Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 10857 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 10857 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 19/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a AVELLINO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 23/03/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Napoli, con la sentenza emessa il 23 marzo 2023, confermava la sentenza del Tribunale di Avellino, che aveva accertato la responsabilità penale di NOME COGNOME, condannandolo alla pena di euro 1000,00 di multa, oltre che al risarcimento del danno in favore di NOME COGNOME, persona offesa dei delitti di diffamazione contestati come avvenuti in data 13 giugno 2014, 25 settembre 2014 e 5 novembre 2014, fatti commessi con il mezzo televisivo quindi con l’aggravante del mezzo di pubblicità, risultando contestata la recidiva reiterata specifica, ritenuta solo nella forma specifica.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di unico motivo, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il motivo deduce violazione di legge in relazione alla ritenuta applicazione della recidiva e al calcolo della prescrizione, violazione di legge processuale, nonché vizio di motivazione.
In particolare, lamenta il ricorrente che la Corte di appello avrebbe ritenuto la sussistenza della recidiva, innalzando così la pena ai fini del calcolo della prescrizione, pur se il Tribunale non aveva tenuto conto della recidiva medesima in sede di aumento della pena ex art. 63, comma 4 cod. proc. pen., a seguito dell’aumento di pena aggravato dal mezzo di pubblicità ex art. 595, comma 3, cod. pen. In sostanza la Corte di appello avrebbe violato il principio del divieto di reformatio in peius ex art. 597, comma 3, cod. proc. pen., avendo provveduto ad integrare la motivazione.
Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte – ai sensi dell’art. 23 comma 8, d.l. 127 del 2020 – con le quali ha chiesto rigettarsi il ricorso, in quanto dalla sentenza di primo grado emergeva come si facesse riferimento esplicito alla recidiva specifica.
Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Va premesso come correttamente la Corte territoriale abbia rilevato che l’aumento di pena discrezionale, operato ex art. 63 comma 4, cod. pen., sia stato erroneamente correlato all’art. 30, comma 4, I. 223 del 1990, dichiarato incostituzionale.
Infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 150 del 2021, dichiarava costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 21 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU, l’art. 13 della legge n. 47 del 1948 al quale faceva rinvio l’art. 30 comma 4, cit.
La norma censurata – lex specialis rispetto alle due aggravanti previste dall’art. 595 cod. pen., secondo e terzo comma – prevedeva una circostanza aggravante per il delitto di diffamazione, integrata nel caso in cui la condotta sia
commessa col mezzo della stampa e consista nell’attribuzione di un fatto determinato; in tal caso la pena prevista era quella della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 258, da applicare in via cumulativa, a meno che non sussistessero, nel caso concreto, circostanze attenuanti giudicate prevalenti o, almeno, equivalenti all’aggravante in esame.
La Corte costituzionale rilevava come tale disposizione fosse incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero e la necessaria irrogazione della sanzione detentiva (indipendentemente poi dalla possibilità di una sua sospensione condizionale, o di una sua sostituzione con misure alternative alla detenzione rispetto al singolo condannato) fosse da ritenersi ormai incompatibile con l’esigenza di non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri.
Aggiungeva la Corte costituzionale che la dichiarazione di illegittimità costituzionale non crea alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, che continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen., il cui alveo applicativo si sarebbe riespanso in seguito alla presente pronuncia.
Veniva anche dichiarato costituzionalmente illegittimo, quindi, in via consequenziale, l’art. 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990, il quale prevedeva che nel caso di reati di diffamazione commessi attraverso trasmissioni consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato, si applicano ai soggetti di cui al comma 1 le sanzioni previste dall’art. 13 n. 47 del 1948, in quanto quest’ultimo è stato già dichiarato costituzionalmente illegittimo.
Proprio la riespansione dell’art. 595 cod. pen. veniva comunque tenuta in conto in primo grado, richiamando il Giudice monocratico proprio la sentenza della Corte costituzionale, tanto che la pena veniva commisurata all’art. 595, come aggravato dal comma 3, cod. pen.
Non di meno, però, la Corte di appello, a differenza di quanto ritenuto in ricorso, correttamente afferma che la recidiva contestata era stata già ritenuta e non esclusa, in quanto l’esclusione riguardava solo la reiterazione e non la specificità: il Giudice monocratico aveva quindi ritenuto sussistente la recidiva ex art. 99, comma 2, n. 1) cod. pen.
La sentenza di primo grado, poi, quanto alla motivazione del trattamento sanzionatorio, riconosce sussistenti più circostanze «aggravanti contestate» ad effetto speciale, intendendo così sia l’aggravante del comma 2 (diffamazione con attribuzione di fatto determinato, indicato nell’imputazione con il richiamo del comma al capo 1, oltre che in fatto per le altre imputazioni), sia quella del comma
3, relativa all’uso del mezzo di pubblicità nel caso di specie televisivo, sia anche, appunto, la recidiva specifica, che era stata poco prima oggetto di valutazione in sentenza.
