hadraoui, Rv. 286413 – 01).
Tutto ciò premesso occorre tuttavia porsi il problema della possibile disapplicazione della norma di cui all’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019 o quantomeno di una lettura convenzionalmente orientata di detta disposizione di legge.
Questa seconda via appare la piø percorribile.
¨ necessario partire, per avere una visione completa della problematica, dal rapporto tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno, che, a seguito dell’adesione dell’Italia al Trattato di Parigi del 1951 e ai Trattati di Roma del 1957 Ł stato affrontato dalla giurisprudenza costituzionale con il richiamo all’art. 11 della Costituzione, che consente “limitazioni di sovranità” in vista di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni. Tali limitazioni riguardano tuttavia non soltanto l’attività normativa dello Stato, ma anche l’attività amministrativa e giurisdizionale.
La giurisprudenza costituzionale ha sottolineato che le limitazioni di sovranità sono ammissibili entro i limiti dei valori fondamentali del nostro ordinamento (cfr. Corte cost. n. 98 del 1965; Corte cost. n. 183 del 1973).
E’, peraltro, indubbio che l’art. 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003 che stabilisce che «il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda … le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione nazionale» utilizzato dalla Corte di Giustizia come elemento di comparazione con l’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019 Ł pienamente compatibile con i valori fondamentali dell’ordinamento italiano e, in primo luogo, con l’art. 3 della Carta Costituzionale.
Ritiene quindi l’odierno Collegio, con riguardo al caso in esame, che alla luce dei principi sopra evidenziati e della richiamata decisione della Corte di Giustizia, senza la necessità di adire in via incidentale la Corte Costituzionale, possa essere data all’art. 7 del d.l. n. 4 del 2019 una lettura convenzionalmente ed al contempo costituzionalmente orientata nel senso che la necessità che la posizione della ricorrente NOME COGNOME (cittadina di origine extracomunitaria, titolare di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo) sia equiparata a quella dei cittadini nazionali finisce per neutralizzare di fatto la rilevanza della falsa dichiarazione riguardante il requisito della decennalità della residenza in Italia come elemento per la configurabilità del reato di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4/2019 contestato alla stessa.
Non risultando dagli atti che l’odierna imputata fosse priva di altri requisiti per accedere al beneficio del Reddito di cittadinanza, ne consegue una pronuncia assolutoria della ricorrente con la formula perchØ il fatto non sussiste.
Occorre però a questo punto ricordare che nei confronti della ricorrente Ł intervenuta con la sentenza della Corte di appello qui in esame anche l’affermazione della penale responsabilità per il reato di cui all’art. 640, comma 2, n. 1 cod. pen., così qualificato il reato di cui agli artt. 640 e 640-bis cod. pen. oggetto di originaria contestazione (capo B della rubrica delle imputazioni).
Con il secondo motivo di ricorso la difesa dell’imputata, come detto, si duole del ritenuto concorso materiale di quest’ultimo reato con quello di cui all’art. 7 del d.l. n. 4/2019 osservando che tra le due fattispecie delittuose vi sarebbe semmai un assorbimento.
Innanzitutto, osserva l’odierno Collegio, deve ravvisarsi la correttezza in punto di diritto di quanto affermato dalla Corte di appello circa la riqualificazione nella violazione di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen. della condotta originariamente contestata come violazione dell’art. 640-bis cod. pen. Come anche evidenziato dalla stessa Corte di Appello nella sentenza impugnata, il reddito di cittadinanza deve intendersi quale strumento di sostegno economico per le famiglie in difficoltà associato ad un percorso di reinserimento nel mondo del lavoro, alle prestazioni di natura lato sensu assistenziale alla persona, la cui erogazione Ł riservata ex lege all’INPS.
Non appare invece possibile ascrivere il beneficio alle erogazioni pubbliche contemplate dall’articolo
640-bis cod. pen. costruito quale circostanza aggravante dell’articolo 640, integrata laddove gli artifizi e i raggiri abbiano riguardato contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, quindi prestazioni che, per come descritte, appaiono funzionali a dare impulso ed a fornire supporto agli operatori economici privati in rapporto alle attività prettamente economiche dai medesimi esercitate e non alla persona che versi in stato di bisogno che Ł invece connotazione specifica del reddito di cittadinanza.
NØ a diverse conclusioni può indurre il riferimento alle sovvenzioni previsto dall’articolo 640-bis cod. pen. trattandosi di termine aggiunto dall’articolo 28-bis, comma 1, lett. d) del d.l. n. 4/2020 (cd. ‘decreto aiuti’) volto a prevedere misure urgenti in materia di sostegno alle imprese ed agli operatori economici connessi all’emergenza COVID-19. Detto inserimento, infatti, si giustifica con il proposito del legislatore di punire piø gravemente le frodi ove finalizzate ad ottenere indebitamente le agevolazioni fiscali ed economiche ivi previste; agevolazioni e sostegni la cui natura risulta, dunque, assimilabile per tipologia finalità e platea dei destinatari alle erogazioni pubbliche destinate agli operatori economici già previste dall’articolo 640-bis cod. pen.
Ne deriva, in conclusione, che la condotta ascritta all’imputata in quanto finalizzata ad ottenere l’indebito riconoscimento di un sussidio di natura assistenziale può ben essere astrattamente ricondotta alla meno grave fattispecie di cui all’articolo 640, comma 2, n. 1, cod. pen.
Ciò doverosamente premesso, si pone ora il problema di verificare se possa ravvisarsi un rapporto di consunzione o di specialità tra l’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4/2019 e l’art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen.
La questione assumerebbe immediata rilevanza nel momento in cui si ritenesse il reato di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen. assorbito in quello di cui all’art. 7 del d.l. n. 4/2019 atteso che l’insussistenza di quest’ultimo coprirebbe tout court anche la ricorrenza del primo.
La disposizione di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. n. 4/2019 testualmente recita: «Salvo che il fatto costituisca piø grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3 , rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, Ł punito con la reclusione da due a sei anni».
Deve essere immediatamente rimarcato che la clausola di riserva (‘Salvo che il fatto costituisca piø grave reato …’) non Ł in concreto operante nel caso in esame dato che il reato di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen. Ł meno grave di quello di cui alla disposizione sopra testualmente riportata.
Deve altresì constatarsi che non si rinvengono precedenti giurisprudenziali nei rapporti tra tale norma e l’art. 640, comma 2, cod. pen.
Osserva al riguardo l’odierno Collegio che il reato di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n. 4/2019 e quello di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen. presentano sostanziali differenze tra loro.
Innanzitutto, il primo dei due reati, come affermato dalle Sezioni Unite ‘Giudice’ Ł un reato di pericolo concreto a consumazione anticipata, posto a presidio delle risorse pubbliche economiche destinate a finanziare il ‘Reddito di cittadinanza’ impedendone la dispersione a favore di chi non ne ha (o non ne ha piø) diritto o ne ha diritto in misura minore. ¨ un reato posto a tutela del patrimonio dell’ente erogante e, in particolare, delle specifiche (e limitate) risorse destinate all’erogazione del beneficio ed al perseguimento del fine pubblico ad esso sotteso.
Per contro il reato di truffa Ł un reato di evento che si caratterizza dall’effettivo ottenimento di un ingiusto profitto con altrui danno.
Secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite ‘Giudice’ deve tuttavia escludersi che il reato di cui all’art. 7 del d.l. n. 4/2019 sia posto a tutela della fede pubblica e che risolva in un mero reato di falso, ciò in quanto ascrivere il delitto de quo alla categoria dei reati contro la fede pubblica
equivarrebbe a spostarne il disvalore dall’evento alla condotta e a svuotare di senso l’avverbio “indebitamente” che qualifica il movente tipizzato dell’azione (il dolo specifico).
In sostanza, la specifica previsione del finalismo della condotta decettiva Ł frutto della scelta del legislatore di anticipare la tutela penale al momento della domanda piuttosto che a quello dell’erogazione del beneficio e proietta il reato fuori dall’ambito della tutela della fede pubblica collocandola in quella dell’aggressione alle risorse dell’ente pubblico specificamente destinate all’erogazione del beneficio.
Ecco che allora, pur in presenza delle evidenziate differenze tra il reato di cui di cui all’art. 7 del d.l. n. 4/2019 e quello di truffa aggravata di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen., il rapporto tra le due fattispecie risulta particolarmente stringente. In sostanza, non ci trova in presenza di un generico atto (ideologicamente) falso utilizzato come artifizio per la consumazione della condotta truffaldina quanto piuttosto di un atto necessariamente servente e soggettivamente indirizzato alla realizzazione della condotta delittuosa nel suo complesso intesa.
La dichiarazione falsa in quanto espressamente orientata all’ottenimento del beneficio, in questo contesto, svolge una funzione selettiva tra condotte penalmente rilevanti e quelle che tali non sono, estromettendo dalla fattispecie quelle insuscettibili di mettere in pericolo il bene protetto.
In tale prospettiva tracciata dalla Sezioni Unite perde allora concreta rilevanza la distinzione e la problematica potenzialità di un concorso formale tra le due fattispecie delittuose in esame.
Se l’agente ha comunque diritto al beneficio per effetto della sopra affermata neutralizzazione del requisito della decennalità come elemento impeditivo, la non corrispondenza al vero delle informazioni a tal fine rese rende puramente e semplicemente atipica la condotta dovendosi escludere la natura indebita del beneficio stesso, viene meno, cioŁ, un elemento del fatto tipico non solo con riguardo alla fattispecie di cui all’art. 7 del d.l. n. 4/2019 ma anche in relazione al reato di cui all’art. 640, comma 2, n. 1, cod. pen. che ha anch’esso come presupposto oggettivo l’ingiustizia del profitto, con la conseguente non configurabilità anche di quest’ultima fattispecie delittuosa.
Quanto detto consente di estendere la valutazione dell’insussistenza del fatto anche in relazione alla contestazione di cui al capo B della rubrica delle imputazioni.
Le considerazioni che precedono, portando all’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchØ il fatto non sussiste, rendono superfluo l’esame del terzo motivo di ricorso nel quale la difesa della ricorrente ha lamentato l’eccessività del trattamento sanzionatorio irrogato alla ricorrente.
P.Q.M
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perche’ il fatto non sussiste.
Così Ł deciso, 05/03/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
NOME