Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 2449 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 2449 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 05/12/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a CASTELLAMMARE DI STABIA (NA) il 11/08/1964 NOME COGNOME nata a VICO EQUENSE (NA) il 19/08/1968 avverso la sentenza del 05/04/2024 della Corte d’appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore, NOME COGNOME COGNOME che ha concluso riportandosi alla requisitoria in atti e per il rigetto d ricorso di COGNOME e l’accoglimento del ricorso di COGNOME COGNOME, annullando la sentenza quanto all’applicazione della ritenuta recidiva; udito il difensore di COGNOME COGNOME, l’avvocato NOME COGNOME che si è riportato ai motivi di ricorso, chiedendo l’annullamento della sentenza; udito il difensore di COGNOME l’avvocato NOME COGNOME che si è riportata ai motivi d’impugnazione e ha insistito nell’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Napoli ha confermato la condanna pronunciata dal Tribunale di Torre Annunziata nei riguardi di COGNOME NOME e COGNOME
per diversi episodi di bancarotta distrattiva e per bancarotta fraudolenta documentale in danno della D.G.M. RAGIONE_SOCIALE, fallita il 3/3/2011, delitto aggravato – per come originariamente contestato – dalla recidiva reiterata ed infraquinquennale per entrambi gli imputati. È stata anche contestata la commissione di più fatti di bancarotta, ex art. 219 r.d. 267/1942.
In particolare, quanto alla bancarotta fraudolenta distrattiva, questa si era concretata: nella cessione di quattro appartamenti alla RAGIONE_SOCIALE, sempre facente capo alla Mosca ed al De Martino, per euro 200.000,00, somma inadeguata e mai incassata; nella cessione di rami d’azienda a prezzi simbolici, incassati dagli imputati; nell’incasso di crediti societari da parte dei soci o trasferimento liquidità a loro favore per un milione seicento mila euro; nella cessione di attrezzature e di un’autovettura a prezzi simbolici.
2. Hanno proposto ricorso per Cassazione entrambi gli imputati.
La Mosca, con un’unica censura, lamenta la violazione degli articoli 99 e 157 cod. pen., ritenendo che la recidiva reiterata infraquinquennale sia stata confermata dalla Corte d’appello in modo errato, ovvero senza che ve ne fossero i presupposti.
Anzitutto in quanto i precedenti da cui era gravata la stessa ricorrente consistevano in una contravvenzione e in violazioni dell’articolo 5 del d.l. 463/1983, per omesso versamento di contributi, violazioni oramai depenalizzate, a seguito del d.lgs. 8/2016, essendo relative a importi inferiori a 10.000 euro.
In secondo luogo, perché la Corte d’appello aveva omesso qualsivoglia considerazione in ordine all’effettiva maggiore inclinazione al delitto dell ricorrente, desumibile dai delitti qui contestati e dalle condanne per quell precedenti, limitandosi a ritenere la recidiva in ragione della sola esistenza di queste ultime.
Per conseguenza, esclusa la recidiva, secondo la difesa della Mosca era maturata nei suoi riguardi l’estinzione dei delitti per prescrizione.
Anche il COGNOME ha proposto ricorso a questa Corte.
4.1. Col primo motivo deduce vizi di motivazione e violazioni di legge, per non avere le sentenze di merito considerato i documenti prodotti e alcune deposizioni, ritenute decisive.
Si cita, in particolare, la deposizione di NOME COGNOME consulente incaricato dalla Mosca, secondo cui la stessa era in possesso di un gran numero di documenti, quali partitari, importantissimi per la ricostruzione delle movimentazioni, e che, in
realtà, avrebbero dovuto essere in possesso della curatela fallimentare.
Secondo il detto teste, vi erano stati negli anni finanziamenti per un milione e seicentomila euro da parte dei soci, che poi avevano, successivamente, semplicemente prelevato quanto versato.
In ogni caso, per l’COGNOME si era trattato di un’insolvenza non patologica, poiché la fallita, prima del 2009, aveva avuto forti utili e vantava crediti per ol un milione di euro, tali da compensare il debito verso l’Equitalia.
Sempre a dire del detto teste, la contestata cessione distrattiva del ramo d’azienda riguardava un settore, quello dei lavori pubblici, dalla fallita mai attivat ceduto, in ogni caso, a un prezzo ritenuto in linea con i valori di mercato.
Il teste – si assume ancora – aveva fatto luce anche sul trasferimento degli immobili dalla fallita alla RAGIONE_SOCIALE
Così come per quella dell’COGNOME, la sentenza d’appello non aveva considerato, per parte ricorrente, la deposizione di COGNOME NOME, che aveva chiarito di aver finanziato spesso la fallita, senza recuperare alcunché.
Il ricorrente, poi, elenca quelle che, a suo dire, sarebbero le contraddizioni ed incertezze in cui era incorso il curatore, lamentandone l’omessa considerazione da parte della Corte d’appello, circa: il reale debito verso Equitalia (dedotto in 2 4 milioni di euro); assunte difficoltà sull’individuazione dei beni in inventario, avendo rinvenuto il relativo libro; l’omessa specifica valutazione economica dei beni ceduti a suo dire a prezzo irrisorio; l’omessa specifica dei soci che avevano incassato i crediti societari; l’omessa acquisizione degli estratti conto bancari; recupero di molti crediti societari, nonostante l’addotta impossibilità di ricostrui le assunte vicende societarie per le carenze nella documentazione contabile; la sussistenza di un gruppo di società tra la fallita e la RAGIONE_SOCIALE pur avendo esse diverse sedi, compagine societaria e consulenti; le differenti giustificazioni per decadenza o valutazioni di merito – date in relazione all’omesso esercizio di alcune azioni revocatorie.
Deduce, ancora, che la stessa Corte avesse del tutto omesso di accertare se le carenze contabili fossero dovute effettivamente ad una precisa volontà in tal senso, piuttosto che a mera trascuratezza, e se le operazioni compiute, magari anche “aleatorie e scriteriate”, non configurassero bancarotta preferenziale o addirittura semplice, anziché fraudolenta. Ed afferma che il giudice del merito avrebbe dovuto valutare se le annotazioni contabili sulle proprietà societarie di determinati beni fossero attendibili.
Parte ricorrente evidenzia, poi, ulteriori doglianze pretermesse in sede di merito, circa: il recupero di crediti per oltre un milione e mezzo di euro, nonostante l’addotta incompletezza della documentazione; l’omesso recupero, da parte del
3
curatore, dei predetti partitari in possesso della Mosca, degli estratti conto bancari e di certificati di enti pubblici da cui poter desumere chi fossero i dipendenti dell fallita; l’omessa considerazione della deposizione dell’avvocato NOME COGNOME che aveva fatto chiarezza sulla vendita degli immobili di INDIRIZZO a Castellammare di Stabia; l’insussistenza di qualsivoglia danno concreto derivante dalla dazione di ipoteca a favore dei soci; l’inconsistenza dell’accusa secondo cui i crediti della fallita erano stati incassati dai soci; i te non sospetti delle cessioni immobiliari e la neutralità fiscale delle stesse; l’assenza di danno per la cessione di un ramo di azienda non operativo; la mancata cessione dell’avviamento; l’inconferenza dell’omesso deposito di bilanci per gli anni 2008 e 2009, poiché non approvati dai soci; le contraddizioni tra quanto dichiarato a dibattimento dal curatore e quanto dallo stesso relazionato; l’assenza di prova circa il ruolo di amministratore di fatto in capo al COGNOME e circa l’esistenza d un gruppo di società a lui riconducibili; la carenza probatoria circa l’assenza di vantaggi compensativi nelle operazioni poste in essere; la mancata escussione, ex articolo 507 cod. proc. pen., del figlio del commercialista della società, essendo quest’ultimo nelle more deceduto.
Deduce, ancora, parte ricorrente che, una volta acclarato che le scritture contabili erano state regolarmente tenute, come deposto dall’COGNOME e desumibile dall’avvio di una serie di azioni revocatorie, al più si sarebbe potuto parlare d bancarotta preferenziale, anche in relazione a quanto i soci avevano recuperato circa i finanziamenti in precedenza fatti: unica creditrice sacrificata essendo rimasta l’Equitalia.
4.2. Col secondo motivo la difesa del COGNOME lamenta violazione di legge e vizi di motivazione. In particolare, sarebbero stati violati gli artt. 546, comma 1 lettera e) e 125, comma 3, cod. proc. pen., nonché gli artt. 132, 133 e 62-bis cod. pen.
Si assume, in estrema sintesi, che erroneamente la Corte d’appello aveva ritenuto, sulla base dell’aumento maggiore di un terzo per l’aggravante, operato dal Tribunale, che questo avesse applicato la contestata recidiva, anziché operare l’aumento previsto dall’art. 219, comma 2, numero 1, r.d. 267/1942, nel caso di plurimi fatti di bancarotta. In tal modo, peraltro, la Corte territoriale aveva omess di motivare sull’errore di calcolo da parte del primo giudice, posto che questo, come lamentato con l’appello, aveva disposto un aumento, per i plurimi fatti di bancarotta, maggiore di quello previsto dalla detta disposizione.
Si sostiene ancora che l’espressa menzione, nella sentenza di primo grado, della recidiva con riferimento alla Mosca e, per contro, il silenzio sul punto i relazione al COGNOME non potevano che indurre a pensare che per quest’ultimo
la menzionata recidiva fosse stata esclusa dal primo giudice.
Peraltro, l’esclusione, da parte del Tribunale, della recidiva avrebbe dovuto considerarsi la logica conseguenza delle risultanze del casellario giudiziale, essendo il ricorrente gravato da tre precedenti per contravvenzioni ed uno per lesioni personali colpose, reati non utilizzabili ai fini di ritenere tale aggravante.
Si duole, infine, parte ricorrente dell’omessa motivazione circa la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e circa la fissazione della pena base in misura superiore a quella minima normativamente prevista.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso della Mosca è inammissibile.
Come più volte chiarito da questa Corte, non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni non devolute alla cognizione del giudice d’appello e, in particolare, non può censurarsi la sentenza d’appello che abbia confermato la recidiva ritenuta dal giudice di primo grado, non contestata con i motivi di appello (Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Rv. 269745-01; si veda, altresì, Sez. 2, n. 26721 del 26/04/2023, Rv. 284768-02, secondo cui non possono contestarsi per la prima volta in cassazione i presupposti per la contestazione della recidiva, «quando, in fase di appello, sia stato proposto un motivo incentrato unicamente sulla valutazione dei precedenti penali e sulla loro valenza quali indici di maggiore pericolosità»).
Nel caso di specie, con l’atto d’appello non si era contestata la già affermata, da parte del Tribunale, recidiva reiterata infraquinquennale in capo alla Mosca.
Ne consegue che, ai sensi del combinato disposto di cui agli articoli 99, comma 4, e 157, comma 2, cod. pen., in ragione dell’aumento della pena massima prevista per i delitti contestati pari a due terzi, non può certamente dirsi maturato il termine massimo di prescrizione.
Il primo motivo del COGNOME è inammissibile, mentre va accolto, per quanto oltre precisato, il secondo.
2.1. È noto che sia radicalmente inammissibile ogni censura che si risolva in doglianze in fatto che sottopongano al giudice di legittimità una diversa valutazione delle prove raccolte. Tanto esula dal novero dei vizi deducibili ex art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen., con limiti non aggirabili, ovviamente, col mero richiamo di violazioni normative o della violazione della lettera c) della medesima norma, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 192, 125 e 546 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Rv. 280027-04): salvo non emergano
omissioni, contraddizioni o illogicità manifeste. Queste ultime, in quanto «manifeste», devono essere tali da apparire di lapalissiana evidenza per esser la motivazione fondata su congetture implausibili o per avere la stessa trascurato dati di superiore valenza (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, COGNOME, Rv. 205621-01; Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504-01; Sez. 4, n. 10153 del 11/02/2020, Rv. 278609-01): tanto più nel caso di decisioni di merito conformi, che, come noto, si saldano tra loro in un unicum motivazionale da valutare nel suo complesso (Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. 2012, Rv. 252615-01; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Rv. 197250-01).
Nella specie, fuori dai detti limiti, si contrappongono una diversa e parcellizzata lettura delle prove, nonché l’esasperazione di ipotetiche (perché neppure sorrette dall’integrale trascrizione del dato asseritamente travisato) e, comunque, poco significative incongruenze.
Nessuna violazione di legge, dunque, si deduce, non essendo qui censurata la (errata) applicazione di norme ad un dato fatto, rimasto incontestato, essendosi bensì chiesta una diversa ricostruzione del fatto stesso.
Trattasi di una non consentita, in questa sede, istanza di rivalutazione del materiale probatorio finalizzata a una rivisitazione del giudizio di merito con cui, in modo razionale ed esaustivo, e, comunque, non manifestamente illogico e non contraddittorio, s’è ritenuto che:
-le alienazioni degli immobili, non contabilizzate, a società riconducibile al COGNOME e alla COGNOME, per prezzo che si dichiarava, innanzi al notaio, già versato in precedenza in contanti e del cui incasso a favore della società nulla era dato sapere, avessero certamente distratto tali beni dalle garanzie per il ceto creditorio (pp. 12-13 sentenza d’appello);
nulla era dato sapere degli incassi societari connessi alle cessioni di rami d’azienda, anch’esse non contabilizzate, che avevano, dunque, distratto ulteriori risorse ai danni del ceto creditorio (p. 12);
non era affatto vero che la curatrice non avesse richiesto agli istituti di credito notizie sui depositi bancari della fallita, richiesta rimasta (come documentato dalla medesima curatrice) completamente inevasa (p. 13);
-non v’era, dunque, alcun elemento che confermasse che il prelievo di 1.600.000,00 euro da parte dei soci dalla cassa societaria corrispondesse al recupero di importi in precedenza versati, a titolo di finanziamento, dai medesimi soci (p. 13);
-al riguardo, prive di qualsivoglia supporto probatorio documentale (tanto più necessario in ragione dell’entità delle somme asseritamente erogate e
del soggetto finanziato, una persona giuridica) erano le parole dell’COGNOME circa il pregreSso finanziamento alla società da parte dei soci, non documentato dai partitari che lo stesso assumeva di aver visionato (e che questi, in modo singolare, secondo la Corte d’appello, non aveva neanche provato a consegnare alla curatela, peraltro) e, soprattutto, da idonea documentazione bancaria (pp. 13-14);
irrilevante, in siffatta situazione documentale, sarebbe stata la deposizione del figlio del commercialista della società (p. 14);
l’aver nascosto parte dei libri sociali non poteva che esser funzionale proprio alla volontà degli imputati di occultare le distrazioni compiute (p. 14);
il ruolo di amministratore di fatto del COGNOME si desumeva dalle dichiarazioni rilasciate da COGNOME COGNOME alla curatrice (pp. 15-16);
la distrazione del denaro non avrebbe potuto riqualificarsi in bancarotta preferenziale, mancando la prova che si trattasse della restituzione di pregressi versamenti (p. 16).
È evidente che, quanto addotto da parte ricorrente a contrasto di tali argomenti e di quelli di cui alla conforme sentenza di primo grado, esuli dal travisamento della prova, caratterizzato dall’utilizzazione, da parte del giudice del merito, di un’informazione inesistente nel materiale processuale o dall’omessa valutazione di una prova ex se decisiva (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, Rv. 283777-01).
Si tratta, per contro, dell’allegazione di argomenti volti ad ottenere, si ripete una rinnovata valutazione del materiale istruttorio, inibita in sede di legittimità.
Del resto, è noto che: «Il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato» (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, Rv. 281085-01; confronta, negli
stessi termini: Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, dep. 2019, Rv. 274816-07; Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010, Rv. 249035-01).
È necessario, dunque, che l’assunta utilizzazione di un’informazione inesistente o l’omessa valutazione della prova esistente siano decisive al fine di sovvertire l’apparato motivazionale sottoposto a critica (Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, Rv. 280117-01).
Nella specie, si ripete, la parte ricorrente, limitandosi ad indicare prove per giunta parzialmente trascritte, chiede una diversa interpretazione del compendio probatorio, senza indicare alcunché sulla certa verità degli elementi addotti ed asseritamente travisati, rispetto a quelli valorizzati in sede di merito: chiedendo una difforme valutazione del materiale istruttorio inibita in questa sede.
2.2. La seconda doglianza è, effettivamente, fondata.
Invero, la Corte d’appello, nel dichiarare non prescritti i delitti nei riguar del COGNOME, ha ritenuto che il Tribunale avesse applicato la recidiva, poi da questi non contestata nei motivi d’appello.
La Corte d’appello giunge a tale conclusione in ragione dell’aumento sulla pena base (da 40 mesi a 60 mesi di reclusione) operato dal primo giudice per l’aggravante non altrimenti specificata: e siccome tale aumento era superiore a quello massimo previsto dall’art. 219, comma 2, n. 1, r.d. 267/1942, pari ad un terzo, doveva ritenersi che al De Martino fosse stato irrogato un aumento per una diversa ragione, ovvero la recidiva reiterata infraquinquennale.
Tuttavia, tale ragionamento non può esser condiviso.
Infatti, non si vede per quale ragione dovrebbe riconnettersi l’aumento della metà della pena base – da 40 a 60 mesi – alla recidiva ex art. 99, comma 4, cod. pen., che prevede un aumento di due terzi.
Dunque, l’aumento operato dal Tribunale sulla pena base non fornisce alcun ausilio interpretativo, al riguardo.
Occorre, allora, rileggere la motivazione del Tribunale sul punto, che, per chiarezza, si trascrive:
“Trattamento sanzionatorio.
Considerando, dunque, la dosimetria sanzionatoria, possono essere concesse all’imputato COGNOME NOME ed all’imputata COGNOME (in ragione dell’assenza di precedenti in carico al COGNOME e del minore ruolo svolto dalla COGNOME nella vicenda) le circostanze attenuanti generiche in considerazione della necessità di adeguare la pena al fatto, nel rispetto del principio della funzione rieducativa della pena costituzionalmente sancito; tali circostanze sono da ritenersi equivalenti rispetto alla contestata aggravante ed alla contestata recidiva, per COGNOME
Pertanto, considerando i parametri indicati dall’art. 133 c.p., stimasi pena equa per il Cesarano la pena di anni due di reclusione, prossima al minimo edittale e per la Mosca quella di anni 3 di reclusione, così determinata: pena base anni 3 di reclusione, ritenute le concesse circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante e alla contestata recidiva.
La pena da irrogare al COGNOME, in applicazione dei criteri di cui all’art. 133 c.p., deve ritenersi equa nella misura di anni cinqUe di reclusione, così determinata: pena base anni tre e mesi quattro di reclusione, aumentata, per effetto della contestata aggravante alla pena indicata”.
Il Tribunale, nel dispositivo, riteneva il COGNOME “colpevole dei reati a lu ascritti”, senza ulteriori specificazioni.
Orbene, seppur l’unica reale aggravante giuridicamente contestata (come osservato nella sua requisitoria del Procuratore Generale) doveva teoricamente ritenersi la recidiva (stando a Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011, Rv. 249665-01, secondo cui l’art. 219, comma 2, n. 1, r.d. 267/1942 prevede una peculiare disciplina della continuazione, derogatoria rispetto a quella ordinaria di cui all’art 81 cod. pen., e non un’aggravante, per l’appunto; così pure Sez. 5, n. 44097 del 05/07/2019, Rv. 277407-01), è evidente che il Tribunale, parlando, con riferimento alla Mosca, di “attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante e alla contestata recidiva”, abbia considerato quale aggravante anche la pluralità dei fatti di bancarotta.
Dunque, l’aver, subito dopo, parlato per il De Martino di un aumento per la sola “contestata aggravante”, non può far ritenere che il Tribunale, con tale locuzione, intendesse con certezza riferirsi alla recidiva: essendo, per contro, proprio la sua omessa menzione, a differenza di ciò che poco prima aveva detto con riferimento alla Mosca (in relazione alla quale ha specificato parlare sia della “contestata aggravante” che della “contestata recidiva”), indice della volontà esattamente opposta, ovvero di non ritenere che tale aggravante fosse la recidiva.
Ne consegue che, averla data, da parte della Corte d’appello, erroneamente per statuita nella sentenza di prime cure – omettendo, peraltro, di rispondere alla censura sulla violazione dell’art. 219, comma 2, numero 1, r.d. 267/1942 – ha costituito violazione del divieto di reformatio in peius.
L’omessa applicazione della recidiva determina, poi, automaticamente l’estinzione dei delitti contestati per prescrizione.
Considerati, infatti, i 185 giorni di sospensione, il termine è spirato i 6/3/2024.
Tanto assorbe ogni ulteriore censura, in special modo circa l’omesso
9 T-
riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e circa la fissazione della pena base in misura superiore a quella minima di legge.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di inammissibilità del suo ricorso, segue la condanna della Mosca al pagamento delle spese del procedimento e della sanzione pecuniaria, a favore della cassa delle ammende, nella misura in dispositivo, congrua in rapporto alle ragioni dell’inammissibilità ed all’attività processuale che la stessa ha determinato, valutata la colpa nella determinazione della stessa causa di inammissibilità (Corte Cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla posizione di COGNOME COGNOME per essere i reati ascrittigli estinti per prescrizione, previa esclusione della contestata recidiva. Dichiara inammissibile il ricorso proposto nell’interesse di COGNOME e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così è deciso, 05/12/2024
GLYPH