Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 36407 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 36407 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/10/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME MARSALA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 03/03/2025 della CORTE D’ASSISE D’APPELLO DI PALERMO
Visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale AVV_NOTAIO che ha chiesto rigettarsi il ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME nell’interesse del ricorrente NOME COGNOME, che ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di assise di appello di Palermo – a seguito di annullamento con rinvio disposto limitatamente al trattamento sanzioNOMErio da questa Corte di cassazione, Sezione Prima, con sentenza n. 47240 del 2024 – in data 3 marzo 2025, riformando la sentenza emessa dalla Corte di assise di Trapani in data 6 marzo 2023, rideterminava la pena nei confronti di NOME COGNOME.
In particolare, previo riconoscimento del vincolo della continuazione esterna con i reati di cui alla sentenza del 11 gennaio 2017 e del 8 settembre 2020 emesse dal G.u.p. del Tribunale di Marsala, la pena veniva determinata nella misura complessiva di anni nove e mesi quattro di reclusione, di cui anni cinque e mesi tre di reclusione in riferimento al reato previsto dall’art. 291 -quater d.P.R. n. 43
del 1973: COGNOME era stato ritenuto responsabile di essersi associato ad un sodalizio dedito alla commissione di più reati di contrabbando in tabacchi lavorati esteri.
La Corte di cassazione aveva ritenuto fondato il motivo riguardante la determinazione della pena base per l’associazione dedita al contrabbando, in quanto «la Corte territoriale – dopo avere escluso l’aggravante del possesso e dell’uso dell’arma – fissato la pena nella misura di anni cinque, sebbene la pena prevista per la fattispecie disciplinata dal secondo comma del citato art. 291-quater vada da uno e sei anni di reclusione e che il terzo comma preveda genericamente l’aumento della pena se il numero degli associati è di dieci o più. Orbene, nel caso in esame, la Corte di assise di appello si è attestata in prossimità del limite massimo edittale, ma non ha dato conto, come in tali casi necessario, degli specifici indici di commisurazione della pena sulla base dei quali la ha determinata nei termini sopra riportati (Sez. 3, n. 10095 del 10/01/2013, Monterosso, Rv. 255153)».
I motivi di ricorso ulteriori, in tema di recidiva e aumenti per la continuazione, venivano ritenuti assorbiti.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di tre motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il primo motivo deduce violazione di legge in relazione all’art. 291-quater, comma 2, d.P.R. 43 del 1973, in quanto la motivazione impugnata indica la pena base per il reato associativo, nella misura di anni tre e mesi sei di reclusione, come attestata sotto il minimo edittale.
Deduce il ricorrente che la Corte di cassazione aveva indicato la pena del comma secondo quale quella applicabile, quindi da anni uno ad anni sei di reclusione, cosicché la determinazione della Corte territoriale farebbe riferimento, richiamando il medio edittale, alla più grave pena prevista dal comma primo del citato articolo, con pena minima pari ad anni tre anni: la sentenza impugnata risulterebbe aver attribuito erroneamente al ricorrente il ruolo di promotore e non di mero partecipe.
Il secondo motivo lamenta violazione dell’art. 99, comma quarto, cod. pen., in quanto sarebbe stata erroneamente disattesa la censura difensiva che lamentava l’incompatibilità della continuazione con la ritenuta recidiva, anche in ragione della natura permanente del delitto associativo.
Inoltre, difetterebbe la necessaria motivazione relativa alla significatività dell’aumento operato ex art. 99 cod. pen.
Il terzo motivo lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli aumenti per la continuazione che risulterebbero non adeguatamente motivati, per altro con rinvio alla sentenza annullata.
Il ricorso è stato trattato con l’intervento delle parti, ai sensi del rinnovato art. 611 cod. proc. pen., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022 e successive integrazioni.
Le parti hanno concluso come indicato in premessa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato.
Il primo motivo è infondato.
La Corte territoriale determina la pena base per il delitto associativo in anni tre e mesi sei di reclusione, valutando la congruità della sanzione alla luce delle modalità della condotta – indicative di spregiudicatezza, professionalità e inserimento del COGNOME nei traffici del contrabbando, oltre che per il quantitativo notevole di t.l.e. nella disponibilità del sodalizio rinvenuto nell’auto dell’imputato, pari a 80 chilogrammi, per lo strumentario sequestrato al ricorrente, quali una sofisticata ricetrasmittente e documenti, contabili e non – nonché per la intensità del dolo e per i precedenti penali.
La Corte palermitana ha anche tenuto in conto la confessione dell’imputato ai fini della dosimetria della pena.
La motivazione risulta in linea con la consolidata giurisprudenza per la quale è necessaria una specifica e dettagliata motivazione quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, dovendo dare conto del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio (Sez. 6, n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo, Rv. 241189). Tali parametri sono stati adeguatamente rispettati nel caso in esame.
Anche la doglianza difensiva che individua un errore nella dosimetria, determiNOME dall’aver fatto riferimento alla pena prevista dal primo comma della norma incriminatrice – e non al secondo e terzo comma – non tiene conto che a tali seconde disposizioni fa riferimento la sentenza impugnata (cfr. fol. 1).
Effettivamente a differenza di quanto argomenta la Corte territoriale, la pena come determinata coincide con la media edittale e non è inferiore alla stessa.
Difatti, va ribadito il principio consolidato per il quale la media edittale debba essere calcolata non dimezzando il massimo edittale previsto per il reato, ma dividendo per due il numero di mesi o anni che separano il minimo dal massimo edittale ed aggiungendo il risultato così ottenuto al minimo (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, COGNOME, Rv. 276288 – 01; conf. N. 36104 del 2017 Rv. 271243 01, N. 46412 del 2015 Rv. 265283 – 01, N. 28852 del 2013 Rv. 256464 – 01).
In tal senso, nel caso concreto, la pena prevista dal comma secondo della norma incriminatrice va da anni uno ad anni sei di reclusione, cosicché la media edittale è pari ad anni tre e mesi sei, dovendo aggiungersi alla pena minima la metà del numero di anni compreso fra il minimo e il massimo edittale.
La pena base, nel caso in esame, di anni tre e mesi sei di reclusione è, quindi, pari alla media edittale, e non inferiore alla stessa, come indicato dalla motivazione impugnata.
Non di meno la doglianza difensiva è solo virtualmente fondata in quanto non ha efficacia disarticolante.
Difatti se è vero che non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione del giudice nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale (ex multis, Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283), nel caso in esame la determinazione della pena operata dalla Corte territoriale è comunque sostenuta da una pluralità di riferimenti motivazionali agli indici ex art. 133 cod. pen., che consentono di ritenere ben esercitato e motivato il potere discrezionale attribuito al giudice, senza che vi sia stata errata applicazione della norma incriminatrice in violazione della sentenza rescindente.
Pertanto, il motivo è infondato.
Quanto al secondo motivo, lo stesso è infondato.
3.1 A ben vedere, correttamente la Corte territoriale ritiene sussistente la compatibilità fra gli istituti della recidiva e quello della continuazione, che non determina la perdita di autonomia dei reati avvinti ex art. 81 cod. pen., cosicché gli stessi possono determinare la sussistenza dell’aggravamento di pena ex art. 99 cod. pen.
D’altro canto, in questa direzione è l’orientamento nettamente predominante di questa Corte di legittimità, che afferma che non sussiste incompatibilità tra l’istituto della recidiva e quello della continuazione, con conseguente applicazione, sussistendone i presupposti normativi, di entrambi, in quanto il secondo non comporta l’ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondata su una mera fictio iuris a fini di
temperamento del trattamento penale (Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018 Pettenon, Rv. 275296 – 01; conf.: N. 37759 del 2013 Rv. 256212 – 01, N. 49658 del 2014 Rv. 261169 -01, N. 41881 del 2013 Rv. 256712 – 01, N. 19477 del 2016 Rv. 266522 – 01, N. 14937 del 2008 Rv. 240144 – 01, N. 18317 del 2016 Rv. 266695 – 01, N. 19541 del 2012 Rv. 252847 – 01, N. 21043 del 2018 Rv. 272745 – 01; in senso difforme, solo Sez. 5, n. 5761 del 11/11/2010, dep. 15/02/2011, COGNOME, 249255 – 01, che ha affermato che non vi è compatibilità tra recidiva e continuazione, con la conseguenza che non può tenersi conto della recidiva una volta ritenuta la continuazione tra il reato per cui sia pronunciata sentenza passata in giudicato, valutato come più grave e, pertanto, considerato reato base, e quello successivo, oggetto di ulteriore giudizio, in quanto i reati ritenuti in continuazione costituiscono momenti di un’unica condotta illecita, caratterizzata dalla reiterazione di diversi episodi delittuosi, consumati in attuazione di un medesimo disegno criminoso, con la conseguenza che non è possibile ritenere la recidiva per gli episodi successivi al primo. Tra i due istituti esiste, pertanto, assoluta antitesi, valorizzando la recidiva la speciale proclività a delinquere, espressa dalla reiterazione di reati consumati in piena autonomia rispetto a vicende pregresse ed elidendo la continuazione proprio la predetta autonomia, collegando ed unificando i diversi episodi criminosi).
Questa Corte condivide l’orientamento decisamente prevalente, tanto più che nella medesima direzione si sono anche pronunziate le Sezioni Unite, con la sentenza n. 9148 del 17/04/1996, COGNOME, Rv. 205543 – 01 affermando che non esiste incompatibilità fra gli istituti della recidiva e della continuazione, sicché, sussistendone le condizioni, vanno applicati entrambi, praticando sul reato base, se del caso, l’aumento di pena per la recidiva e, quindi, quello per la continuazione: nel caso specifico le Sezioni Unite hanno ritenuto la legittimità della sentenza che aveva riconosciuto l’esistenza della continuazione fra un reato già oggetto di condanna irrevocabile ed un altro commesso successivamente alla formazione di detto giudicato.
Per le Sezioni Unite « recidiva e continuazione rappresentano istituti autonomi, con struttura e finalità diverse, ma nient’affatto inconciliabili tra loro. La prima tende a punire in maniera più incisiva chi, avendo già violato la legge, persiste nel suo atteggiamento criminoso, commettendo un nuovo reato e dimostrando, in tal guisa, un rafforzamento della deliberazione criminosa e una maggiore pericolosità sociale e costituisce, perciò, una circostanza aggravante di carattere soggettivo in quanto inerisce esclusivamente alla persona del colpevole . Il secondo, invece, attiene al trattamento sanzioNOMErio unitario, cui va sottoposto il reo per vari illeciti compresi, sin dal primo momento e nei loro
elementi essenziali, nell’originario disegno criminoso in ossequio al principio del “favor rei” che deroga a quello del cumulo materiale delle pene ».
Tale differenza della ragione dei due istituti e la compatibilità degli stessi viene confortata da un argomento, di carattere sistematico, che non può essere trascurato secondo le Sezioni Unite: «La legislazione penale, invero, negli ultimi decenni, ha subito interessanti modifiche in ordine agli istituti in esame. Da un canto, invero, la recidiva (v. art. 9 D.L. n. 99/74 convertito nella legge n. 220/74) è stata ridimensionata, come circostanza aggravante di pena, sino ad attribuire al giudice la facoltà di applicare o meno, il detto aumento; dall’altro, poi (v. art. 8 delle citate disposizioni), gli ambiti di applicazione della continuazione sono stati notevolmente estesi. E non è certo un caso che entrambe le modificazioni degli istituti trovino sede nel medesimo contesto normativo, dovendosi, invece, ragionevolmente ritenere che il legislatore abbia inteso privilegiare il principio del “favor rei” (in linea con le attuali tendenze sulla funzione rieducativa della pena) in danno di quello del cumulo materiale di questa in funzione retributiva. Un’interpretazione delle norme in esame (artt. 81 e 99 c.p.) che voglia essere corretta non può, perciò che constatare una siffatta evoluzione e adeguarsi ad essa, giungendo alla conclusione che, anche ai reati commessi dopo il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna, si applica la continuazione congiuntamente o disgiuntamente alla recidiva».
Pertanto, va ribadito il principio per cui non sussiste incompatibilità tra l’istituto della recidiva e quello della continuazione, con conseguente applicazione, sussistendone i presupposti normativi, di entrambi, in quanto il secondo non comporta l’ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondata . su una mera fictio iuris a fini di temperamento del trattamento penale.
Il motivo sul punto è, quindi, infondato.
3.2 Quanto poi alla motivazione posta a sostegno della sussistenza della recidiva, va evidenziato che le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 5859 del 27/10/2011, dep. 2012, Marcianò, Rv. 251690 hanno affermato che «sul giudice del merito incombe uno specifico dovere di motivazione sia quando ritiene, sia quando esclude la rilevanza della recidiva, scaturendo ciò dai condivisibili principi affermati nelle appena ricordate sentenze della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite. Infatti, esclusi i casi di recidiva c.d. obbligatoria, di cui al comma quinto dell’art. 99 cod. pen., il giudice può attribuire effetti alla recidiva unicamente quando la ritenga effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzioNOMErio del fatto per cui si procede». Egli è, pertanto, tenuto a verificare se il nuovo episodio criminoso sia «concretamente significativo – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti ed avuto riguardo
ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – Sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo» (Corte cost., sent. n. 192 del 2007). In altri termini, costituisce «precipuo compito del giudice del merito verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia effettivo sintomo di riprovevolezza e pericolosità, tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali» (Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, Calibe’, Rv. 247838).