Correttamente la Corte di appello ha dunque operato, nel senso che l’aumento discrezionale ex art. 63, comma 4, cod. pen., è stato poi sostenuto dalla recidiva che, fra le aggravanti ad effetto speciale contestate, risultava equivalente determinando in pari misura un aumento fino alla metà – all’aggravante del comma 2 dell’art. 595 cod. pen.
Ne consegue che, per quanto l’aumento discrezionale ex art. 63, comma 4, cod. pen., sia stato riferito all’art. 30 cit. in modo erroneo, comprendeva comunque il riferimento, come rileva la Corte di appello, a tutte le altre circostanze ad effetto speciale, compresa la recidiva.
Difatti, unico è l’aumento per le circostanze aggravanti ad effetto speciale, anche se plurime, concorrenti con quella più grave, ex art. 63, comma 4, cod. pen., come autorevolmente osservato – seppur in relazione alla determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare – dalle Sezioni Unite.
Le stesse hanno affermato che nel caso concorrano più circostanze aggravanti, per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o circostanze ad effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell’art. 63, comma quarto, cod. pen., della pena stabilita per la circostanza più grave, aumentata di un terzo, e tale aumento costituisce cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi del tipo già detto che mantengono la loro natura (Sez. U., n. 16 del 08/04/1998, COGNOME, Rv. 210709 – 01, in una fattispecie relativa a reato di rapina aggravata a norma dell’art. 628, comma terzo, cod. pen. con l’ulteriore aggravante di cui all’art. 7 D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203; nello stesso senso, Sez. 2, n. 41004 del 06/07/2011, Dombrè, Rv. 251372 – 01; da ultimo, Sez. 2, n. 46210 del 03/10/2023, Xaka, Rv. 285437 – 01, in motivazione).
Per altro, va ricordato che ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, deve aversi riguardo, in caso di concorso fra circostanze ad effetto speciale, all’aumento di pena massimo previsto dall’art. 63, comma quarto, cod. pen., per il concorso di circostanze della stessa specie (Sez. 2, n. 32656 del 15/07/2014, Bovio, Rv. 259833 – 01: nella specie la pena prevista per il reato di cui all’art. 640 comma secondo cod. pen. è stata aumentata per la recidiva nella misura massima di un terzo).
In sostanza ciò che rileva ai fini della prescrizione non è la pena in concreto ma quella massima individuata ai sensi dell’art. 157, comma 2, cod. pen. che nel caso di specie resta sotto la soglia degli anni sei di reclusione.
Pertanto, al «termine breve» di prescrizione di anni sei deve aggiungersi quello per interruzione che ai sensi dell’art. 161, comma 2, seconda parte cod. pen., che è pari alla metà in ragione della recidiva, cosicché rispetto al fatto reato più risalente il termine di prescrizione andava a scadere il 13 giugno 2023, dopo la sentenza di appello.
A tale scadenza va comunque aggiunta la sospensione per un totale di 211 giorni, cosicchè il termine finale scadrà il 10 gennaio 2024 (le sospensioni del termine di prescrizione risultano essere di giorni 60 in ordine per impedimento del difensore in data 7 febbraio 2019, con successiva udienza del 26 settembre 2019; di gg. 140 per richiesta di rinvio della difesa dal 12 dicembre 2019 al 30 aprile 2020, in quanto il provvedimento di rinvio del processo disposto dal giudice su istanza e per esigenze della parte richiedente, dà sempre luogo alla sospensione dei termini di prescrizione per l’intera durata del rinvio, a prescindere dalle ragioni poste a fondamento della richiesta: cfr. Sez. 7, Ordinanza n. 8124 del 25/01/2016, Nascio, Rv. 266469 – 01; di gg. 11, a partire dal 1 maggio 2020 al 11 maggio 2020, per la sospensione conseguente alla pandemia ex art. 83, comma 2, d.l. 18 del 2020, convertito, con modificazioni, in I. 24 aprile 2020, n. 27).
La sussistenza della recidiva, non introdotta, bensì semplicemente riconosciuta dalla Corte di appello perché già ritenuta in primo grado, per un verso esclude la violazione del divieto di reformatio in peius, in quanto, per altro, la pena complessiva resta immutata; infine, incide sul calcolo del termine di prescrizione, per quanto indicato, in quanto non alla pena in concreto, ma a quella determinata secondo parametri oggettivi, generali e astratti ai sensi degli artt. 157 e 161 cod. pen., come modificati dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, deve farsi riferimento (cfr. Sez. U, n. 30046 del 23/06/2022, COGNOME, Rv. 283328 – 01).
All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 19/12/2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente