Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 19976 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 19976 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME – NOME COGNOME .
Data Udienza: 19/04/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME COGNOME nato a NAPOLI il 09/08/1964 COGNOME NOME nato a NAPOLI il 14/09/1965 NOME COGNOME nato a NAPOLI il 10/05/1954 NOME nato a NAPOLI il 19/05/1976 COGNOME NOME nata a NAPOLI il 12/06/1974 COGNOME NOME nata a NAPOLI11 15/09/1967 COGNOME NOME nato a NAPOLI 11 12/10/1978 COGNOME NOME nata a NAPOLI il 14/12/1958 COGNOME NOME nato a NAPOLI il 18/04/1972 COGNOME NOME nata a NAPOLI il 19/11/1969 COGNOME nato a NAPOLI il 07/08/1961 COGNOME NOME nata a NAPOLI il 29/04/1960 COGNOME nato a NAPOLI il 27/07/1973 NOME nata il 04/09/1966 COGNOME
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOME–COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME EREDI DI COGNOME NOME nato a NAPOLI il 25/12/1996 il
avverso la sentenza del 27/03/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo:
l’annullamento senza rinvio per la posizione di COGNOME NOME per morte dell’imputato;
l’annullamento senza rinvio per la posizione di NOME COGNOME essendosi il reato estinto per prescrizione;
l’annullamento con rinvio limitatamente alla confisca nei confronti di NOME
l’inammissibilità del ricorso proposto da NOME COGNOME
il rigetto di tutti gli altri ricorsi.
uditi i difensori:
l’avv. NOME COGNOME per NOME COGNOME si è riportato ai motivi di impugnazione e ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
l’avv. NOME COGNOME ha depositato procura speciale sottoscritta, anche in qualità di erede di COGNOME NOME, da NOME COGNOME e ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza per quanto concerne la confisca in danno alla sua assistita, NOME COGNOME per gli altri terzi interessati da lui rappresentati si è riportato ai motivi esposti e ha chiesto l’annullamento della sentenza con o senza rinvio;
l’avv. NOME COGNOME ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi proposti per i propri assistiti.
l’avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’Avv. COGNOME per NOMECOGNOME ha insistito per l’accoglinnento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata è stata deliberata il 27 marzo 2023 dalla Corte di appello di Napoli, che ha riformato parzialmente la decisione del Tribunale della stessa città che aveva condannato, per quanto di interesse in questa sede, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME e disposto la confisca del patrimonio aziendale e delle quote di svariate società
(“RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE“) nonch di beni mobili e immobili di proprietà di NOME COGNOME e di NOME COGNOME o comunque a loro riconducibili, sebbene formalmente intestati a loro familiari.
Più precisamente, quanto alle posizioni degli imputati che oggi ricorrono e tenuto conto della parziale riforma della Corte distrettuale:
i fratelli NOME e NOME stati condannati per:
il reato di concorso esterno in associazione camorristica, per essersi accordati con esponenti apicali di varie compagini al fine riceverne l’avallo e di esserne accreditati, nelle zone di rispettiva competenza e con l’utilizzo della capacità di intimidazione derivante dalla natura camorristica dei gruppi con cui l’accordo era stretto, come referenti esclusivi per la commercializzazione di apparecchi da gioco, dietro pagamento di somme di denaro al clan o dietro l’obbligo di intervenire in via estemporanea per sostenere, all’occorrenza, l’economia delle cosche (capo 1);
il reato di cui all’art. 513-bis cod. pen., aggravato ex art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con nnod. nella I. 12 luglio 1991, n. 203, per aver commesso, con l’attività di cui sopra, atti di concorrenza sleale avvalendosi della capacità intimidatoria delle associazioni criminali con cui avevano concluso accordi (capo 2);
NOME COGNOME è stato altresì condannato:
quale interponente – siccome soggetto già condannato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e quale soggetto gravemente indiziato dei delitti di cui ai capi 1 e 2 – per l’intestazione fittizia di sale Bingo Cologno Monzese e a Lucca, di un centro scommesse a Napoli, delle quote di una serie di società operanti nell’ambito dell’attività organizzata di gioco e di imprese individuali (capi 4, 5, 11, 13, 16, 17 e 19);
il reato di cui all’art. 416 cod. pen. per avere promosso e diretto l’organizzazione costituita allo scopo di commettere i delitti di reimpiego di denaro e di attribuzione fittizia di valori di provenienza delittuosa, ne settore dei giochi pubblici e delle scommesse (capo 28);
il reato di cui all’art. 326, comma 1, cod. pen. per avere istigato NOME COGNOME, ufficiale di p.g. in servizio presso il ROS dei Carabinieri di Napoli, a rivelare notizie coperte da segreto d’ufficio (capo 40)
il reato di cui agli artt. 319 e 321 cod. pen. per avere corrotto il suddetto ufficiale di p.g. (capo 41).
La pena complessiva inflitta a NOME COGNOME ritenuta la continuazione esterna con altri reati già separatamente giudicati, è quella di anni venti e mesi otto di reclusione.
La pena complessiva inflitta a NOME COGNOME anche in questo caso previo giudizio di continuazione esterna, è quella di anni nove e mesi otto di reclusione.
NOME COGNOME è stato condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione per il reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. perché, quale esponente del clan COGNOME, compiva atti di concorrenza sleale in esecuzione dell’accordo con i COGNOME (capo 22).
NOME COGNOME è stato condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione per il reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. perché, quale esponente del clan COGNOME, compiva atti di concorrenza sleale in esecuzione dell’accordo con i COGNOME.
E’ rimasta confermata in appello, inoltre, la confisca dei beni, fatta eccezione per un appartamento e per un frutteto di proprietà di NOME COGNOME e della moglie NOME COGNOME, restituiti agli aventi diritto.
NOME COGNOME ha presentato un primo ricorso, con il ministero dell’Avv. NOME COGNOME
2.1. Il primo motivo di ricorso lamenta errata applicazione dell’art. 513-bis cod. pen., concretizzatasi nell’aver confermato la condanna per il reato suddetto perché COGNOME si sarebbe avvalso della capacità intimidatoria delle cosche, senza, tuttavia, che fossero stati individuati i singoli atti concorrenziali diret impedire la normale dinamica imprenditoriale ovvero i soggetti coartati attraverso atti di violenza o minaccia e senza che fossero state isolate specifiche azioni dell’imputato tese ad impedire la normale concorrenza tra imprenditori.
2.2. Il secondo motivo di ricorso deduce erronea applicazione dell’art. 99 cod. pen. e lamenta che la motivazione resa dalla Corte distrettuale quanto al riconoscimento della recidiva non sia adeguata. Assume, poi, il ricorrente che la recidiva aveva comportato un aumento di pena ancorché i reati cui si riferisce fossero segmenti del reato sub 1) e, allo stesso tempo, causa dell’aumento ex art. 81, comma 2, cod. pen.
2.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta erronea applicazione dell’art. 99, comma 4, cod. pen. e ricorda che, nell’appello, l’imputato aveva sostenuto la condivisibile tesi della non riconoscibilità della recidiva reiterata in assenza di un precedente dichiarazione di recidiva e ricorda i principi sanciti da Sezioni Unite Schettino quanto al dovere valutativo del Giudice di merito rispetto alla recidiva
La parte, quindi, rappresenta che la condotta di reato ascrittagli inizia nel 1990, ossia ben prima che passassero in giudicato le sentenze della Corte di appello di Napoli del 7 ottobre 1992 (irrevocabile il 21 settembre 1993) e della
Corte di Assise di appello di Napoli dell’Il novembre 1994 (irrevocabile il 13 ottobre 1995), sentenze che costituirebbero il presupposto per il riconoscimento della recidiva reiterata.
Si legge, ancora, nel ricorso che il processo di primo grado dinanzi alla Corte di Assise di Napoli ebbe inizio il 21 maggio 1993 e che, quindi, a quella data, non vi era ancora l’irrevocabilità della sentenza della Corte di appello di Napoli (presupposto per la dichiarazione della recidiva), che si sarebbe avuta solo il 21 settembre 1993.
2.4. Il quarto motivo di ricorso deduce omessa motivazione ed erronea applicazione degli artt. 99 e 101 cod. perì. quanto alle ipotesi di cui all’art. 1 quinquies d.l. 306 del 1992, per cui era stata riconosciuta la recidiva reiterata e specifica, ancorché, rispetto ai precedenti dell’imputato per associazione ex art. 416-bis cod. pen. e per estorsione aggravata, non vi sarebbe identità di indole, a fortiori laddove, in relazione ai reati sub iudice, fin dal primo grado era stata esclusa la circostanza aggravante di cui all’art. 7 I. 203 del 1991.
Chiede, pertanto, il ricorrente che la sentenza impugnata venga in parte qua annullata, con l’adozione di ogni conseguente statuizione, in particolare quanto alla prescrizione.
2.5. Il quinto motivo di ricorso contiene un’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 99, comma 4, cod. pen. secondo l’interpretazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 32318 depositata il 25 luglio 2023.
Dopo aver ricordato il dictum di tale decisione, il ricorrente afferma che, nel caso in cui questa Corte non intendesse seguire l’interpretazione propugnata nell’impugnativa – tesa ad escludere la natura reiterata della recidiva – e, quindi, non ritenesse di disattendere i principi da ultimo sanciti dal massimo Consesso, dovrebbe sollevare eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 99, comma 4, cod. pen. in relazione agli artt. 3, 25, comma 2 e 27, comma 3 Cost.
Assume, quindi, il ricorrente che la questione sarebbe rilevante nel presente giudizio in quanto gli era stata applicata la recidiva reiterata benché egli non fosse mai stato prima dichiarato recidivo.
Quanto alla fondatezza, la parte richiama sinteticamente le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite di questa sezione n. 36738 del 2022; la tesi secondo cui il riconoscimento della qualità di recidivo è desumibile dai precedenti penali si legge nel ricorso – reintrodurrebbe un meccanismo di automatismo sanzionatorio fondato esclusivamente sullo status del soggetto, meccanismo che collide con le norme costituzionali di cui sopra e con l’art. 49, comma 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
2.6. Il sesto motivo di ricorso lamenta violazione di legge processuale quanto agli artt. 521 e 522 cod. cod. pen.
La Corte di merito avrebbe violato le norme evocate nel ritenere lo spostamento in avanti della data di consumazione del reato di intestazione fittizia di cui al capo 13 (individuata nel 14 luglio 2006, data di costituzione della holding RAGIONE_SOCIALE), dal che sarebbe derivata la mancata declaratoria di prescrizione del suddetto reato, di natura istantanea e non a condotta frazionata. All’atto della costituzione delle società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, le cui quote poi sarebbero state conferite nella Meth, non potevano immaginarsi gli sviluppi successivi, per cui si tratterebbe di condotte distinte, con le conseguenti ricadute in tema di prescrizione. A sostegno della sua tesi, il ricorrente richiama un passaggio della sentenza di primo grado e un precedente di questa sezione (la sentenza n. 22106 del 10 marzo 2022).
Quanto alla s.rRAGIONE_SOCIALE. RAGIONE_SOCIALE, costituita il 30 giugno 2000, oggetto di specifica contestazione è la quota del 33 % rimasta nella disponibilità di NOME COGNOME, essendo stato conferito nel 2006 il restante 66 % alla RAGIONE_SOCIALE. Scrive il ricorrente che il momento consunnativo del reato viene traslato in sentenza al primo marzo 2004, data di un aumento di capitale; e che la fittizietà di tale operazione viene erroneamente desunta dalla circostanza che, nello stesso arco di tempo, vi fu un riassestamento delle società del gruppo, frutto non di conferimento in denaro, ma di una rivalutazione allineata al valore di mercato. Il patrimonio immobiliare della società – aggiunge il ricorso – era costituito da successive acquisizioni di cespiti ottenute grazie a finanziamenti bancari di cui aveva beneficiato NOME COGNOME Ad ogni buon conto, anche assumendo come data di consumazione il primo marzo 2004, la prescrizione sarebbe maturata il 19 settembre 2020, tenuto conto della necessità, propugnata nel quarto motivo, di ritenere che la recidiva ascrivibile al Grasso sia considerata solo reiterata e non anche specifica. Ne deriverebbe – conclude il ricorrente – che il termine di prescrizione sarebbe da calcolare come segue: anni sei, aumentati ad anni nove per la recidiva reiterata, aumentati ex art. 161 cod. cod. pen. di due terzi, per giungere ad un termine di prescrizione di quindici anni, cui va aggiunto il periodo di sospensione di un anno, sei mesi e ventidue giorni. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.7. Il settimo motivo di ricorso deduce erronea applicazione di legge penale quanto al reato di cui al capo 13, sub specie dell’intestazione fittizia delle quote della società RAGIONE_SOCIALE. Il ricorrente afferma di non comprendere come si sia potuta ritenere la finalità dissimulatoria dell’intestazione del 10 °AD delle quote alla sorella NOME quando il restante 90 % era in capo a lui.
2.8. L’ottavo motivo di ricorso denunzia erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen.
La Corte di appello avrebbe errato nel richiamare, a sostegno del diniego delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali e la gravità del fatto, svalutando la scelta collaborativa del ricorrente, definendola tardiva, pur essendo
maturata prima della sentenza di primo grado e pur non essendo parziale, tanto da avere determinato il Tribunale di Napoli a sostituire la misura cautelare della custodia in carcere con gli arresti domiciliari. Sarebbe stata svalutata anche la condotta successiva dell’imputato, che aveva cambiato stile di vita dal 2009, dedicandosi ad un’onesta attività lavorativa, tanto che la Corte di appello di Napoli, sezione misure di prevenzione, gli aveva revocato la sorveglianza speciale.
A sostegno del ricorso, la parte evoca una sentenza di questa Corte che aveva annullato quella della Corte di appello di Napoli proprio in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche.
2.9. Il nono motivo di ricorso lamenta violazione dell’art. 81, comma 2, cod. pen., perché la Corte di merito non avrebbe dovuto infliggere una pena in aumento anche per la sentenza della Corte di Assise di appello di Napoli dell’Il novembre 1994 (irrevocabile il 13 ottobre 1995), poiché quest’ultima era stata assorbita, per il riconoscimento della continuazione, dalla sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli il primo luglio 2019.
2.10. Il decimo motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione quanto alla confisca delle somme giacenti sui conti personali del Grasso.
Con decreto del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli del 27 aprile 2009 fu disposto, tra l’altro, il sequestro dei rapporti bancari intestati NOME COGNOME presso Fideuram oltre ad alcune polizze vita; sulla confisca di tali beni, la Corte di appello si sarebbe limitata a richiamare la sentenza di primo grado, dove, tuttavia, non si rinviene alcuna specifica motivazione quanto agli averi personali di COGNOME presenti sui conti bancari, dove confluivano risorse lecite, come i canoni di locazione di beni ricevuti per eredità dal padre e dalla madre; la stessa carenza motivazionale si ravvisa quanto alle ragioni della confisca dei beni della moglie NOME COGNOME
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME dall’Avv. NOME COGNOME consta di sei motivi.
3.1. Il primo motivo di ricorso denunzia inosservanza e erronea applicazione degli artt. 12-quinquies d.l. 306 del 1992, 101 e 157 cod. pen. e vizio di motivazione. La doglianza – articolata sulla diversità strutturale tra il reato di intestazione fittizia e i precedenti penali del Grasso – coincide con quella di cui al quarto motivo del ricorso dell’Avv. .COGNOME, cui si rinvia. Sulla questione aggiunge il ricorso in esame vi era specifico motivo di appello (il sesto), rimasto inascoltato.
3.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta inosservanza o erronea applicazione degli artt. 178, lett. c), 521 e 522 cod. proc. pen. e vizio d motivazione sempre quanto ai reati di cui all’art. 12-quinquies cod. pen. perché il
Tribunale, a dispetto dell’indicazione temporale dei capi di imputazione coincidente con la data di costituzione delle società, con la precisazione che si trattava di «condotta perdurante in ordine alla permanenza» -, aveva precisato, in sentenza, che si era al cospetto di un reato istantaneo ed aveva spostato l’epoca di commissione del reato al marzo 2004, quando vi era stato un aumento di capitale. Questa operazione – sostiene il ricorrente – non era possibile senza una modifica del capo di imputazione ovvero senza il richiamo all’art. 81 cod. pen. e senza previa interlocuzione con la difesa. In assenza di tale spostamento in avanti, sarebbe già maturata la prescrizione, come ritenuto anche dal pubblico ministero di udienza, che aveva chiesto emettersi sentenza di non doversi procedere per prescrizione in ordine a tutti i reati di cui all’art. 12-quinquies cit. Di fronte all’operazione attuata dal Tribunale in sentenza, la difesa dell’imputato aveva eccepito, con l’atto di appello, la violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., doglianza che la Corte distrettuale ha erroneamente disatteso, sostenendo che si trattava di una «irrilevante e leggera sfasatura temporale operata nella parte motiva della sentenza» e che la difesa aveva avuto la possibilità di difendersi sul punto, tralasciando che la modifica era avvenuta solo con la sentenza di primo grado e che, durante il dibattimento, non vi erano stati sviluppi che lasciassero presagire lo spostamento in avanti del tempus commissi delicti, tanto che l’istruttoria dibattimentale era orientata verso il riconoscimento dell’avvenuta estinzione dei reati in discorso per prescrizione.
3.3. Il terzo motivo di ricorso deduce inosservanza o erronea applicazione degli artt. 157, cod. pen. 12-quinquies d.l. 306 del 1992, 192 e 533 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
La sentenza impugnata sarebbe affetta da un vuoto motivazionale quanto al quarto motivo di appello, che contestava la scelta di individuare nell’aumento di capitale il momento consumativo del reato, trattandosi di un mero indice del mantenimento dello status quo e non di una condotta attiva dell’imputato, interessato, piuttosto, al godimento degli effetti permanenti del delitto. Per individuare altri momenti consumativi, sarebbe stato necessario – opina il ricorrente che fosse provata anche la distribuzione di utili o l’ingresso di nuovi soci ovvero l’attuazione di operazioni di trasformazione della società.
L’impossibilità di individuare l’aumento di capitale come momento consumativo impone di prendere atto della prescrizione.
3.4. Il quarto motivo di ricorso denunzia inosservanza o erronea applicazione degli artt. 649 e 529 cod. proc. pen. e omessa motivazione quanto al settimo motivo di appello, laddove era stata censurata la mancata declaratoria di improcedibilità per bis in idem in relazione al segmento di contestazione di cui al capo 1), concernente il concorso esterno con il clan dei Casalesi, con condotta continuata dalla prima metà degli anni novanta fino ad aprile 2009.
3.5. Il quinto motivo di ricorso lamenta inosservanza o erronea applicazione dell’art. 81 cod. pen. ed è sovrapponibile al nono motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME cui si rinvia.
3.6. Il sesto motivo di ricorso deduce inosservanza o erronea applicazione dell’art. 62-bis cod. pen., giacché la Corte territoriale ha tacciato di tardività e di parzialità il contributo collaborativo auto ed eteroaccusatorio di COGNOME, invece tempestivo e proficuo, tanto da avere indotto i pubblici ministeri della D.D.A. di Napoli ad esprimere parere favorevole per la sostituzione della custodia in carcere con gli arresti domiciliari e, successivamente, a prospettare la possibilità di avviare la procedura per l’attivazione del programma di protezione.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME dal suo difensore di fiducia Avv. NOME COGNOME si compone di un unico motivo, che denunzia violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla mancata riduzione della pena nel massimo possibile per la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Nell’affidare alla pessima biografia criminale del prevenuto la statuizione avversata, la Corte distrettuale l’avrebbe giustificata in maniera solo apparente e si sarebbe trincerata dietro la «consueta assenza di elementi giustificativi del beneficio richiesto, tralasciando, però, tutti gli indici di n soggettiva favorevoli all’imputato». Tali dati favorevoli sarebbero la «sostanziale confessione», la lunga esperienza quale collaboratore di giustizia e la ripetizione, in dibattimento, delle dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie.
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME lamenta violazione di legge e vizio di motivazione per la mancata declaratoria di prescrizione del reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. a lui addebitato.
Il ricorrente spiega che gli erano state concesse le circostanze attenuanti generiche, oltre alla circostanza attenuante della collaborazione, e che, ciò nonostante, non si era tenuto conto dell’incidenza di dette attenuanti quanto alla prescrizione, incidenza pacifica nella vecchia disciplina, come affermato da più sentenze di questa Corte che vengono richiamate. Il reato, infatti, prosegue il ricorso, era stato commesso al più tardi nell’ottobre 2004 (data di inizio della collaborazione), con conseguente applicazione del regime della prescrizione anteriore all’entrata in vigore della legge ex Cirielli, il che determina, in virtù dell’esito del giudizio di comparazione, la maturazione del termine prescrizionale ad aprile 2012 o, al più tardi, ad ottobre 2019. La pena massima del reato per cui si procede, decurtata della diminuzione minima di un terzo per l’attenuante della collaborazione e di un giorno per le circostanze attenuanti generiche, si colloca al di sotto dei cinque anni.
A seguire, il ricorrente riporta un tratto della sentenza COGNOME delle Sezioni Unite di questa Corte e tratti di varie sentenze che, proprio in accoglimento di ricorsi del medesimo difensore, avevano validato la propugnata esegesi delle norme in materia di prescrizione ante novella ex. I. 251 del 2005.
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME si compone di otto motivi.
6.1. Il ricorrente espone unitariamente i motivi 1, 2, 3 e 5, con i quali deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, con riferimento ai reati di cui ai capi 1 e 2 della rubrica.
6.1.1. Sostiene che, nell’imputazione, vi sarebbe «una assoluta carenza di profili individualizzanti», che non consentirebbe di comprendere la concreta condotta contestata all’imputato, il ruolo da lui assunto e il contributo fattuale da lui fornito al sodalizio criminale.
Tale astrattezza non sarebbe stata superata neanche con la sentenza impugnata, atteso che la Corte di appello non avrebbe chiarito quale sarebbe stato il contributo fornito al clan dall’imputato, finendo per configurare a caric del medesimo una «responsabilità da posizione, per i medesimi fatti e per le condotte ascritte al germano NOME». Seguendo «le argomentazioni della Corte di appello» si arriverebbe alla conclusione che «l’accordo con i clan è stato posto in essere da NOME COGNOME, ma il germano NOME» ne risponderebbe «per averne condiviso il sistema».
Tanto emergerebbe in maniera evidente dal fatto che la Corte di appello avrebbe fondato la responsabilità penale dell’imputato sulle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia NOME COGNOME che si sarebbe limitato ad affermare che l’imputato, in qualche occasione, aveva sostituito il fratello NOME nei rapporti con i clan, precisando che lo stesso non poteva esserne considerato l’alter ego, perché il più stretto collaboratore del capo era stato NOME COGNOME.
Il ricorrente pone in rilievo che solo pochissimi collaboratori di giustizi avrebbero fatto «brevi cenni» all’imputato e che, in ogni caso, nessuna delle dichiarazioni da loro rese avrebbe carattere individualizzante. Nessuno dei collaboratori, invero, avrebbe riferito circostanze rilevanti rispetto all’uni condotta che potrebbe assumere rilievo essenziale, ossia quella di un eventuale contributo fornito dall’imputato alla conclusione degli accordi con i clan.
Il ricorrente sostiene che, dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia e da NOME COGNOME, emergerebbe che l’unica possibile condotta a lui ascrivibile risalirebbe al periodo compreso tra marzo 1999 e febbraio 2002. In tale periodo, però, l’imputato non sarebbe stato «in alcun modo interessato ai settori dei videogiochi e dei videopoker …».
L’estraneità dell’imputato al cd. “Sistema COGNOME” sarebbe resa evidente dal fatto che a lui non era stato contestato il reato di cui al capo 20 della rubrica che costituirebbe «la imputazione principale rivolta ad accertare la sussistenza di quell’apparato illecito delle attività imprenditoriali che Io stesso NOME h ammesso di aver costituito da solo, senza il tributo di nessuno dei fratelli».
Dagli elementi esposti emergerebbe, in maniera palese, che la Corte di appello non avrebbe verificato l’effettivo contributo causale fornito dall’imputato alla realizzazione del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
6.1.2. Analoga astrattezza affliggerebbe l’imputazione di cui al capo 2 della rubrica, anche essa priva della descrizione dei fatti concretamente contestati all’imputato. Tale imputazione sarebbe priva di qualsiasi riferimento alle violenze o alle minacce, necessarie per integrare la fattispecie di cui all’art. 513-bis cod. pen.
I limiti dell’imputazione non sarebbero stati superati neppure con la sentenza impugnata, che non chiarirebbe, in alcun modo, quale sarebbe lo specifico fatto di cui sarebbe responsabile l’imputato né quale sarebbe la prova delle minacce e delle violenze.
Nessuno dei collaboratori di giustizia, d’altronde, avrebbe riferito di atti d concorrenza sleale, di violenza o di minaccia posti in essere dall’imputato o di un suo contributo fornito all’accordo stipulato con i clan. L’imputato, inoltre, sarebbe risultato del tutto estraneo alle società che i prestanome gestivano per conto del fratello.
La Corte di appello avrebbe completamente omesso di verificare la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie, non avrebbe chiarito quale sarebbe stato il contributo causale fornito dall’imputato alla realizzazione del reato e, in ogni caso, in assenza della prova di atti di violenza e di minacce, avrebbe dovuto escludere la sussistenza del reato di illecita concorrenza.
Il ricorrente sostiene, inoltre, che la sentenza impugnata sarebbe completamente priva di motivazione in ordine all’applicazione dell’aggravante prevista dall’art. 416-bis.1 cod. pen., che sarebbe stata ritenuta sussistente dalla Corte d’appello in maniera presuntiva e senza rispondere agli specifici motivi di gravame sul punto.
6.1.3. Il ricorrente sostiene che le condotte «sussunte nei capi 1 e 2 dell’imputazione, ancorché qualificate e giuridicamente in maniera diversa», sarebbero del tutto sovrapponibili tra loro e che, tenuto conto dell’assoluta mancanza di minacce e violenze, quelle descritte al capo 2 dovrebbero considerarsi assorbite in quelle contestate al capo 1.
6.2. Con un quarto motivo, deduce i vizi di erronea applicazione della legge penale, di inosservanza di norme processuali e di mancata assunzione di una prova decisiva, in relazione all’art. 649 cod. proc. pen.
Il ricorrente sostiene che la Corte di appello avrebbe omesso ogni valutazione in ordine all’assorbimento dei reati contestati in quelli già giudicat con la sentenza definitiva della Corte di appello di Napoli n. 874 del 2012, che era stato dedotto con i motivi di gravame.
Il ricorrente sostiene che l’assorbimento risulterebbe evidente e, al riguardo, richiama le pagine 2999 e ss. della sentenza di primo grado (emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere), nelle quali è stato scritto che, «dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia versate in atti, risulta che i due impu sono soliti instaurare relazioni con i gruppi criminali del napoletano per raggiungere nelle varie zone territoriali il successo economico e garantirsi il diritto di esclusiva». I fatti ricostruiti in tale parte della sentenza, secondo il ricorrente, risulterebbero del tutto sovrapponibili a quelli contestati al capo dell’imputazione. Le fonti probatorie utilizzate in entrambe le sentenze di condanna sarebbero «costituite dai medesimi collaboratori di giustizia» e «il riferimento temporale … e territoriale» sarebbe praticamente lo stesso.
La superfetazione decisa dalla Procura della Repubblica di Napoli nel corso delle indagini preliminari, che avrebbe determinato la duplicazione dei procedimenti, si sarebbe risolta in una palese violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.
6.3. Con un sesto motivo, deduce il vizio di mancata assunzione di una prova decisiva.
Rappresenta che: all’udienza del 23 giugno 2017, i difensori avevano chiesto al Tribunale di affidare a un perito l’incarico di verificare la capacità reddituale patrimoniale della famiglia COGNOME, al momento dell’effettuazione degli investimenti da loro operati nelle singole società, poi confluite nella holding “RAGIONE_SOCIALE“; tale richiesta era stata disattesa dal Tribunale.
Il ricorrente sostiene che la necessità di verificare le capacità reddituali patrimoniali dei fratelli COGNOME, soprattutto al momento degli aumenti di capitale effettuati nelle singole società, emergerebbe dalla stessa motivazione della sentenza di primo grado e, in particolare, dalla parte relativa al reato di cui a capo 13 dell’imputazione, che aveva determinato la confisca delle quote appartenenti all’imputato, sebbene in ordine a esso fosse intervenuta sentenza di non doversi procedere per prescrizione. Tali deduzioni, che erano state oggetto di gravame, non avrebbero ricevuto alcuna risposta dalla Corte di appello.
6.4. Con un settimo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 12-sexies d.lgs. n. 306 del 1992 e 240-bis cod. pen.
Sostiene che la Corte di appello avrebbe equiparato l’art. 12-sexies d.lgs. n. 306 del 1992 all’art. 240-bis cod. pen., ritenendo che vi fosse continuità tra le due norme, quando, invece, l’art. 240-bis cod. pen., a differenza della
precedente norma, escluderebbe che si possa utilizzare l’evasione fiscale quale argomento per giustificare la formazione del patrimonio. In tal modo, la Corte territoriale avrebbe finito per applicare retroattivamente una norma di carattere sanzionatorio, atteso che il sequestro preventivo del patrimonio dell’imputato era stato disposto, ai sensi dell’art. 12-sexies decreto-legge n. 306 del 1992, quando esso era ancora vigente.
Nel ricorso si sostiene che, in ogni caso, l’imputato non avrebbe avuto bisogno di ricorrere all’argomento dell’evasione fiscale per giustificare la formazione del proprio patrimonio, in quanto, dalla certificazione dell’Agenzia delle Entrate, allegata alla consulenza tecnica del dott. COGNOME emergerebbe che i redditi dichiarati da COGNOME dall’anno 1988 all’anno 2010 sarebbero notevoli e sufficienti per giustificare le acquisizioni patrimoniali («206.246 milioni di lire nel 1999; 88.616 milioni di lire nel 2000; 336.507 milioni di lire nel 2001; 342.921 euro nel 2002, ecc.»).
Il ricorrente, inoltre, sostiene che la Corte di appello, pur avendo affermato di aderire al criterio della «ragionevolezza temporale», non avrebbe applicato il suddetto criterio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, «non verificando né specificando la cronologia degli acquisti mobiliari ed immobiliari».
6.5. Con un ottavo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 133 cod. pen.
Il ricorrente contesta il trattamento sanzionatorio sotto più profili.
In primo luogo, sostiene che la Corte di appello avrebbe applicato la pena base di anni sei di reclusione, ben superiore alla media edittale, senza fornire adeguata motivazione.
Analogo difetto di motivazione sarebbe riscontrabile anche con riferimento all’aumento di quattro anni di reclusione, per la riconosciuta continuazione con i reati giudicati con la sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli il 30 aprile 2014 (irrevocabile il 10 aprile 2015).
La Corte territoriale, infine, avrebbe fatto ricorso a «una laconica formula di stile» per motivare un’applicazione delle circostanze attenuanti generiche «non nella loro massima estensione».
Il ricorso presentato, in proprio, da NOME COGNOME si compone di tre motivi.
7.1. Con un primo motivo, articolato in due censure, il ricorrente deduce i vizi di motivazione e di inosservanza di norme processuali, contestando la confisca delle quote delle società “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” a lui intestate, oltre che delle corrispondenti quote della holding “RAGIONE_SOCIALE risultanti dal conferimento in quest’ultima delle quote di “RAGIONE_SOCIALE” e d “RAGIONE_SOCIALE“.
7.1.1. Con una prima censura, nel ricorso si deduce la nullità della sentenza impugnata, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe omesso di prendere contezza dell’appello proposto in proprio da NOME COGNOME confondendolo con altro distinto atto di gravame proposto, anche, da NOME COGNOME non in proprio, ma quale erede del fratello NOME.
La suddetta confusione emergerebbe in maniera evidente, sia a pagina 20 della sentenza dove la Corte territoriale, nel riassumere gli appelli proposti farebbe riferimento solo a quello proposto da tutti i fratelli COGNOME in qualit eredi di NOME COGNOME – sia a pagina 27 – dove la Corte di appello farebbe riferimento, per gli appelli presentati da NOME COGNOME e dai suoi fratelli, a due distinti atti redatti dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME quando, invece, l’appello proposto in proprio dai germani COGNOME risulterebbe sottoscritto dagli avvocati COGNOME COGNOME COGNOME e quello proposto dai fratelli COGNOME nella qualità di eredi, risulterebbe sottoscritto soltanto dall’avvocato COGNOME
Tale confusione farebbe sorgere il dubbio che il giudice di secondo grado non si sia confrontato correttamente con le doglianze formulate nelle due diverse impugnazioni, che non sarebbero perfettamente coincidenti.
7.1.2. Con una seconda censura, si sostiene che la suddetta confusione avrebbe determinato non solo la nullità della sentenza, ma anche il difetto di motivazione, atteso che, nel provvedimento impugnato, non vi sarebbero argomentazioni specificamente riferibili all’atto di gravame proposto, in proprio, da NOME COGNOME. Invero, nella parte relativa alle confische, la Corte di appello si sarebbe specificamente soffermata sulle posizioni di NOME COGNOME e della moglie nonché sulle doglianze dedotte da NOME COGNOME e dalla moglie. Risulterebbero, invece, «sparse ed incidentali» le repliche alle censure mosse da NOME COGNOME, relative alla sottovalutazione delle consulenze tecniche di parte e al regime giuridico applicabile alla confisca, non più l’art. 12-sexies, ma l’art. 240-bis cod. pen.
7.2. Con un secondo motivo, articolato in più censure, deduce i vizi di motivazione, di erronea applicazione della legge penale e di inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.
7.2.1. Il ricorrente rappresenta che la sentenza impugnata ha confermato la confisca delle quote solo di due società formalmente intestate a NOME COGNOME: la “RAGIONE_SOCIALE” e la “RAGIONE_SOCIALE“. In relazione, alle altre quat società che la pubblica accusa aveva ritenuto fittiziamente intestate a NOME COGNOME, già la sentenza di primo grado aveva ritenuto mancante la prova della fittizietà delle intestazioni e aveva disposto la restituzione delle quote.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che i giudici di merito sarebbero caduti in contraddizione, avendo, da un lato, confiscato le quote della “RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE” e della “RAGIONE_SOCIALE” e, dall’altro, escluso la fittizietà delle intestazioni, senza considerare il breve arco temporale nel quale tutte queste operazioni sarebbero state realizzate. Invero, le operazioni relative alla “RAGIONE_SOCIALE” e alla “RAGIONE_SOCIALE” erano state realizzate nel 2004 e nel 2007, le altre nel 2006 e nel 2007.
7.2.2. Rappresenta che: secondo l’originaria imputazione, i reati sarebbero stati commessi dal 30 giugno 2000, data di costituzione della società “RAGIONE_SOCIALE“, al gennaio 2007; il Tribunale, tuttavia, avrebbe spostato la data d consumazione dei reati al momento dell’aumento di capitale delle singole società o del successivo conferimento delle quote nella holding “RAGIONE_SOCIALE“, nonostante il pubblico ministero non avesse modificato l’imputazione.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che lo spostamento in avanti della data di consumazione dei reati avrebbe determinato un’evidente violazione del diritto della difesa, che si era preoccupata di dimostrare la capacità imprenditoriale e reddituale dei presunti prestanomi proprio nel momento della costituzione delle società, a cui faceva riferimento l’imputazione. Lo sforzo difensivo sarebbe risultato frustrato dalla sentenza di primo grado, che avrebbe spostato in avanti il momento rilevante, senza che i difensori potessero concretamente percepire tale spostamento, adeguando conseguentemente le loro «strategie». Il ricorrente evidenzia che, per quel che riguarda la società “RAGIONE_SOCIALE“, il momento decisivo sarebbe stato spostato dall’anno 2000, anno di costituzione della società, al 2007 e, per quel che riguarda la società “RAGIONE_SOCIALE“, lo spostamento sarebbe avvenuto dal 2000, anno di costituzione della società, al 2004, momento dell’aumento di capitale.
7.2.3. Sostiene che i giudici di merito avrebbero «slabbrato perimetro della fattispecie ex art. 12-sexies» fino a ricomprendervi atti, come gli aumenti di capitale e il conferimento in altra società, che non sarebbero idonei a integrare un’intestazione fittizia, ma che costituirebbero vicende successive di un delitto già perfezionato al momento della costituzione delle società. Il reato, infatti, verrebbe integrato con l’intestazione delle quote e l’eventuale variazione della quota risulterebbe irrilevante.
7.2.4. Il ricorrente sostiene che i giudici di merito avrebbero valorizzato eccessivamente gli elementi a carico.
In primo luogo, avrebbero dato grande rilevanza alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia COGNOME senza, tuttavia, rilevare che egli, pur riferendo di alcune società intestate a terzi ma di fatto nella disponibilità di NOME COGNOME, non avrebbe fatto specifico riferimento alle società indicate al capo 13 dell’imputazione.
Grande rilievo i giudicanti avrebbero attribuito anche alle conversazioni telefoniche e ai messaggi di posta elettronica intercettati, dai quali emergerebbe,
in maniera evidente, «il potere di supremazia» di NOME COGNOME nella gestione della holding “RAGIONE_SOCIALE“, costituita il 14 luglio 2006 mediante il conferiment delle quote delle società indicate al capo 13, dovendosi da ciò ricavare la prova della titolarità effettiva in capo a NOME COGNOME delle quote delle società conferite nella holding. I Giudici di merito non avrebbero, però, tenuto conto che la concentrazione dei poteri di amministrazione non dimostra la titolarità delle quote e avrebbero altresì trascurato che tutte le conversazioni telefoniche e le captazioni informatiche si collocherebbero temporalmente in un momento successivo al conferimento delle quote delle varie società nella holding, nella quale era confluito anche il 90°h delle quote della RAGIONE_SOCIALE, formalmente e palesemente intestato a NOME COGNOME che era diventato conseguentemente il quotista di maggioranza (anche sotto il profilo formale) della holding.
Con censurabile metodologia, la Corte territoriale avrebbe dato rilievo alla prova ritenuta raggiunta in relazione all’intestazione fittizia di due sale bingo e a fatto che NOME COGNOME non aveva proposto impugnazione avverso la condanna inflittagli per le intestazioni fittizie contestate ai 17 e 19, ritenendo che da potesse desumersi la generale infondatezza di tutte le prospettazioni difensive rivolte a contestare le altre intestazioni fittizie.
Il ricorrente sostiene che la Corte territoriale non solo avrebbe dato eccessivo rilievo agli elementi a carico, ma avrebbe anche ignorato o scarsamente considerato gli elementi poco compatibili con l’ipotesi accusatoria, incentrata sul presunto tentativo da parte di NOME COGNOME di celare il suo effettivo dominio «sull’intera galassia societaria familiare».
I giudici di merito, infatti, non avrebbero considerato come tale presunto tentativo sarebbe poco compatibile con la trasparente titolarità del 90% delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE” proprio in capo a NOME COGNOME e il successivo conferimento di tali quote nella holding “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva determinato la sua conseguente palese partecipazione nella holding. Così come le successive operazioni di incorporazione nella holding anche delle società “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” nonché quella di costituzione della “RAGIONE_SOCIALE“, nella quale figurava come socio anche la “RAGIONE_SOCIALE” manifestavano in maniera evidente la presenza di NOME COGNOME nel gruppo societario.
Sotto altro profilo, il ricorrente evidenzia come l’ipotesi di accusa, basata sull’asserita indisponibilità da parte di NOME COGNOME delle provviste necessarie alle sottoscrizioni delle quote delle società “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“, sia poco compatibile con l’assoluzione (pronunciata già in primo grado) dell’imputato in ordine all’intestazione fittizia delle quote delle altre società menzionate nel medesimo capo 13 dell’imputazione. Tale assoluzione, invero, sarebbe basata sulla compatibilità delle capacità reddituali dell’imputato con gli sforzi economici effettuati per l’acquisizione delle quote delle società in questione.
7.3. Con un terzo motivo, deduce il vizio di motivazione, in relazione all’art. 603 cod. proc. pen.
Il ricorrente contesta il rigetto del motivo di appello con il quale la dife aveva avanzato la richiesta di rinnovare l’istruttoria, espletando una perizia volta a ricostruire le capacità reddituali di NOME COGNOME anche nel momento di consumazione del reato, come diversamente individuato dai giudici di primo grado.
Il ricorrente sostiene che lo spostamento in avanti della data di consumazione del reato e la valorizzazione data dai giudici di merito a elementi di scarsa efficacia rappresentativa avrebbero dovuto imporre alla Corte territoriale di affrontare la richiesta difensiva con particolare attenzione.
8. Il ricorso presentato da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME in qualità di terzi interessati si compone di un unico motivo, con il quale i ricorrenti deducono vizio di motivazione.
8.1. I ricorrenti premettono che il Tribunale, nei loro confronti, aveva emesso sentenza di proscioglimento, avendo assolto NOME COGNOME dal reato a lei ascritto al capo 15, perché il fatto non sussiste, e avendo dichiarato prescritto il reato di cui al capo 13, contestato a NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME (in ordine a quest’ultimo reato era stato condannato il solo NOME COGNOME). Il Tribunale, tuttavia, aveva confiscato i beni sequestrati ai ricorrenti.
A fronte di tale pronuncia, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME «quali terzi interessati alla vicenda» avevano proposto appello, contestando la confisca dei beni.
La Corte territoriale, però, avrebbe omesso di prendere contezza dell’appello da loro proposto.
La suddetta omissione emergerebbe alle pagine 63 e ss. della sentenza, dove la Corte territoriale farebbe riferimento solo agli appelli proposti avverso la confisca operata nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME nonché all’appello proposto da tutti i fratelli COGNOME, nella qualità di ered di NOME COGNOME. La Corte territoriale avrebbe confuso l’appello proposto dai fratelli COGNOME, in qualità di eredi di NOME COGNOME, con quello proposto in proprio dai germani COGNOME, come emergerebbe dalla parte della sentenza in cui la Corte territoriale farebbe riferimento, per gli appelli presentati da NOME COGNOME e dai suoi fratelli, a due distinti atti redatti dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME quando, invece, l’appello proposto in proprio dai germani
COGNOME era stato sottoscritto dagli avvocati COGNOME COGNOME e COGNOME mentre quello proposto dai fratelli COGNOME nella qualità di eredi, era stato sottoscritto soltanto dall’avvocato COGNOME
Tale confusione farebbe sorgere il dubbio che il giudice di secondo grado non si sia confrontato correttamente con le doglianze formulate nelle due diverse impugnazioni, che non sarebbero perfettamente coincidenti.
8.2. Con particolare riferimento alla posizione di NOME COGNOME sostengono che la Corte di appello, sebbene abbia revocato la confisca di un appartamento di proprietà della ricorrente, avrebbe omesso qualsiasi motivazione a sostegno del rigetto della richiesta di revoca della confisca anche di tutti gli altri beni, che sarebbero di sua esclusiva titolarità e che non avrebber alcun legame con le vicende personali dell’ex coniuge, NOME COGNOME. Beni che andrebbero restituiti, atteso che la ricorrente era stata assolta dall’unico reato a lei contestato.
Il ricorso presentato da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME in qualità di eredi di NOME COGNOME si compone di due motivi.
9.1. Con un primo motivo, articolato in più censure, i ricorrenti deducono il vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui ha confermato la confisca delle quote intestate a NOME COGNOME delle società “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE COGNOME Francesco” oltre che delle corrispondenti quote della holding “RAGIONE_SOCIALE“, risultanti dal conferimen in quest’ultima delle quote di “RAGIONE_SOCIALE” e di “RAGIONE_SOCIALE“.
9.1.1. I ricorrenti sostengono che i giudici di merito avrebbero valorizzato eccessivamente gli «elementi di prova della effettività della titolarità in capo a NOME COGNOME di tutte le quote di tutte le società apparentemente riconducibili ai suoi fratelli».
In primo luogo, avrebbero dato grande rilevanza alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia COGNOME senza, tuttavia, rilevare che egli, pur riferendo dell’intestazione fittizia di alcune società, non avrebbe fatto specifico riferimento a quelle indicate al capo 13 dell’imputazione (che è quello relativo alle intestazioni fittizie delle società “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“).
Grande rilievo i Giudici avrebbero attribuito anche alle conversazioni telefoniche e ai messaggi di posta elettronica intercettati, dai quali emergerebbe «il potere di supremazia» di NOME COGNOME nella gestione della holding “RAGIONE_SOCIALE“, costituita il 14 luglio 2006 mediante il conferimento delle quote del società indicate al capo 13, dovendosi da ciò ricavare la prova della titolarità
effettiva in capo a NOME COGNOME delle quote delle società conferite nella holding. Non avrebbero, però, tenuto conto che la concentrazione dei poteri di amministrazione non dimostra la titolarità delle quote e non avrebbero considerato che tutte le conversazioni telefoniche e le captazioni informatiche si collocherebbero temporalmente in un momento successivo al conferimento delle quote nella holding, nella quale era confluito anche il 90% delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE“, formalmente intestate a NOME COGNOME, che era diventato conseguentemente il titolare (anche sotto il profilo formale) della quota di maggioranza della holding. Sarebbero, in ogni caso, conversazioni non particolarmente significative e nessuna di esse dimostrerebbe che NOME COGNOME si fosse sostituito a NOME COGNOME quale amministratore di “RAGIONE_SOCIALE” o che NOME COGNOME, successivamente all’ingresso di NOME COGNOME nella “RAGIONE_SOCIALE“, si fosse comportato come dominus di quest’ultima società.
Con censurabile metodologia, la Corte territoriale avrebbe dato rilievo alla prova ritenuta raggiunta in relazione all’intestazione fittizia di due sale bingo e a fatto che NOME COGNOME non avrebbe proposto impugnazione avverso la condanna inflittagli per le intestazioni fittizie contestate ai 17 e dell’imputazione, ritenendo che da ciò potesse desumersi la generale infondatezza di tutte le prospettazioni difensive rivolte a contestare le altre intestazioni fittizie.
I ricorrenti sostengono che la Corte territoriale non solo avrebbe dato eccessivo rilievo agli elementi a carico, ma avrebbe anche ignorato o scarsamente considerato gli elementi poco compatibili con l’ipotesi accusatoria, incentrata sul presunto tentativo da parte di NOME COGNOME di celare il suo effettivo dominio «sull’intera galassia societaria familiare».
I giudici di merito, infatti, non avrebbero considerato come tale presunto tentativo sarebbe poco compatibile con la trasparente titolarità del 90% delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE” proprio in capo a NOME COGNOME e il successivo conferimento di tali quote nella holding “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva determinato la conseguente palese partecipazione di NOME COGNOME nella holding. Così come le successive operazioni di incorporazione nella holding anche delle società “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” nonché quella di costituzione della “RAGIONE_SOCIALE“, nella quale figurava come socio anche la “RAGIONE_SOCIALE“, manifestavano in maniera evidente la presenza di NOME COGNOME nel gruppo societario.
La Corte d’appello non avrebbe tenuto conto neanche della pronuncia di assoluzione, per non aver commesso il fatto, intervenuta in primo grado in relazione ai reati contestati a NOME COGNOME ai capi 24 e 28 dell’imputazione, che sarebbero significativi della non «ineluttabile compartecipazione, anche psicologica, di NOME COGNOME alle iniziative del fratello NOME».
9.1.2. I ricorrenti contestano la motivazione della sentenza impugnata, in particolare, nella parte relativa all’acquisizione da parte di NOME COGNOME delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE“, avvenuta il 2 marzo 2004, per il prezzo di euro 15.000,00. I giudici di merito avrebbero sostenuto che NOME COGNOME avrebbe dovuto impiegare risorse assai maggiori per procedere a tale acquisizione, in considerazione del vantaggiosissimo contratto, che la società, nel successivo maggio 2004, avrebbe concluso con “Sisal”. I ricorrenti sostengono che tale argomentazione si porrebbe in contrasto con le regole di contabilità, che impedirebbero di prendere in considerazione i contratti «solo percepibili in prospettiva». I giudici di merito, peraltro, non avrebbero neppure indicato quali sarebbero le risorse «assai maggiori» delle quali NOME COGNOME avrebbe dovuto disporre per effettuare l’acquisizione delle quote in questione: mancherebbe, pertanto, il termine di paragone per valutare la congruità delle sue risorse economiche.
9.1.3. I ricorrenti contestano la motivazione della sentenza impugnata, anche nella parte relativa all’acquisizione, da parte di NOME COGNOME, delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE“, evidenziando che, nel gennaio 2007, come ammesso dalla stessa Corte territoriale, NOME COGNOME «era ormai miliardario». L’impossibilità «di individuare quale effettiva percentuale dei guadagni della società “RAGIONE_SOCIALE fosse destinata alle sue tasche» non inciderebbe «sul fatto che 24.000,00 euro fossero abbondantemente alla sua portata».
Analoghe considerazioni varrebbero anche per l’acquisto da parte di NOME COGNOME delle quote di “RAGIONE_SOCIALE“, effettuato il 26 luglio 2007, per prezzo di 60.000,00 euro. Congetturali e contraddittorie sarebbero le argomentazioni spese dalla Corte di appello in ordine a tale acquisto.
9.2. Con un secondo motivo, si deduce il vizio di motivazione, in relazione all’art. 603 cod. proc. pen.
I ricorrenti contestano il rigetto del motivo di appello con il quale la difes aveva avanzato la richiesta di rinnovare l’istruttoria, espletando una perizia volta a ricostruire le capacità reddituali di NOME COGNOME; approfondimento istruttorio che sarebbe stato reso necessario anche dalla valorizzazione data dai giudici di merito a elementi di scarsa efficacia rappresentativa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME COGNOME è parzialmente fondato, quello di NOME COGNOME è fondato, mentre sono inammissibili i ricorsi di NOME COGNOME nonché il ricorso di NOME COGNOME in proprio, i ricorsi degli eredi di NOME COGNOME
(NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME) e i ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nella qualità di terzi interessati.
La sentenza impugnata va, poi, annullata senza rinvio per morte dell’imputato quanto a NOME COGNOME
Prima di affrontare i singoli ricorsi, il Collegio ritiene necessario chiari quali siano i principi cui si è attenuto nello scrutinio di ammissibilità de impugnative, precisazione necessaria perché molti dei ricorsi contengono motivi che non hanno superato tale vaglio.
2.1. Buona parte delle doglianze, infatti, è versata in fatto, contravvenendo all’esegesi – fatta propria anche dalle Sezioni Unite – secondo cui, nel giudizio presso la Corte di cassazione, non è consentito invocare una valutazione o rivalutazione degli elementi probatori al fine di trarne proprie conclusioni in contrasto con quelle del giudice del merito, chiedendo alla Corte di legittimità un giudizio di fatto che non le compete. Esula, infatti, dai poteri della Corte d cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice d merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali; l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha infatti, un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali, se non, in quest’ultimo caso, nelle ipotesi di errore del giudice nella lettura degli atti interni del giud denunciabile, sempre nel rispetto della catena devolutiva, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), ultima parte, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 14722 del 30/01/2020, COGNOME, Rv. 279005, in motivazione; Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, COGNOME, Rv. 249651, in motivazione; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, 3akani, Rv. 216260). Non vi è spazio, dunque, per l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorren come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; pronunzia che trova precedenti conformi in Sez. 5, n. 12634 Corte di Cassazione – copia non ufficiale
del 22/03/2006, COGNOME, Rv. 233780; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, COGNOME, Rv. 235507).
In questa ottica si collocano anche le pronunzie secondo le quali, pur a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità i travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME e altri, Rv. 238215).
2.2. In secondo luogo, ha avuto un ruolo nell’odierna decisione anche il principio a lume del quale vanno ritenuti inammissibili i motivi di ricorso per cassazione non solo quando essi risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì allorché difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (principio ribadito da Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268823). E’ mancato, infatti, rispetto ad alcuni motivi di ricorso, l’ineludibile dialogo critico con gli snodi argomentati che la Corte territoriale ha adoperato per giungere alla decisione sul singolo punto devoluto, dialogo indispensabile per evitare che il ricorrente persegua una propria linea ricostruttiva e censoria, che contesti la decisione ma non lo specifico percorso logico-giuridico che la giustifica.
I ricorsi di NOME COGNOME a firma dell’Avv. NOME COGNOME e dell’Avv. NOME COGNOME.
3.1. Il primo motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME lamenta errata applicazione dell’art. 513-bis cod. pen., perché non sarebbero stati individuati i singoli att concorrenziali diretti a impedire la normale dinamica imprenditoriale ovvero i soggetti coartati attraverso atti di violenza o minaccia e non sarebbero state isolate specifiche azioni dell’imputato tese ad impedire la fisiologica concorrenza tra imprenditori.
Il motivo è manifestamente infondato e, in parte, aspecifico.
Va innanzitutto precisato che il ricorrente – nel dolersi della mancata individuazione di specifiche azioni di inibizione della concorrenza e di singoli concorrenti coartati – non pone una questione di determinatezza del capo di imputazione, ma denunzia, piuttosto, la correttezza del giudizio di penale responsabilità senza che, appunto, siano stati isolati specifici episodi; quanto, invece, alla censura iniziale, circa la consistenza oggettiva delle condotte quali atti di illecita concorrenza, la relativa doglianza va fin d’ora classificata com inammissibile ed esclusa dalle riflessioni che seguono, perché il ricorrente si
limita a trascrivere massime di legittimità, senza tuttavia portare la propria critica su un piano concreto.
3.1.1. Ebbene il ricorso è manifestamente infondato e reiterativo laddove reputa viziata la decisione avversata nella parte in cui ha neutralizzato l’argomentazione difensiva secondo la quale sarebbe stato necessario accertare singoli atti di concorrenza alterata da condotte violente o minatorie.
3.1.2. Il ricorso è, come anticipato, anche aspecifico nella parte in cui trascura l’ulteriore dato probatorio valorizzato in malam partem dai Giudici di merito, ossia la circostanza che di episodi specifici avevano parlato i collaboratori di giustizia NOME COGNOME (cfr. pag. 40 della sentenza impugnata, pag. 27 della sentenza di primo grado) e NOME COGNOME (pag. 38 della sentenza impugnata).
3.2 n secondo motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME – nella parte in cui denunzia violazione di legge e vizio di motivazione quanto al riconoscimento della recidiva, in tesi non supportato da adeguata motivazione – è inammissibile siccome la questione della sussistenza delle condizioni per il riconoscimento della recidiva non era stata posta nei motivi di appello.
3.2.1. L’unico motivo di appello che concerneva la recidiva – il sesto dell’appello dell’Avv. NOME COGNOME – riguardava, infatti, esclusivamente la sua
natura specifica (rispetto, in particolare, ai reati di intestazione fittizia), che punto della decisione diverso e ulteriore rispetto alla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della recidiva.
Per la definizione di punto della sentenza, occorre fare riferimento a Sezioni Unite COGNOME (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Rv. 216239, in motivazione, ripresa da Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280261 e da Sez. U, n. 10251 del 17/10/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 235700, in motivazione), secondo cui «Il concetto di “punto della decisione” riguarda tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo Ne consegue che ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti dell pronuncia finale su ogni reato, quali l’accertamento del fatto, l’attribuzione di esso all’imputato, la qualificazione giuridica, l’inesistenza di cause d giustificazione, la colpevolezza, e – nel caso di condanna- l’accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio».
Orbene, la natura complessa della recidiva, circostanza aggravante ad effetto speciale laddove comporta un aumento di pena superiore al terzo (cfr., ex multis, Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664; Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, COGNOME e altro, Rv. 247838), vede diversi piani di valutazione, ciascuno dei quali rispondente a differenti presupposti, tale da potersi ritenere per usare le parole delle Sezioni Unite COGNOME – suscettibile di autonoma considerazione per ottenere una decisione completa sul capo cui la recidiva accede. Una cosa, infatti, è l’esistenza della recidiva, il cu riconoscimento richiede valutazioni articolate che attengono non solo all’esistenza del precedente definitivo, ma anche alla gravità dei fatti, all’arc temporale in cui questi risultano consumati nonché al rapporto esistente tra il fatto per cui si procede e la precedente condanna e alla verifica se ed in quale misura la pregressa condotta criminosa sia indicativa di una perdurante inclinazione al delitto che abbia influito, quale fattore criminogeno, sull commissione dei reati sub iudice, escludendo che si tratti di ricaduta occasionale (Sez. 2, n. 10988 del 07/12/2022, dep. 2023, COGNOME, Rv. 284425; e le motivazioni di Sez. U, n. 32318 del 30/3/2023, Rv. 284878, COGNOME; Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275319; Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, Indelicato, Rv. 249664; Sez. U, 35738 del 27/05/2010, COGNOME, Rv. 247838). Altro punto della decisione che riguarda la recidiva è la sua natura
aggravata, legata ora ai presupposti di cui al secondo comma dell’art. 99 cod. pen., ora alla reiterazione, ciascuno dei quali, isolatamente o in combinazione con gli altri, risponde a differenti presupposti normativi e giurisprudenziali che vanno separatamente vagliati per dare luogo al giudizio sul capo cui la recidiva si riferisce e che può generare conseguenze diverse ed ulteriori, non solo sul trattamento sanzionatorio e sulla prescrizione, rispetto al riconoscimento della qualità di recidivo semplice.
Ne consegue che il “punto” della decisione concernente la recidiva si compone di vari punti, che attengono, da una parte, alla sua stessa riconoscibilità e, dall’altro, ai connotati che la rendano, eventualmente, aggravata secondo le multiformi possibilità che l’art. 99 cod. pen. prevede. Ciascun punto della decisione circa il riconoscimento della recidiva – da una parte la sua sussistenza, dall’altra la sua natura aggravata – deve quindi essere oggetto di devoluzione al Giudice di appello e la mancanza di una pregressa censura sull’uno o sugli altri punti, preclude la proposizione del ricorso per cassazione sul punto non devoluto.
Tale conclusione sembra, tuttavia, dover trovare un temperamento quando, ad essere oggetto del motivo di appello, sia la sola natura reiterata della recidiva e poi, con il ricorso per cassazione, se ne contesti, alla base, il riconoscimento, considerata la valutazione retrospettiva che le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 32318 del 30/03/2023, COGNOME, Rv. 284878, su cui più diffusamente infra, al § 3.3.) hanno indicato come necessaria nello scrutinio circa i presupposti di cui all’art. 99, comma 4, cod. proc. pen., che passa attraverso il vaglio circa l’esistenza dei requisiti per il riconoscimento della condizione di recidivo semplice.
Fatta questa premessa, il ricorso, come anticipato, è inammissibile perché, sul riconoscimento della recidiva, non vi era motivo di appello, appello che riguardava solo la sua natura specifica quanto alle intestazioni fittizie; donde viene in rilievo il principio secondo cui non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (cfr. l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. quanto alla violazione di legge; si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745 – 01; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, Di Domenica).
3.2.2. D’altra parte al giudizio di inammissibilità del ricorso per cassazione si giungerebbe comunque, anche ove si ritenesse che il motivo di appello sulla
specificità della recidiva avesse comportato, automaticamente, la devoluzione dell’intero punto della decisione circa la sussistenza stessa della recidiva.
In questo caso si porrebbe comunque il problema di verificare, ora per allora, l’ammissibilità del motivo di appello in termini di specificità. Orbene riguardata la censura formulata dall’Avv. COGNOME e considerato che essa riguardava solo la natura specifica della recidiva, il motivo di appello dovrebbe ritenersi inammissibile per aspecificità rispetto al tema, diverso, della sussistenza delle condizioni per la dichiarazione di recidiva (sulla necessaria specificità dell’appello, cfr. Sezioni Unite COGNOME cit.); ne conseguirebbe che il difetto di specific dell’appello andrebbe rilevato ora per allora, sicché alcun rilievo assumerebbe la pretesa, mancata risposta della Corte territoriale sulla sussistenza delle condizioni per la dichiarazione di recidiva, perché i motivi generici restano colpiti dalla sanzione di inammissibilità anche quando la sentenza del giudice dell’impugnazione non pronunci in concreto tale sanzione, sicché il difetto di motivazione della sentenza di appello in ordine a motivi così viziati in radice non può essere oggetto, a pena di inammissibilità, di ricorso per cassazione (Sez. 5, n. 44201 del 29/09/2022, Testa, Rv. 283808; Sez. 3, n. 10709 del 25/11/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 262700; Sez. 1, n. 7096 del 20/01/1986, Ferrara, Rv. 173343).
3.2.3. L’altro versante del motivo in esame GLYPH – quello che denunzia che la recidiva aveva comportato un aumento di pena ancorché le fattispecie cui si riferisce fossero segmenti del reato sub 1) e, allo stesso tempo, causa dell’aumento ex art. 81, comma 2, cod. pen. – è inammissibile siccome generico, dal momento che non si comprende quale sia l’obiettivo della critica.
Qualora il ricorrente abbia voluto sostenere l’incompatibilità tra la continuazione esterna e la recidiva fondata sulle stesse condanne, allora la censura è manifestamente infondata dal momento che la giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso che non esiste incompatibilità fra gli istituti della recidiva e della continuazione, sicché, sussistendone le condizioni, vanno applicati entrambi (Sez. U, n. 9148 del 17/04/1996, COGNOME, Rv. 205543; Sez. 4, n. 21043 del 22/03/2018, B., Rv. 272745; Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018, COGNOME, Rv. 275296; Sez. 6, n. 19541 del 24/11/2011, dep. 2012, COGNOME e altri, Rv. 252847).
3.3. Anche il terzo motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME – che denunzia violazione di legge quanto al riconoscimento della recidiva reiterata – è inammissibile, per le stesse ragioni già illustrate a proposito del motivo precedente, dal momento che, negli atti di appello presentati nell’interesse di NOME COGNOME, non vi era alcuna censura che riguardasse il carattere reiterato della recidiva.
3.3.1. Alle riflessioni già svolte ai precedenti paragrafi 3.2.1 e 3.2.2, v aggiunto che la Corte distrettuale ha comunque affrontato il tema predetto, giacché sollecitata verosimilmente – dalla memoria presentata dalla difesa dell’imputato nel corso del giudizio di appello (il 22 giugno 2021), memoria in cui si sosteneva la necessità di accedere all’interpretazione secondo la quale la recidiva reiterata può essere ritenuta solo allorché vi sia stato il precedente riconoscimento della recidiva semplice.
Fermo restando che su quest’ultimo tema si ritornerà nel trattare del quarto motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME occorre osservare che, anche in questo caso, la mancata formulazione di uno specifico motivo di appello che riguardasse la natura reiterata della recidiva fa ritenere non censurato il relativo punto della sentenza di primo grado e non devoluto l’argomento di censura al vaglio della Corte distrettuale, a tanto non potendo supplire la presentazione di una memoria difensiva nel corso del giudizio di appello che ha affrontato, per la prima volta, la questione.
3.3.2. In disparte questa ragione di inammissibilità, il Collegio intende comunque evidenziare altri due limiti della doglianza.
L’uno legato alla circostanza che essa propugna un’interpretazione oramai persuasivamente superata dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui «In tema di recidiva reiterata contestata nel giudizio di cognizione, ai fini dell relativa applicazione è sufficiente che, al momento della consumazione del reato, l’imputato risulti gravato da più sentenze definitive per reati precedentemente commessi ed espressivi di una maggiore pericolosità sociale, oggetto di specifica ed adeguata motivazione, senza la necessità di una previa dichiarazione di recidiva semplice» (Sez. U, n. 32318 del 30/03/2023, COGNOME, Rv. 284878).
L’altra è che – quando il ricorrente sostiene che non vi fossero i requisiti formali per il riconoscimento della recidiva reiterata, anche valutati ex post, perché il secondo reato era stato commesso quando la prima sentenza non era ancora passata in giudicato – deduce un’argomentazione generica nella misura in cui non chiarisce per quali reati si procedesse e quale fosse, per ciascuno, l’epoca di consumazione così come accertata in sentenza. Connesso a questo limite del ricorso è anche il fatto che esso non è autosufficiente, in quanto la doglianza andava documentata quantomeno con la produzione delle sentenze su cui fondava la recidiva; a maggior ragione laddove – come risulta dal certificato penale il secondo reato è un’associazione per delinquere di stampo mafioso, quindi una fattispecie permanente rispetto alla quale la verifica dell’estensione temporale della condotta doveva necessariamente passare per un esame, oltre che dell’imputazione elevata dal pubblico ministero, anche del contenuto delle sentenze di merito.
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Tale difetto ha una precisa ripercussione sull’ammissibilità del ricorso, in quanto è principio acquisito nella giurisprudenza di questa Corte che sono inammissibili, per violazione del principio di autosufficienza e per genericità, motivi di ricorso per cassazione che deducano vizi rilevanti ex art. 606 cod. proc. pen. ma che, pur richiamando atti specificamente indicati, non contengano la loro integrale trascrizione o allegazione (Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270071; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, COGNOME, Rv. 265053) ovvero quantomeno l’indicazione precisa della collocazione di essi all’interno del fascicolo (Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, COGNOME, Rv. 260994). Non si ritiene che tali principi possano dirsi superati dall’entrata in vigore dell’a 165 bis, co. 2, d.lgs 28 luglio 1989, n. 271, inserito dall’art. 7, d.lgs. 6 febbra 2018, n. 11, secondo cui, in caso di ricorso per cassazione, copia degli atti “specificamente indicati da chi ha proposto l’impugnazione ai sensi dell’art. 606, comma 1 lett. e) del codice”, è inserita a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato in separato fascicolo da allegare al ricorso, prevedendosi che, nel caso in cui tali atti siano mancanti, ne sia fatta attestazione. Tale previsione normativa, infatti, non esonera il ricorrente dall’onere di indicare nel ricorso gli atti da inserire nel fascicolo, che ne consent la pronta individuazione da parte della cancelleria, organo amministrativo al quale non può essere delegato il compito di identificazione degli atti attraverso la lettura e l’interpretazione del ricorso. Tale indicazione non può che tradursi, in concreto, proprio per l’impossibilità di demandare alla valutazione discrezionale dell’organo amministrativo la selezione degli atti su cui fonda la doglianza, nella richiesta alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato di allegare, al ricorso da trasmettere alla Suprema Corte, la copia degli atti in questione, che la cancelleria provvederà a inserire in apposito fascicolo, ove non fossero stati già trasmessi, o di cui attesterà la mancanza, ove non risultino presenti nella documentazione processuale. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Ovviamente le indicate modalità non impediscono al ricorrente di procedere alla integrale allegazione o trascrizione nel ricorso degli atti di cui lament l’inadeguata valutazione da parte del giudice di merito (Sez. 5, n. 5897 del 03/12/2020, dep. 2021, Cossu, Rv. 280419 ; Sez. 2, n. 35164 del 08/05/2019 COGNOME, Rv. 276432 ).
3.3.3. Quando, infine, il ricorrente sostiene che «la condotta di reato ascritta al Grasso inizia nel 1990» prima del passaggio in giudicato delle sentenze della Corte di appello di Napoli e della Corte di Assise di appello di Napoli, rispettivamente, del 7 ottobre 1992 e del 11 novembre 1994, formula una censura non ben comprensibile, tenuto conto che, nel presente processo, COGNOME risponde di vari reati e che, dei due addebiti associativi, l’uno è contestato dalla
prima metà degli anni ’90 ma con condotta permanente «ad oggi» è l’altro va dal 2005 al 2008.
3.4. Ragioni di ordine espositivo impongono di passare immediatamente al quinto motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME che contiene un’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 99, comma 4, cod. pen. secondo l’interpretazione della sentenza delle Sezioni Unite COGNOME sopra citata, per contrarietà con gli artt. 3, 25, comma 2 e 27, comma 3 Cost, quest’ultimo richiamato anche dall’art. 49 comma 2 della CEDU.
Il ricorrente ha illustrato la sua mozione richiamando l’ordinanza di rinnessione alle Sezioni Unite e sostenendo la tesi secondo cui il riconoscimento della recidiva, come desumibile dai meri precedenti penali, reintrodurrebbe un automatismo sanzionatorio ripudiato dalla giurisprudenza costituzionale.
Ebbene la questione è manifestamente infondata per varie, concorrenti ragioni.
3.4.1. Innanzitutto, vi è un difetto metodologico del proporla, giacché nel ricorso manca la doverosa, puntuale illustrazione dell’eccezione di incostituzionalità sub specie delle ragioni dell’attrito dell’esegesi di Sezioni Unite COGNOME con le norme costituzionali evocate; illustrazione cui non può supplire il mero richiamo all’ordinanza di rimessione.
3.4.2. Legata al vizio di impostazione di cui sopra è la circostanza che la tesi propugnata dal ricorrente non si confronta con l’ampia argomentazione svolta dalle Sezioni Unite, che, pur respingendo la tesi che, per potersi riconoscere la recidiva reiterata, occorra una precedente dichiarazione giudiziale di recidiva semplice, hanno sancito la necessità che il Giudice di merito svolga un’accurata valutazione del percorso personale dell’imputato; in particolare, l’autorevole precedente postula la «necessità che i fatti oggetto delle pregresse condanne ed il nuovo delitto siano esaminati nelle loro connotazioni sintomatiche di un progressivo rafforzamento della determinazione criminosa e dell’attitudine a delinquere del reo», così da ovviare al mancato riconoscimento giudiziale della recidiva semplice ma, nel contempo, da vagliare adeguatamente il «presupposto sostanziale della recidiva in tutti i passaggi del percorso criminale del reo». «La valutazione, fra gli altri, del reato oggetto della seconda condanna precedente, nel suo apporto al consolidamento dell’attitudine a delinquere» hanno altresì sostenuto le Sezioni Unite «è infatti in grado di motivare l’esistenza di una base recidivante che sostiene l’aumento corrispondente alla recidiva reiterata, in presenza di un nuovo delitto stimato come fattore indicativo di ulteriore rafforzamento della predetta attitudine».
Tale considerazione è la conseguenza naturale del fatto che se «l’oggetto del giudizio sulla recidiva reiterata, come sulla recidiva in generale, deve comprendere il contributo specifico di tutti i reati della serie esaminata alla
(..);
formazione ed al consolidamento della risoluzione e della disposizione criminale del reo, lo stesso assorbe necessariamente quella che sarebbe stata la valutazione sul passaggio della recidiva semplice, in quanto riguardante anche la significatività propria del delitto che avrebbe determinato la configurabilità dital ipotesi. Nella situazione in esame, in altre parole, tale valutazione non rimane omessa, ma può e deve essere effettuata, sia pure retrospettivamente, nell’ambito di quella attinente alla fattispecie della recidiva reiterata».
Ebbene, se tale valutazione retrospettiva della condotta dell’imputato (in uno a quella più attuale circa la significatività del nuovo reato nell’ambito dell ricostruzione del suo percorso delinquenziale) costituisce il meccanismo delineato dalle Sezioni Unite per ritenere scongiurato il rischio dell’automatismo sanzionatorio” genericamente invocato dal prevenuto, per sostenere la questione di legittimità costituzionale agitata con il ricorso sarebbe stata necessaria un’articolazione censoria particolarmente puntuale; articolazione che avrebbe dovuto tenere conto della sentenza COGNOME non solo per tacciare genericamente di illegittimità costituzionale l’esegesi dell’art. 99 cod. pen. iv recepita, ma anche per sviluppare argomentazioni che spiegassero concretamente le ragioni dei persistenti dubbi di costituzionalità pur a fronte della distanza presa dal massimo Consesso rispetto all’equazione valutativa tra esistenza dei precedenti e riconoscimento della recidiva reiterata.
3.5. Il sesto motivo di ricorso dell’Avv. lazzetti lamenta violazione di legge processuale quanto agli artt. 521 e 522 cod. cod. pen., per aver ritenuto spostata in avanti la data di consumazione del reato di intestazione fittizia di cui al capo 13, individuata nel 14 luglio 2006, data di costituzione della holding RAGIONE_SOCIALE, dal che sarebbe derivata la mancata declaratoria di prescrizione del suddetto reato, di natura istantanea e non a condotta frazionata.
Tale motivo è manifestamente infondato e generico.
La doglianza, infatti, non è chiaramente esplicitata. Oltre al riferimento alle società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE che si legge nel ricorso, sarebbe stato, infatti, necessario un particolare rigore espositivo per chiarire, al di là del mero riferimento di cui sopra, quale fosse il tratto di diversità tra contestazione e la condanna. Si trattava di un passaggio ineludibile, tenuto conto:
della circostanza che l’intestazione fittizia delle quote RAGIONE_SOCIALE – società in cui erano convogliate le quote delle società già oggetto di intestazione fittizia – era oggetto di specifica contestazione;
che, a dispetto di quanto sembra obiettare il ricorrente, la data del commesso reato è indicata nel capo di imputazione come collocata in un certo arco temporale, che va dalla costituzione della prima società a quella dell’ultima, secondo una tecnica redazionale ricorrente nei capi di
imputazione caratterizzati da continuazione interna, senza che questo significasse una precisa collocazione del tempus commissi delicti alla prima o all’ultima data,
che tali date corrispondevano solo alla creazione di due delle società menzionate al capo 13, momenti che non necessariamente coincidono con le intestazioni fittizie, che si individuano nel momento in cui, a ciascuno degli interposti, è stata consentita la sottoscrizione di quote o di azioni ovvero è stata mutata, sempre in un’ottica dissimulativa della reale appartenenza a NOME COGNOME la titolarità di tali quote o azioni (in questo senso, cfr. anche infra 7.2.2.);
GLYPH in altri termini, che tali date circoscrivevano il tempo in cui COGNOME aveva operato le intestazioni fittizie di quote, spesso non limitate a quella originaria ma ripetutesi nel caso di aumenti di capitale sottoscritti dagli stessi o da altri intestatari fittizi o nel caso di conferimento delle quote d società più vecchie nella holding.
La questione specificamente posta per le quote di NOME COGNOME nella società “RAGIONE_SOCIALE è assorbita dalla declaratoria di prescrizione illustrata al paragrafo 3.10.
3.6. Il settimo motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME deduce erronea applicazione di legge penale quanto al reato di cui al capo 13, sub specie dell’intestazione fittizia delle quote della società RAGIONE_SOCIALE
Sul punto il ricorso è aspecifico quando contesta la ritenuta finalità dissimulatoria dell’intestazione del 10 °A3 delle quote della RAGIONE_SOCIALE da NOME COGNOME alla sorella NOME, benché il restante 90 % fosse in capo a lui, perché reitera un’obiezione critica già formulata rispetto alla sentenza di primo grado, obiezione che, tuttavia, aveva ricevuto una risposta non manifestamente illogica da parte della Corte distrettuale, che non è stata specificamente avversata nel ricorso.
La Corte di appello, infatti, ha inquadrato la condotta nell’ambito della generale tendenza di Grasso alla mistificazione della realtà della sua attività di impresa e ha individuato la logica dissimulatoria GLYPH essenziale per ritenere integrato il reato di cui all’art. 12-quinquies I. 356 del 1992 GLYPH anche dell’intestazione di quel 10 % delle quote della RAGIONE_SOCIALE alla sorella NOMECOGNOME nella volontà di depistare l’osservatore.
Su questa argomentazione, il ricorrente non ha formulato censure, donde il ricorso è, in parte qua, inammissibile.
3.7. Il decimo motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME – che lamenta vizio di motivazione quanto alla confisca delle somme e dei titoli giacenti sui rapporti bancari personali del COGNOME e della moglie di quest’ultimo nonché di alcune polizze vita sempre dei medesimi – è inammissibile.
In primo luogo, il ricorrente non ha interesse a formulare una doglianza che attiene alle possidenze della moglie, giacché non postula chiaramente che essi fossero solo fittiziamente di quest’ultima (ma che in realtà appartenessero a lui stesso); ne consegue che, se si sostiene che i beni sono realmente di NOME COGNOME allora difetta il presupposto di cui all’art. 568, comma 4, codice di in capo a COGNOME, dal momento che l’eventuale restituzione spetterebbe alla moglie e non a lui.
In secondo luogo l’intera censura è inammissibile siccome corrisponde a motivi di appello del tutto generici, cui peraltro la Corte di appello h ampiamente risposto a pag. 102 della sentenza impugnata.
Tale anomalia va rilevata ora per allora perchè l’inammissibilità dell’impugnazione non rilevata dal giudice di secondo grado deve essere dichiarata dalla Cassazione, quali che siano state le determinazioni cui detto giudice sia pervenuto nella precedente fase processuale, atteso che, non essendo le cause di inammissibilità soggette a sanatoria, esse devono essere rilevate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (Sezioni Unite COGNOME, in motivazione; Sez. 2, n. 40816 del 10/07/2014, COGNOME, Rv. 260359; Sez. 4, n. 16399 del 03/10/1990, COGNOME, Rv. 185996; Sez. 1, n. 3462 del 24/09/1987, COGNOME, Rv. 176912).
3.8. Il secondo e il terzo motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME – che contestano lo spostamento in avanti della data del commesso reato per le intestazioni fittizie di cui al capo 13, con particolare riferimento alla violazione degli artt. 521 e 52 cod. proc. pen. – sono generici e manifestamente infondati.
In primo luogo, i motivi non contengono la dovuta precisazione delle società cui si riferisce la doglianza, precisazione che – come già il Collegio ha affermato per il ricorso dell’Avv. COGNOME (cfr., supra, § 3.5. del considerato in diritto) sarebbe stata necessaria, data la particolare complessità delle vicende delle società della galassia COGNOME e dello stesso capo 13, in cui sono contestate, con continuazione interna, svariate condotte di intestazione fittizia.
Il ricorso, invece, allude genericamente ad una traslazione in avanti del tempus commissi delicti, legata all’ancoraggio ad un aumento di capitale, senza spiegare a quali società la doglianza si riferisca e quale sarebbe, per ciascuna condotta, l’effettiva data di consumazione.
Ad ogni buon conto, la censura circa la violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. è anche manifestamente infondata perché come già precisato, supra, al § 3.5. del considerato in diritto – muove da un presupposto errato, vale a dire che, nel capo di imputazione, vi fosse una collocazione precisa della data di commissione del reato per tutte le società, senza considerare che quello che è indicato in calce al capo 13 è solo il periodo di tempo entro il quale si sono snodate le vicende addebitate a Grasso come delimitato dalla data di costituzione
della prima società a quella dell’ultima; e senza considerare che, al netto dell’errata indicazione del reato come permanente, nel capo di imputazione non è specificato che il momento consumativo delle intestazioni fittizie fosse solo quello di costituzione iniziale della società e di prima attribuzione delle quote agl interposti e non quello in cui erano avvenute le ulteriori operazioni di sottoscrizione di aumenti di capitale.
A questo riguardo, giova precisare che la lettura del combinato disposto degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. non può prescindere dall’esegesi che ne ha offerto questa Corte, anche a Sezioni Unite. Secondo il Supremo consesso, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205619; in termini, cfr. Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Ogbeifun Hope, Rv. 281477; Sez. 2, n. 34969 del 10/05/2013, COGNOME e altri, Rv. 257782; Sez. 5, n. 9347 del 30/01/2013, COGNOME e altro, Rv. 255230; Sez. 6, n. 6346 del 09/11/2012, dep. 2013, COGNOME e altri, Rv. 254888; nonché le motivazioni di Sez. 5, n. 31680 del 22/05/2015, COGNOME, Rv. 264673).
Volendo schematizzare al massimo il principio enunciato, ciò che rileva, dunque, non è il dato “secco” dell’assenza, nella contestazione, del segmento fattuale per cui è intervenuta condanna, ma la concreta verifica se, rispetto a questo novum, l’imputato abbia potuto esercitare le proprie prerogative difensive. A questo proposito, il ricorrente non ha chiarito come un’istruttoria dibattimentale tesa all’analisi complessiva e pluriennale delle vicende delle società della galassia COGNOME e del ruolo di Renato rispetto a quello dei soggetti interposti possa avere conculcato il diritto di difesa, rispetto alla pretesa diversi legata al tempo del commesso reato.
Quanto al terzo motivo, esso è generico e in fatto quando dubita del raggiungimento della prova del reato commesso, perché oppone apoditticamente, al costrutto della Corte di appello, una propria tesi alternativa e soggettivamente orientata, estranea ai confini del giudizio di legittimità (cfr supra § 2 del considerato in diritto).
3.9. Il quarto motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME che lamenta violazione di legge e omessa motivazione quanto alla censura di bis in idem in relazione al segmento di contestazione di cui al capo 1), concernente il concorso esterno con il clan dei Casalesi, con condotta continuata dalla prima metà degli anni novanta fino ad aprile 2009 – è aspecifico siccome ignora del tutto la risposta che la Corte di merito ha fornito a pag. 54; nel tratto della decisione ivi riportat infatti, la Corte distrettuale ha rimarcato, quali elementi ostativi riconoscimento della richiesta di improcedibilità per bis in idem, la non perfetta sovrapponibilità dei fatti di cui alle imputazioni e, soprattutto, la circostanza che nella sentenza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, la contestazione era molto più limitata temporalmente rispetto a quella del presente procedimento, perché la prima concerneva un “reato accertato fino al giugno 2005”, mentre l’addebito di concorso esterno in associazione per delinquere oggi sub iudíce è contestato “con condotta continuata dalla prima metà degli anni 90 ad oggi”, con la protrazione fino alla data della sentenza di primo grado (12 aprile 2019) o, quantomeno – ha aggiunto la Corte di appello – fino alla data della richiesta di rinvio a giudizio del 18 dicembre 2009.
Rispetto a queste considerazioni, nulla si legge nel ricorso.
3.10. Venendo ai motivi fondati, il quarto motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME e il primo dell’Avv. COGNOME che lamentano vizio di motivazione e violazione di legge quanto alla qualificazione come specifica, rispetto al reato di cui all’art. 12 quinquies I. 356 del 1992, della recidiva colgono nel segno.
3.10.1. A questo riguardo, ricollegandosi a quanto già osservato supra al § 3.2.1. del considerato in diritto, si deve ritenere che l’inammissibilità del ricors per mancanza di un motivo di appello, quanto alla sussistenza stessa della recidiva, non travolga anche la censura circa la sua specificità, essendo quest’ultima connotazione della recidiva un punto ulteriore rispetto a quello che concerne la sussistenza e la conformazione dell’aggravante. Una cosa, infatti, è il riconoscimento della recidiva, altri aspetti sono la sua reiterazione e/o la sua specificità, rispetto ai quali il condannato in primo grado o in appello può ritenere la sentenza specificamente viziata e, quindi, attingerla con un ricorso mirato a quell’aspetto, aspetto che come già precisato – l’imputato ha interesse a contestare siccome foriero di conseguenze in malam partem, anche quanto al trattamento sanzionatorio e alla prescrizione.
Ebbene, si deve convenire con entrambi i ricorsi sulla circostanza che la Corte di appello, benché vi fosse un motivo di appello (il sesto dell’Avv. NOME COGNOME) sulla qualificazione come specifica della recidiva rispetto al reato di intestazione fittizia, non ha risposto. Va, poi, escluso che la questione fosse manifestamente infondata, giacché la natura dei precedenti di COGNOME (per associazione per delinquere di stampo mafioso e per estorsione) e la mancata
contestazione o l’esclusione, per le intestazioni fittizie, dell’aggravante mafiosa, avrebbe reso necessaria una puntuale motivazione sull’identità di indole, che il Collegio di seconde cure, benché sufficientemente sollecitato, non ha offerto e che dovrà essere oggetto di nuova valutazione. Il rinvio si impone perché tale vaglio non può essere svolto da questa Corte, implicando valutazioni di merito concernenti la natura dei precedenti e il legame rispetto ai reati sub iudice, che trascenderebbero i confini dello scrutinio di legittimità.
La fondatezza del motivo di ricorso impone, dunque, di annullare, in parte qua, la sentenza impugnata e di rinviare ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per il giudizio sulla specificità della recidiva quanto ai reati di cui al 12-quinquies I. 356 del 1992; l’esito caducatorio odierno impone, tuttavia, anche di prendere atto della prescrizione maturata, ad oggi, di alcuni dei reati di intestazione fittizia, pur considerandoli ancora aggravati dalla recidiva sia reiterata che specifica.
Più precisamente, sono alla data odierna prescritti – considerate le sospensioni che più avanti saranno precisate i reati di intestazione fittizia di cui:
-al capo 13, quanto alle quote della società “RAGIONE_SOCIALE” intestate a NOME COGNOME, prescrizione massima maturata il 19 febbraio 2024;
-al capo 13, quanto alle quote della “RAGIONE_SOCIALE” di NOME COGNOME prescrizione massima maturata il 16 gennaio 2024;
-al capo 16, quanto alle quote della “RAGIONE_SOCIALE” di NOME COGNOME, prescrizione massima maturata il 16 gennaio 2024;
-al capo 19, quanto all’impresa individuale di NOME COGNOME, prescrizione massima maturata il 10 settembre 2016;
-al capo 19, quanto all’impresa individuale “RAGIONE_SOCIALE“, prescrizione massima maturata il 13 marzo 2016;
-al capo 19, quanto all’impresa individuale “RAGIONE_SOCIALE“, prescrizione massima maturata il 12 settembre 2020.
Per il calcolo della prescrizione si è tenuto conto, anche per i reati commessi prima dell’8 dicembre 2005, del regime successivo alla legge 251 del 2005 siccome più favorevole; il termine di prescrizione ordinario è stato individuato in quello di anni sette e mesi sei più due terzi ex art. 99, comma 4, seconda parte cod. pen.; a tale termine, per giungere a quello massimo, sono stati aggiunti ulteriori due terzi, ex art. 161, comma 2, cod. pen.; alle date così individuate sono stati aggiunti, infine, 1205 giorni di sospensione, legati ai rinvii di segui indicati.
Primo grado
18.3.11 – 6.5.11 per astensione difensori = 49 giorni;
06.5.11 – 20.5.11 per astensione difensori = 14 giorni;
18.11.11 – 6.12.11 per astensione difensori = 18 giorni;
16.3.12. – 12.6.12 per astensione difensori = 88 giorni;
12.06.2012 – 17.07.2012 per impedimento difensore= 35 giorni;
18.09.2012 – 16.11.2012 per astensione difensori = 59 giorni;
26.03.2013 – 03.05.2013 per astensione difensori = 38 giorni;
16.7.13 – 25.3.14 per astensione difensori = 252 giorni;
26.05.2015 – 17.07.2015 per richiesta rinvio difesa = 52 giorni;
23.2.18 – 22.5.18 per astensione difensori = 88 giorni.
Secondo grado
16.11.2020 – 22.03.2021 per richiesta rinvio difesa = 126 giorni;
22.04.2021 – 14.06.2021 per richiesta rinvio difesa = 53 giorni;
17.06.2021 – 07.07.2021 per richiesta rinvio difesa per isolamento fiduciario NOME COGNOME = 20 giorni;
30.09.2021 – 15.12.2021 per richiesta rinvio difesa = 76 giorni;
15.12.2021 – 23.02.2022 per richiesta rinvio difesa per isolamento fiduciario Avv. Pane = 60 giorni;
06.06.2022 – 15-09-2022 per richiesta rinvio difesa = 101 giorni;
15.09.2022 – 30.11.2022 per richiesta rinvio difesa = 76 giorni;
Nessuna sospensione della prescrizione vi è stata, invece, per la normativa emergenziale anticovid, dal momento che non era fissata alcuna udienza né altra attività processuale che abbia subito sospensione nel periodo che va dal 9 marzo all’H maggio 2020, come richiesto da Sez. U, n. 5292 del 26/11/2020, dep. 2021, Sanna, Rv. 280432 – 02, secondo cui «In tema di disciplina della prescrizione a seguito dell’emergenza pandemica da Covid-19, la sospensione del termine per complessivi sessantaquattro giorni, prevista dall’art. 83, comma 4, del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, si applica ai procedimenti la cui udienza sia stata fissata nel periodo compreso dal 9 marzo all’il maggio 2020, nonché a quelli per i quali fosse prevista la decorrenza, nel predetto periodo, di un termine processuale. (In motivazione, la Corte ha escluso che la sospensione della prescrizione possa operare in maniera generalizzata, per tutti i procedimenti pendenti, in quanto la disciplina introdotta all’art.83, comma 4, d.l. n.18 del 2020, presuppone che il procedimento abbia subito una effettiva stasi a causa delle misure adottate per arginare la pandemia)».
3.10.2. Quanto alla possibilità che il presente giudizio sfociasse, per i reati prescritti, in un proscioglimento ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., il Collegio osserva che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma della predetta disposizione soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la
commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione ictu ocu/i, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U., n. 35490 del 28/05/2009, COGNOME, Rv. 244274). Nel caso di specie, i motivi sulla responsabilità, per le ragioni indicate per ciascuno, sono inammissibili, donde alcun margine sussiste per una pronunzia liberatoria ai sensi della norma citata.
3.10.3. La parziale declaratoria di prescrizione non impone il dissequestro delle quote societarie intestate agli interposti e oggetto degli addebiti estint giacché essa non mette in discussione che le quote cui attengono i reati prescritti – sottoposte a confisca – siano riconducibili a NOME COGNOME il che ne impone l’ablazione perché la confisca è stata disposta, nei suoi confronti, ex art. 240-bis cod. pen. (in cui è confluito l’art. 12-sexies I. 356 del 1992), per sproporzione rispetto ai redditi leciti. Tale confisca è stata ordinata non solo per i reati di all’art. 12-quinquies I. 356 del 1992, ma anche perché COGNOME è stato riconosciuto responsabile del reato di cui agli artt. 110, 416-bis cod. pen. per cui non vi è stato annullamento e la misura ablatoria ha riguardato, come previsto dal legislatore, anche i beni posseduti per interposta persona, come, appunto, le quote societarie.
A questo riguardo, fermo restando che non vi è motivo di ricorso sulla confisca delle quote societarie in cui si dubiti dell’applicabilità della confisca p sproporzione anche al reato di concorso esterno per associazione mafiosa, il Collegio precisa che appare condivisibile l’insegnamento di Sez 1, n. 8316 del 21.12.15, in motivazione, secondo cui «l’indicazione del reato presupposto (tra i molti) come quello di cui all’art. 416 bis cod.pen. ricomprende, in tutta evidenza, il concorrente esterno nel reato plurisoggettivo. La valenza indicativa sta infatt nella fattispecie evocata, al più potendo venire in rilievo il dubbio nell’ipotesi delitto tentato Il concorso esterno è infatti punibile secondo il model causale di verificazione di un evento e pertanto il concorrente esterno realizza un segmento della complessa fattispecie incriminatrice che può essere anche di notevole rilevanza (tanto da poter accedere, in verità, non soltanto alla condotta partecipativa di cui al co.1 ma anche, nei casi di maggiore rilevanza, a quelle descritte nel comma 2 ed in ogni caso risente della connotazione associativa cui va ad accedere, con applicabilità delle aggravanti interne). Dunque lì dove il legislatore eleva a sintomo di pericolosità patrimoniale la condanna per il delitto di associazione di stampo mafioso ricom prende le condotte con corsuali, senza necessità alcuna di apposita indicazione della clausola estensiva di cui all’art. 110 cod.pen.»
3.11. L’ottavo motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME e il sesto dell’Avv. Pane che riguardano il diniego delle circostanze attenuanti generiche – sono assorbiti dall’annullamento che riguarda la recidiva specifica e che travolge, pertanto, il calcolo della pena base.
3.12. Sono fondati anche il nono motivo di ricorso dell’Avv. COGNOME e il quinto dell’Avv. COGNOME che lamentano violazione dell’art. 81, comma 2, cod. pen. Effettivamente, dalla sentenza della Corte di appello di Napoli del primo luglio 2019, allegata al ricorso e passata in giudicato il 23 febbraio 2021 (cfr. certificato penale aggiornato), si trae che la Corte di appello di Napoli ha riconosciuto la continuazione tra i reati oggetto di quel processo e quelli per cui NOME COGNOME era stato già condannato dalla Corte di Assise di appello di Napoli 1’11 novembre 1993, con sentenza divenuta definitiva; per gli stessi reati, pure ritenuti in continuazione esterna con quelli oggi sub íudice, la Corte di appello di Napoli, con la sentenza oggi impugnata, ha inflitto la pena di due anni di reclusione quale aumento ex art. 81, comma 2, cod. pen.
Ne consegue che la decisione avversata va annullata anche quanto a questa frazione del trattamento sanzionatorio.
Il ricorso di NOME COGNOME che concerne il quantum di riduzione per le circostanze attenuanti generiche che la Corte di appello gli ha concesso – è manifestamente GLYPH infondato GLYPH giacché, GLYPH a GLYPH dispetto GLYPH di GLYPH quanto GLYPH ritenuto nell’impugnativa, la motivazione della Corte sul punto va oltre lo standard giustificativo imposto dalla giurisprudenza di questa Corte sul tema oggetto della doglianza. Si è persuasivamente sostenuto, a quest’ultimo riguardo, che deve ritenersi adempiuto l’obbligo di motivazione da parte del giudice di merito in ordine alla misura della riduzione della pena per effetto dell’applicazione di un’attenuante, attraverso l’adozione, in sentenza, di una formula sintetica (quale: “Si ritiene congruo”) (Sez. 4, n. 54966 del 20/09/2017, COGNOME, Rv. 271524; Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998 , COGNOME S e altri, Rv. 211583). Nella specie, la Corte di appello ha chiarito che la densità di precedenti penali a carico dell’imputato (efficacemente rappresentati nell’espressione «pessima biografia criminale») imponeva di contenere la portata mitigatoria del beneficio concesso.
Il ricorso di NOME COGNOME che si duole della mancata declaratoria di prescrizione per l’unico reato di cui l’imputato è stato riconosciuto responsabile – è fondato.
NOME risponde del reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. sub capo 22) che, a pag. 148 della sentenza di primo grado, il Tribunale ha collocato, genericamente, nel 2004, riconducendo il tempus commissi delícti all’inizio della collaborazione del prevenuto con la giustizia; non risulta che a NOME sia stata
riconosciuta la recidiva, mentre in primo grado gli è stata concessa la circostanza attenuante di cui all’art. 8 I. 203 del 1991 (oggi 416-bis.1, comma 3, cod. pen.) e, in secondo grado, le circostanze attenuanti generiche.
La genericità dell’indicazione del Tribunale impone di ritenere, in un’ottica di favor rei, che il reato sia stato commesso al più tardi il 31 dicembre 2003, donde può trovare applicazione la disciplina anteriore all’entrata in vigore della. L. 251 del 2005 che, nel concreto, risulta più favorevole della disciplina attuale.
Tanto premesso, questi sono stati i passaggi che hanno condotto il Collegio all’individuazione del tempo di prescrizione.
La pena massima del reato di cui all’art. 513-bis cod. pen. è di 6 anni.
All’imputato sono state riconosciute la circostanza attenuante di cui all’art.
8 I. 203 del 1991 (oggi 416-bis.1, comma 3, cod. pen.), che prevede una diminuzione della pena da un terzo alla metà, e le circostanze attenuanti generiche.
L’art. 7 I. 203 del 1991 – pur contestato – non trova applicazione nel caso di concessione dell’attenuante della collaborazione, ex art. 8, comma 2, I. 203 del 1991 e ex comma 4 art. 416-bis.1 cod. pen.
Secondo la disciplina vigente al 31 dicembre 2003, si tiene conto della diminuzione minima per le circostanze attenuanti concesse, ex art. 157, comma 2, cod. pen. vecchio regime (un terzo per l’attenuante dell’art. 8 e un giorno per le circostanze attenuanti generiche).
La diminuzione predetta determina la collocazione del massimo edittale al di sotto dei cinque anni, sicché la prescrizione ordinaria è di 5 anni ex art. 157, comma 1, n. 4), cod. pen. vecchio regime.
La prescrizione massima è pari ad anni sette e mesi sei ex art. 160, comma 2, cod. pen. vecchio testo.
Gli artt. 157, comma 6, art. 160, comma 2, e 161, comma 2, cod. pen. che, per i reati di cui all’art. 51, comma 3-bis cod. proc. pen., contemplano il raddoppio dei termini di prescrizione ed escludono l’esistenza del limite al prolungamento del termine di prescrizione legato alle interruzioni – sono stati introdotti dall’art. 6 della I. 251 del 2005, quindi non si applicano al caso d specie.
Il termine massimo di prescrizione è decorso il 30 giugno 2011, cui vanno aggiunti solo 63 giorni di sospensione, siccome legati agli unici eventi processuali avvenuti anteriormente a quella data, vale a dire i rinvii per astensione dei difensori dal 18 marzo 2011 al 6 maggio 2011 e dal 6 maggio 2011 al 20 maggio 2011.
Il reato, quindi, è prescritto e la sentenza impugnata, quanto alla posizione di NOME COGNOME, va annullata senza rinvio.
6. La sentenza impugnata va annullata senza rinvio quanto alla posizione di NOME COGNOME per morte dell’imputato, avvenuta il 4 marzo 2024, come da certificato di morte in atti.
I reati contestati a NOME COGNOME pertanto, ai sensi dell’art. 150 cod. pen., sono estinti e la sentenza impugnata, in difetto dell’evidenza di cause di non punibilità riconducibili all’art. 129, comma 2, cod. proc. pen., deve essere annullata senza rinvio.
La morte dell’imputato, intervenuta successivamente alla proposizione del ricorso per Cassazione, invero, impone l’annullamento senza rinvio, con l’enunciazione della relativa causale nel dispositivo, risultando esaurito il sottostante rapporto processuale, ed essendo preclusa ogni eventuale pronuncia di proscioglimento nel merito ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., in difetto dell’evidenza di cause di non punibilità (Sez. 3, Sentenza n. 23906 del 12/05/2016, Patti, Rv. 267384).
Alla morte dell’imputato, consegue anche la restituzione agli aventi diritto dei beni di NOME COGNOME e della moglie NOME COGNOME di cui i giudici di merito avevano disposto la confisca ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen.
Invero, la morte dell’imputato, estinguendo il reato, fa venire meno la possibilità di applicare, nei confronti degli eredi, la confisca a norma dell’art. 1 sexies, d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356 (ora art. 240-bis cod. pen.) del bene il cui valore risulti sproporzionato rispetto ai redditi e alle attività economiche dell’imputato (Sez. 2, n. 35185 del 21/09/2020, COGNOME, Rv. 280458; Sez. 2, n. 43776 del 04/10/2013, COGNOME, Rv. 257306; Sez. 1, n. 17716 del 17/02/2010, COGNOME, Rv. 247067).
La confisca ex art. 12-sexies, d.l. 8 giugno 1992 n. 306 (ora art. 240-bis cod. pen.), infatti, presuppone una pronuncia di condanna definitiva per determinati titoli di reato, che, nel caso di morte del reo, non potrà mai intervenire.
Non devono essere restituite, però, le quote delle società “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“.
/
I giudici di merito, infatti, hanno accertato che tali beni erano solo formalmente intestati a NOME COGNOME, ma sostanzialmente appartenenti a NOME COGNOME. In relazione a tali beni, sussistono tutti i presupposti per la confisca ex art. 240-bis cod. pen. e, in particolare, la condanna dell’imputato (NOME COGNOME per taluno dei delitti previsti dall’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen.
In conclusione, dunque, i reati sono estinti per morte dell’imputato e la sentenza impugnata, quanto alla posizione di NOME COGNOME va annullata senza rinvio. Vanno, conseguentemente, restituiti agli aventi diritto i beni di
NOME COGNOME e della moglie NOME COGNOME a eccezione delle quote delle società “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“.
Il ricorso presentato nell’interesse di NOME COGNOME deve essere dichiarato inammissibile.
7.1. Il primo motivo, in entrambe le censure nelle quali si articola, è inammissibile.
7.1.1. La prima censura è intrinsecamente generica.
Il ricorrente sostiene che la sentenza sarebbe nulla, in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di prendere contezza dell’appello proposto, in proprio, da NOME COGNOME come si dovrebbe desumere dal fatto che, in alcune pagine della sentenza, non l’avrebbe distinto da quello proposto da NOME COGNOME in qualità di erede di NOME COGNOME, che non sarebbe perfettamente coincidente con l’altro atto di gravame.
La censura è del tutto generica, atteso che il ricorrente non specifica quale sarebbe il motivo di appello al quale la Corte territoriale non avrebbe dato risposta. In tal modo, peraltro, non consentendo neppure di verificare se il mancato esame riguardi un motivo in astratto suscettibile di accoglimento. Al riguardo, va ribadito che, «in tema di impugnazioni, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l’annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l’omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all’omissione può porre rimedio, ai sensi dell’art. 619 cod. proc. pen., la Corte di cassazione quale giudice di legittimità» (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, COGNOME, Rv. 263980; Sez. 2, n. 35949 del 20/06/2019, COGNOME, Rv. 276745).
Sotto altro profilo, deve essere rilevato che la Corte territoriale – sebbene abbia riassunto in maniera estremamente sintetica i motivi di appello, non distinguendo in maniera netta i due diversi atti di impugnazione – si è, comunque, ampiamente soffermata sui temi che erano stati posti dai due atti di gravame (che, peraltro, in larga parte, erano coincidenti), quali, ad esempio, le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado e la loro completezza, la proporzione tra i redditi accertati e gli acquisti effettuati, i rapporti tra l’ar sexies e l’art. 240-bis, le consulenze tecniche, la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria in secondo grado, la presenza dei presupposti per la confisca dei beni e il rispetto del principio di correlazione tra sentenza e imputazione.
Al riguardo, va rilevato che un eventuale vizio della sentenza può derivare dal mancato esame di un motivo di appello in astratto suscettibile di accoglimento e non certo per il fatto che il giudice di secondo grado abbia
riassunto in maniera estremamente sintetica i motivi degli appelli, non distinguendo in maniera netta i diversi atti di impugnazione.
7.1.2. Anche la seconda censura è intrinsecamente generica.
Il ricorrente deduce il difetto di motivazione, sostenendo che le risposte fornite dalla Corte territoriale alle censure mosse da NOME COGNOME, in ordine alla sottovalutazione delle consulenze tecniche di parte e al regime giuridico applicabile alla confisca (la presunta differenza tra l’art. 12-sexies, sulla base del quale era stato disposto il sequestro, e l’art. 240-bis cod. pen., in base al quale i giudici di merito hanno disposto la confisca), sarebbero «sparse ed incidentali». Il ricorrente, però, non specifica quale deduzione dei consulenti tecnici non sarebbe stata adeguatamente valutata. In ogni caso, va rilevato che la Corte di appello e prima ancora il giudice di primo grado si sono ampiamente soffermati sia sulle consulenze tecniche di parte che sul regime giuridico della confisca (cfr. le pagine 94 e ss. e 174 e ss. della sentenza di primo grado nonché le pagine 96 e ss. della sentenza impugnata).
La censura relativa al regime giuridico applicabile alla confisca, peraltro, era inammissibile già in sede di appello.
La parte aveva sostenuto che i giudici di merito avrebbero equiparato l’art. 12-sexies d.lgs. n. 306 del 1992 all’art. 240-bis cod. pen., ritenendo che vi fosse continuità tra le due norme, quando, invece, l’art. 240-bis cod. pen., a differenza della precedente norma, escluderebbe che si possa utilizzare l’evasione fiscale quale argomento per giustificare la formazione del patrimonio.
Ebbene, va, in primo luogo, chiarito che l’art. 31 della legge n. 161 del 2017 ha introdotto, nell’ambito dell’art.12-sexies, decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, la previsione (poi integralmente trasposta anche nell’attuale art. 240-bis cod. pen.) secondo cui il condannato per un “reato-spia” non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
L’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, è stato, successivamente, abrogato dall’art. 7, comma 1, lett. I), del d.lgs. 1° marzo 2018, n. 21, e la disciplina del confisca “allargata” è stata sostanzialmente trasposta nel dettato del nuovo art. 240-bis cod. pen., introdotto dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 21 del 2018.
Sotto tale profilo, pertanto, la questione non risulta neppure correttamente proposta, atteso che l’art. 12-sexies del d.l. n. 306 del 1992, nel testo successivo alla riforma del 2017, già prevedeva che l’interessato non potesse giustificare la legittima provenienza dei beni, adducendo che il denaro utilizzato per acquistarli fosse provento o reimpiego dell’evasione fiscale.
A prescindere da tale rilievo, la questione era inammissibile.
Deve essere evidenziato che, con la riforma del 2017, si è posto semplicemente un limite probatorio alla confisca allargata, superando il principio
affermato dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, secondo il quale, per la sola confisca ex art. 12-sexies, risultavano rilevanti i redditi derivanti da attività lecita, sottratti al fisco. A seguito di quella pronun l’interessato, nell’adempiere al suo onere di allegazione finalizzato a incidere sulla presunzione di provenienza illecita del patrimonio, poteva fare riferimento anche ai redditi di origine lecita non dichiarati al fisco.
Tanto premesso, atteso il carattere essenzialmente processuale della riforma, appare evidente che la questione posta dall’appellante era del tutto generica, essendosi egli limitato a disquisire in ordine ai rapporti tra l’art. 24 bis e l’art. 12-sexies, senza, però, dedurre di avere percepito redditi di origine lecita non dichiarati al fisco, che non aveva potuto allegare a causa del limite probatorio introdotto nel 2017.
Sotto altro profilo, va rilevato che la questione giuridica posta dalla parte, nel caso concreto, non risultava neppure rilevante.
Deve essere evidenziato che le Sezioni Unite, recentemente, hanno affermato che il limite probatorio introdotto con la riforma del 2017 si applica anche ai beni acquistati prima dell’entrata in vigore della riforma, ad eccezione di quelli acquisiti nel periodo compreso tra il 29 maggio 2014, data della sentenza delle Sezioni unite n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, e il 19 novembre 2017, data di entrata in vigore della legge n. 161 del 2017 (Sez. U, n. 8052 del 26/10/2023, Rizzi, Rv. 285852).
Le Sezioni Unite hanno ritenuto che il carattere prettamente processuale della riforma imponesse di far riferimento al principio tempus regit actum. Hanno, tuttavia, ritenuto che il carattere chiaramente peggiorativo della riforma – che veniva a incidere su un assetto legale stabilizzato con la sentenza “Repaci”, alla quale andava riconosciuta «una valenza di precedente relativamente vincolante» dovesse portare a temperare l’operatività del principio tempus regit actum, «in ragione della necessità di dare attuazione alle esigenze sottese ai plurimi principi di rilievo costituzionale …, e, in particola alla tutela dell’affidamento dei consociati sull’assetto di una determinata base legale, stabilizzata dal diritto vivente».
Coerentemente con tale impostazione, hanno limitato l’operatività del principio tempus regit actum al solo periodo di tempo compreso tra la pronuncia della sentenza Repaci e l’entrata in vigore della riforma del 2017, atteso che solo in relazione a tale periodo di tempo era giustificato ritenere sussistente l’affidamento dei consociati rispetto all’assetto normativo determinatosi a seguito della sentenza delle Sezioni Unite. Hanno, conseguentemente, escluso che il limite all’operatività del principio tempus regit actum potesse essere esteso «ad un lasso di tempo – quello precedente alla pronuncia della sentenza “Repaci” – in cui la base legale della misura ablatoria non consentiva di attribuire rilievo, i
termini di ragionevole certezza, alla possibilità di superare la presunzione di illecita accumulazione facendo riferimento ai redditi leciti non dichiarati al fisco».
Orbene, venendo al caso in esame, appare evidente che la questione posta dall’appellante non risultava rilevante nel caso concreto, atteso che, come chiarito dalle Sezioni Unite COGNOME, la regola probatoria introdotta nel 2017 trova applicazione anche con riferimento ai beni acquistati prima della pronuncia della sentenza Repaci, ossia prima del 29 maggio 2014, e, dunque, anche ai beni confiscati a NOME COGNOME che (secondo quanto da lui stesso affermato nell’atto di appello) era stati sequestrati già «nel lontano 2009».
7.2. Il secondo motivo, in tutte le censure nelle quali si articola, è inammissibile.
7.2.1. La prima censura è manifestamente infondata, atteso che i giudici di merito non sono caduti in alcuna contraddizione nel confiscare, da un lato, le quote della “RAGIONE_SOCIALE” e della “RAGIONE_SOCIALE” e nel disporre, dall’altro, la restituzione delle quote delle altre società, in relazione alle qual pubblica accusa pure aveva ipotizzato la loro fittizia intestazione.
Al riguardo, va evidenziato che il Tribunale aveva restituito le quote di quelle società non perché avesse ritenuto dimostrata la rilevante capacità reddituale di NOME COGNOME ma perché, in relazione a quelle società, gli esiti delle indagini erano risultati insufficienti: «la vaghezza delle notizie circa le attività svolte dalle suddette società e il loro eventuale inserimento nella mappa disegnata da NOME COGNOME, unitamente alla presenza nel capitale di soci che si profilano estranei al nucleo familiare, non consentano di affermare con certezza che si sia di fronte ad ulteriori casi di intestazione fittizia, specie per le due società che o non hanno mai operato, o hanno smesso di farlo da oltre dieci anni; induce a tale conclusione anche l’assenza di ogni riferimento a tali società nel corso della prolungata attività di intercettazione, peraltro coeva all’epoca di costituzione delle prime tre» (cfr. pagine 112 e ss. sentenza di primo grado).
Tale motivazione, non essendo basata sulle capacità reddituali di NOME COGNOME, non si pone in alcun modo in contraddizione con il provvedimento di confisca delle quote della “RAGIONE_SOCIALE” e della “RAGIONE_SOCIALE“.
7.2.2. La seconda e la terza censura possono essere trattate congiuntamente, essendo strettamente correlate.
Il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., conseguente allo spostamento in avanti della data di consumazione dei reati, e contesta il rilievo dato dai giudici di merito ad aumenti di capitale e conferimenti, che non sarebbero idonei a integrare la fattispecie di cui all’art. 12-quinquies, perché costituirebbero vicende successive di un delitto già perfezionato al momento della costituzione delle società.
Entrambe le censure sono manifestamente infondate per plurime, convergenti ragioni.
In primo luogo, va evidenziato che: le quote in questione sono state confiscate poiché ritenute di NOME COGNOME responsabile del reato di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen.; NOME COGNOME è stato prosciolto dai reati a lui contestati, non ha impugnato la sentenza di proscioglimento e rispetto a tali confische risulta terzo interessato. Ebbene, riguardo alla sua attuale posizione non si pone, quantomeno in termini diretti, un problema di idoneità delle condotte a integrare il reato di cui al capo 13 dell’imputazione (che ha a oggetto il reato oggi previsto dall’art. 512-bis cod. pen.) né di correlazione tra ta imputazione e sentenza. In considerazione della sua posizione di terzo interessato, egli non doveva confrontarsi con il reato di trasferimento fraudolento di valori contestato al capo 13 dell’imputazione, ma con il provvedimento di confisca (basato sulla condanna di NOME COGNOME per il reato di cui agli artt. 110 e 416-bis cod. pen.), dimostrando la provenienza delle risorse con le quali aveva acquistato le quote confiscate e la disponibilità di un patrimonio adeguato ad acquistarle.
Tali considerazioni rendono del tutto prive di rilievo le censure mosse dal ricorrente.
Sotto altro profilo, va precisato, come già in precedenza osservato, che: al capo 13, la data di commissione del reato è stata indicata facendo riferimento a un ampio arco temporale (dal 2000 al 2007, delimitato dalla costituzione di due delle società della “galassia COGNOME“), senza specificare la collocazione nel tempo di ciascuna intestazione fittizia; nel capo di imputazione, è contestata la fittizi intestazione non delle società, bensì delle quote delle varie società.
Il ricorrente, con riferimento alla società “RAGIONE_SOCIALE“, lamenta lo spostamento in avanti della data del reato dalla data di costituzione della società (il 2000) «al versamento di 40.000,00 euro effettuato da NOME COGNOME il 26 luglio 2007, per acquistare le relative quote». Nel capo di imputazione, però, era contestata l’intestazione fittizia non della società, ma delle quote acquisite da NOME COGNOME, per un valore di 40.000,00 euro. E va sottolineato che, dalla ricostruzione delle vicende societarie effettuata dai giudici di merito, emerge che, prima della sottoscrizione delle quote dal valore di 40.000,00 euro, avvenuta nel 2007, NOME COGNOME non era formalmente intestatario di alcuna quota di “RAGIONE_SOCIALE“. Non poteva esserci, dunque, alcun dubbio: la contestazione riguardava la sottoscrizione di quelle quote e non certo la costituzione della società. Da quel preciso “fatto storico” l’imputato doveva difendersi.
Analogo discorso riguarda la società “RAGIONE_SOCIALE” e la holding “RAGIONE_SOCIALE“, dal momento che anche in relazione a esse non è stata contestata l’intestazione
fittizia delle società, ma delle quote intestate a NOME COGNOME, specificamente indicate.
Almeno con riferimento alla posizione di NOME COGNOME e alle società oggetto delle deduzioni del ricorrente, dunque, non risulta alcuna significativa difformità della sentenza rispetto all’imputazione.
Al riguardo, deve essere ribadito che: in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza (come già evidenziato in altra parte di questa sentenza), per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti dell difesa; conseguentemente, l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, Sentenza n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051).
Ebbene, nel caso in esame, risulta indiscutibile che alcun reale pregiudizio ai diritti della difesa è stato arrecato, atteso che i giudici di merito hanno fat riferimento a quelle operazioni fittizie che erano state descritte nell’imputazione, rispetto alle quali gli interessati sono stati nella condizione concreta di difendersi sapendo bene quale “fatto storico” era stato contestato.
7.2.3. Tutte le censure articolate al punto 11.4 del ricorso (riassunte al punto 7.2.4. del ritenuto in fatto della presente sentenza) sono inammissibili, essendo completamente versate in fatto.
Con esse, il ricorrente ha articolato censure che non evidenziano alcuna effettiva violazione di legge né travisamenti di prova o vizi di manifesta illogicit emergenti dal testo della sentenza, ma sono, invece, dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, cfr. supra, § 2.1. del considerato in diritto).
La Corte territoriale, in ogni caso, ha reso una motivazione ampia e coerente, analizzando adeguatamente tutti gli elementi emersi dall’istruttoria, le consulenze tecniche di parte e gli argomenti addotti dalle parti.
Con particolare riferimento alle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia COGNOME, i giudici di merito hanno evidenziato che egli aveva ricostruito, in maniera precisa, il funzionamento dell’intero «sistema» gestito da NOME COGNOME, precisando il ruolo del tutto marginale dei fratelli nell’ambito delle varie
società facenti parti del gruppo: meri intestatari formali e semplici impiegati dell società.
Hanno posto in rilievo le conversazioni telefoniche e i messaggi di posta elettronica intercettati, evidenziando che da essi emergeva che NOME COGNOME era l’effettivo dominus di tutte le società e che i fratelli erano dei meri esecutori materiali delle sue decisioni.
Da alcune di esse, emergeva che gli interlocutori erano ben consapevoli «della sfasatura tra piano sostanziale e piano formale nella titolarità delle società» (cfr. pagina 70 della sentenza impugnata).
Quanto al fatto che le conversazioni e i messaggi sarebbero stati intercettati dopo la costituzione della holding, quando NOME COGNOME era oramai anche formalmente il titolare della maggioranza della società capogruppo, va detto che ciò, per quel che riguarda la “RAGIONE_SOCIALE“, non risulta vero, atteso che il conferimento delle quote della “RAGIONE_SOCIALE” nella holding era avvenuto solo nel novembre 2007 e nella sentenza è riportata tutta una serie di conversazioni e messaggi anteriori a tale data (cfr. pagina 71 della sentenza impugnata). La Corte di appello, ad esempio, ha riportato un messaggio di posta elettronica del 7 febbraio 2007, dal quale emerge che NOME COGNOME era stato chiamato a decidere sugli aumenti salariali richiesti dai dipendenti della “RAGIONE_SOCIALE“, benché egli, in quella società, in quel momento, non rivestisse alcun incarico e il conferimento delle quote nella holding non fosse ancora avvenuto.
Quanto all’irrevocabilità della sentenza di condanna, nella parte relativa alle altre intestazioni fittizie contestate a NOME COGNOME va rilevato che la Corte di appello non è incorsa in alcun vizio logico nel dare rilievo a tale elemento, soprattutto perché ha valorizzato il fatto che quella condanna si basava, sostanzialmente, sul medesimo materiale probatorio, che dunque aveva già ottenuto un affidabile vaglio di attendibilità.
La circostanza che NOME COGNOME non avesse nascosto la titolarità delle quote della “RAGIONE_SOCIALE” e della “RAGIONE_SOCIALE” non si pone in termini di incompatibilità logica con il fatto che egli aveva intestato fittiziamente le quote di “RAGIONE_SOCIALE” e di “RAGIONE_SOCIALE” ai fratelli. Va, d’altronde, evidenziato che: NOME COGNOME ha espressamente ammesso di avere fittiziamente intestato ad altri le quote di alcune società; in relazione ai reati che avevano a oggetto tali intestazioni, è intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato. Dunque, può ritenersi pacificamente accertato che NOME COGNOME aveva “nascosto” l’effettiva titolarità delle quote di alcune società, mentre, invece, aveva reso palese la sua partecipazione ad altre società.
Del tutto priva di rilievo è la deduzione relativa al fatto che NOME COGNOME era stato assolto già in primo grado dai reati che avevano a oggetto le intestazioni fittizie delle quote delle altre società indicate nel capo
dell’imputazione. Tale assoluzione, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, non era basata sulla compatibilità delle capacità reddituali del ricorrente con gli sforzi economici effettuati per l’acquisizione delle quote dell società in questione, ma sull’insufficienza degli elementi raccolti dagli organi inquirenti in ordine a tali società, alcune delle quali non avevano mai operato (pagine 112 e ss. della sentenza di primo grado).
7.3. Il terzo motivo – con il quale il ricorrente lamenta la mancata rinnovazione dell’istruttoria, per espletare una perizia volta a ricostruire le su capacità reddituali – è inammissibile.
Va ribadito che la rinnovazione dell’istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere all stato degli atti (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, COGNOME, Rv. 266820).
Quanto alla perizia, va posto in rilievo che essa è un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità d giudice (cfr. Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936).
Ebbene, nel caso in esame, i giudici di merito hanno fornito adeguata e coerente motivazione in ordine all’esercizio del loro potere discrezionale.
La Corte di appello, in particolare, ha posto in rilievo che la perizia non era necessaria, in considerazione del fatto che le prove raccolte (comprese le consulenze di parte) avevano fornito un quadro completo e preciso in ordine alla ricostruzione nel tempo del patrimonio dei singoli componenti della famiglia COGNOME (cfr. pagine 104 e 105 della sentenza di appello).
8. I ricorsi presentati da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME in qualità di terzi interessati sono inammissibili.
8.1. L’unico motivo di ricorso, in entrambe le censure nelle quali le impugnative si articolano, è inammissibile.
8.1.1. La prima censura è inammissibile per plurime, convergenti ragioni.
In primo luogo, è intrinsecamente generica.
I ricorrenti propongono una censura analoga a quella mossa da NOME COGNOME, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe omesso di prendere contezza dell’appello da loro proposto «quali terzi interessati alla vicenda», confondendolo con quello proposto dai fratelli COGNOME in qualità di eredi di NOME COGNOME, che non sarebbe perfettamente coincidente con l’altro atto di gravame.
La censura (analogamente a quella proposta da NOME COGNOME) è del tutto generica, atteso che i ricorrenti, pur avendo trascritto i motivi di appello, no specificano quale sarebbe quello al quale la Corte territoriale non avrebbe dato risposta. In tal modo, peraltro, non consentendo neppure di verificare se il mancato esame riguardi un motivo in astratto suscettibile di accoglimento.
Sotto altro profilo, va rilevato che la censura, nei termini generici in cui proposta («rispetto agli avanzati motivi di doglianza, i giudici della Corte di appello tacciono in maniera assoluta») si presenta anche manifestamente infondata, atteso che la Corte territoriale si è ampiamente soffermata sui temi trattati nell’atto di gravame, quali, ad esempio, le risultanze dell’istrutto espletata in primo grado e la sua completezza, la proporzione tra i redditi accertati e gli acquisti effettuati, i rapporti tra l’art. 12-sexies e l’art. 240-bis, le consulenze tecniche, la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria in secondo grado, la presenza dei presupposti per la confisca dei beni e il rispetto del principio d correlazione tra sentenza e imputazione.
8.1.2. La seconda censura, con la quale i ricorrenti sostengono che la Corte territoriale avrebbe omesso completamente di motivare sulle richieste avanzate da NOME COGNOME è manifestamente infondata.
La Corte di appello ha specificamente preso in considerazione la posizione di NOME COGNOME (cfr. pagine 103 e 104 della sentenza impugnata), disponendo, peraltro, anche la restituzione di alcuni beni a lei appartenenti.
Va, tuttavia, rilevato che, a seguito del proscioglimento di NOME COGNOME, i beni personali a lui appartenenti e quelli appartenenti alla moglie NOME COGNOME (a eccezione delle quote delle società “RAGIONE_SOCIALE“, “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE“), comunque, devono essere restituiti agli aventi diritto. La confisca di tali beni, infatti, era stata disposta dai giudici di merito a seguito della condanna di NOME COGNOME nei gradi di merito.
I ricorsi presentati da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME – in qualità di eredi di NOME COGNOME sono inammissibili.
9.1. Il primo motivo, in tutte le censure nelle quali si articola, inammissibile.
9.1.1. Le censure riassunte al punto 9.1.1. del ritenuto in fatto di questa sentenza ripropongono, in larga parte, le medesime censure proposte nel secondo motivo del ricorso di presentato, in proprio, da NOME COGNOME (e, precisamente al punto 11.4 del secondo motivo) e, al pari di quelle, sono inammissibili, per essere completamente versate in fatto.
Con esse, i ricorrenti hanno articolato alcune censure che non evidenziano alcuna effettiva violazione di legge né travisamenti di prova o vizi di manifesta logicità emergenti dal testo della sentenza, ma sono, invece, dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, cfr. supra, § 2.1. del considerato in diritto).
Le censure, peraltro, risultano anche manifestamente infondate per le ragioni esposte nella parte di questa sentenza in cui vengono analizzate le medesime censure proposte nel secondo motivo del ricorso di presentato, in proprio, da NOME COGNOME cui si rinvia (punto 7.2.3. del considerato in diritto di questa sentenza).
Rispetto a esse, con particolare riferimento ad alcune ulteriori deduzioni contenute nei ricorsi degli eredi di NOME COGNOME, vanno aggiunte le seguenti considerazioni.
La deduzione con la quale i ricorrenti sostengono che nessuna delle conversazioni intercettate dimostrerebbe specificamente un «intervento di NOME COGNOME sostituivo di NOME» è scarsamente rilevante, atteso che i giudici di merito hanno tratto dalle comunicazioni intercettate significativa conferma del «sistema» con cui NOME COGNOME gestiva le sue società, adoperando i fratelli come mere “teste di legno” ed esecutori materiali delle sue decisioni. Tali risultanze si inserivano in un ben più ampio quadro accusatorio, costituito dalle dichiarazioni assunte in dibattimento e dagli accertamenti di natura tecnica.
Ancora meno rilevante è la deduzione relativa al fatto che NOME COGNOME era stato assolto, già in primo grado, dai reati di cui ai capi 24 e 28. Si trat invero, di imputazioni aventi a oggetto una contravvenzione relativa all’esercizio del gioco d’azzardo e la partecipazione a un’associazione per delinquere costituita allo scopo di commettere i delitti di reimpiego di denaro e di attribuzione fittizia di valori di provenienza illecita. Dalle motivazioni de sentenza di primo grado, peraltro, non emergono elementi contrari all’ipotesi d’accusa relativa all’intestazione fittizia delle quote delle società in questione ma, semmai, di conferma: «non si condivide invece l’incriminazione in esame laddove essa viene estesa ai fratelli di NOME COGNOME (NOME, NOME e NOME), il cui intervento nella vicenda è limitato all’intestazione fittizia de società ricom prese nel cd. “gruppo COGNOME“, secondo la definizione privilegiata dal colonnello COGNOME» (cfr. pagine 131 e seguenti della sentenza di primo grado).
9.1.2. Quanto alla fittizia acquisizione da parte di NOME COGNOME delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE“, va rilevato che le censure
riassunte al punto 9.1.2. del ritenuto in fatto di questa sentenza, oltre a essere versate in fatto, sono manifestamente infondate.
In particolare, risulta priva di fondamento l’affermazione con la quale i ricorrenti sostengono che, nel determinare il valore delle quote, non si sarebbe dovuto tenere conto del vantaggioso contratto concluso con la “Sisal”.
È, infatti, evidente che, nel momento in cui si tratta l’acquisto di quote societarie, viene in rilievo il loro valore anche con riferimento alle prospettive sviluppo imminente che la società potrà avere. In ogni caso, in ordine all’acquisizione da parte di NOME COGNOME delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE“, i giudici di merito (e, in particolare, il Tribunale) han reso una motivazione adeguata e priva di vizi logici: «non può certo considerarsi che l’esborso economico affrontato sia stato pari al valore nominale delle quote (di poco superiore ai 15.000 euro), specie ove si tenga conto della vicinanza temporale fra l’acquisto delle quote e la conclusione del contratto con la Sisal, che non poteva costituire nel marzo 2004 un evento imprevisto, e che – anzi verosimilmente rappresenta la causa del mutamento della compagine sociale; era dunque percepibile già in questo momento la prospettiva di un rilevante incremento della redditività della RAGIONE_SOCIALE, come pure era altrettanto evidente la necessità di investimenti adeguati e proporzionati alle nuove dimensioni dell’attività». I giudici di merito hanno evidenziato che, dalla lettura delle schede patrimoniali, emergeva in maniera evidente che NOME COGNOME, nel marzo 2004, non disponeva di risorse economiche adeguate all’acquisto, confutando specificamente anche le argomentazioni del consulente di parte.
9.1.3. Quanto alla fittizia acquisizione da parte di NOME COGNOME delle quote della società “RAGIONE_SOCIALE“, va rilevato che le censure riassunte al punto 9.1.3. del ritenuto in fatto di questa sentenza sono intrinsecamente generiche, attengono al merito della decisione e non si confrontano con le analitiche e coerenti motivazioni rese dalla Corte di appello e (soprattutto) dal Tribunale: «è ben vero che, nel marzo 2007, e al di là del valore nominale della quota da lui acquistata, pari a soli 24.000 euro, la situazione patrimoniale di NOME COGNOME era del tutto diversa ed assai migliore di quella del marzo 2004; tuttavia, la variazione patrimoniale dipende quasi esclusivamente dagli utili prodotti dall’attività di RAGIONE_SOCIALE (il consulente COGNOME li ha quantificati nel quadrienn 2004/2008 in euro 1.691.000,00 circa), ragion per cui – trattandosi di società ritenuta come appartenente a NOME COGNOME – l’attribuzione sic et simpliciter di tale somma a NOME non può essere condivisa»; «è inevitabile ritenere che, una volta stabilito che era NOME COGNOME il reale percettore dei guadagni, essi (come tutti gli altri prodotti da attività lecite) si siano confusi in un indisting coacervo con i profitti, altrettanto massicci, scaturenti dalle condotte costituent reato». Più in generale, i giudici di merito hanno evidenziato che: anche le
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operazioni relative alla “RAGIONE_SOCIALE” costituivano «attuazione del progetto industriale ideato da NOME COGNOME»; «la natura fittizia dell’intestazione della quota di RAGIONE_SOCIALE» era «strettamente collegata all’identificazione nel suddetto imputato dell’unico effettivo gestore delle imprese»; «anche per la società in discorso» doveva quindi «pervenirsi alle medesime conclusioni raggiunte per la RAGIONE_SOCIALE».
Va evidenziato che le due sentenze di merito, ricorrendo una “doppia conforme”, possono essere lette congiuntamente e integrarsi tra loro, costituendo sostanzialmente un unico corpo decisionale.
Al riguardo, occorre ricordare che «ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. “doppia conforme” quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri …, con conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale» (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218).
9.2. Il secondo motivo – con il quale i ricorrenti lamentano la mancata rinnovazione dell’istruttoria, per espletare una perizia volta a ricostruire l capacità reddituali di NOME COGNOME – è inammissibile.
Va ribadito che la rinnovazione dell’istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere all stato degli atti (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, COGNOME, Rv. 266820).
Quanto alla perizia, va posto in rilievo che essa è un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità d giudice (cfr. Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936).
Ebbene, nel caso in esame, i giudici di merito hanno fornito adeguata e coerente motivazione in ordine all’esercizio del loro potere discrezionale.
La Corte di appello, in particolare, ha posto in rilievo che la perizia non era necessaria, in considerazione del fatto che le prove raccolte (comprese le consulenze di parte) avevano fornito un quadro completo e preciso in ordine alla ricostruzione nel tempo del patrimonio dei singoli componenti della famiglia COGNOME (cfr. pagine 104 e 105 della sentenza di appello).
10. All’inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna di NOME COGNOME, NOME COGNOME, degli eredi di NOME COGNOME e dei terzi interessati, ad eccezione di NOME COGNOME ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex I. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della
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Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere i proponenti in colpa nella determinazione della
e. GLYPH
causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186).
P.Q.M.
annulla la sentenza impugnata nei confronti di NOME COGNOME limitatamente alla qualificazione della recidiva come specifica, nonché in riferimento al
trattamento sanzionatorio, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Napoli. Annulla la medesima sentenza senza rinvio nei
confronti di NOME COGNOME limitatamente alle fattispecie di cui all’art. 12- quinquies
I. 356/1992, in quanto estinte per prescrizione, esclusivamente in riferimento alle seguenti società: RAGIONE_SOCIALE in relazione alla quota di
NOME COGNOME; RAGIONE_SOCIALE in relazione alle quote di NOME COGNOME e di
NOME COGNOME ed alle imprese individuali COGNOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE Pm
Games; dichiara inammissibile nel resto il ricorso di NOME COGNOME. Annulla senza rinvio la medesima sentenza nei confronti di NOME COGNOME per essere
il reato al predetto ascritto estinto per prescrizione, nonché nei confronti di NOME COGNOME in riferimento ai reati a lui ascritti, in quanto estinti per morte dell’imputato; dispone la restituzione nei confronti degli aventi diritto dei ben personali di NOME COGNOME e di NOME COGNOME con eccezione delle quote societarie di: RAGIONE_SOCIALE Dichiara inammissibi il ricorso di NOME COGNOME nonché il ricorso di NOME COGNOME in proprio, il ricorso degli eredi di NOME COGNOME (NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME) ed il ricorso di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, nella qualità di terzi interessati. Condanna NOME COGNOME, NOME COGNOME, gli eredi di NOME COGNOME ed i terzi interessati, ad eccezione di NOME COGNOME al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 19/04/2024.