La Corte territoriale fa buon governo di tali principi, richiamando per un verso il reato ex art. 291 bis d.P.R. 43 del 1973 commesso il 2 settembre 2016, quindi contestualmente alla permanenza del delitto associativo per il quale si procede, cessata il 23 luglio 2019, e per altro verso i delitti di tentata estorsione, rapina, furto e ricettazione, reati contro il patrimonio accomunati al delitto di contrabbando dal movente di lucro indebito, nonché i reati in violazione della disciplina degli stupefacenti, la violazione della misura di prevenzione, reati questi ultimi commessi dal 1975 al 2004.
Valutata tale cronologia, la Corte di appello evidenzia per i reati contro il patrimonio e in violazione della legge in tema di armi, la natura di delitti di elevato allarme sociale, sottolinea come il delitto per cui si procede risulti espressivo anche cronologicamente di una maggior pericolosità sociale e più accentuata capacità a delinquere di COGNOME, non contenuta dalle precedenti condanne, neanche da quelle più recenti e plurime del 2017 e del 2018, relative ai reati di favoreggiamento e ingresso clandestino di cittadini extracomunitari.
Si tratta, a ben vedere, di una congrua e concreta motivazione, che sostiene adeguatamente la sussistenza della recidiva, nei termini richiesti dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale.
Quanto al terzo motivo, la pena determinata per il reato più grave, a seguito dell’aumento per la recidiva, veniva determinata in anni cinque e mesi tre di reclusione. Sulla stessa veniva operato un aumento per la ‘continuazione esterna’ con due delitti ex art. 291-bis d.P.R. n. 43 del 1973 – oggetto della sentenza del G.u.p. del Tribunale di Marsala in data 11 luglio 2017 – rispettivamente nella misura di anni uno e mesi tre di reclusione e mesi due di reclusione; nonché di anni due e mesi sei di reclusione e di due mesi di reclusione per i due delitti in violazione dell’art. 12 d.lgs. n. 286 del 1998.
In primo luogo, va evidenziato che, se per un verso la Corte palermitana procede correttamente alla determinazione degli aumenti per ciascun delitto in continuazione, per altro verso non vi è una motivazione specifica per ciascuno di tali aumenti, bensì una argomentazione cumulativa, che richiama anche quella già espressa a proposito della determinazione della pena principale, quanto a modalità della condotta e dolo, dal che la sentenza impugnata trae la congruità degli aumenti medesimi.
Il ricorrente richiama il principio di diritto fissato dalle Sezioni Unite, per le quali ove riconosca la continuazione tra reati, ai sensi dell’art. 81 cod. pen., il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base per tale reato, deve anche calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ognuno dei reati satellite.
In motivazione le Sezioni Unite – Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, COGNOME, Rv. 282269 – hanno chiarito che l’obbligo motivazionale richiede modalità di adempimento diverse a seconda dei casi, analogamente a quanto previsto per la pena base.
Quanto all’obbligo di motivazione afferente agli aumenti ex art. 81 cod. pen. le Sezioni Unite hanno chiarito che lo stesso richiede modalità di adempimento diverse a seconda dei casi, analogamente a quanto previsto per la pena base ovvero per le pene accessorie, ove la motivazione è tanto più necessaria quanto più ci si discosti dal minimo e si superi la media edittale. In sostanza la necessità di una specifica motivazione consegue alla misura dell’aumento.
In particolare, le Sezioni Unite richiedono che risultino rispettati «i limiti previsti dall’art. 81 cod. pen.; che non si sia operato surrettiziamente un cumulo materiale di pene; che sia stato rispettato, ove ravvisabile, il rapporto di proporzione tra le pene, riflesso anche della relazione interna agli illeciti accertati. Di una pena non si può affermare o negare l’esattezza; ma si può riconoscere o criticare la ragionevolezza, intesa come relazione di coerenza tra la specie (si pensi alle pene alternative) e la misura della sanzione individuate e gli elementi che devono essere presi in considerazione per la determinazione della pena».
Va evidenziato che il motivo ora in esame, per un verso correttamente richiama i principi fissati dalle Sezioni Unite, per altro verso, però, non coglie che la necessità di una motivazione pertinente ad ogni aumento è correlata alla misura dell’aumento stesso (maggiore è l’aumento maggiore l’onere motivazionale), ferma la necessità di garantire il rispetto dei parametri che seguono.
In primo luogo, il rispetto dei limiti dell’art.81, comma terzo, cod. pen., che implica il rinvio all’art. 671, comma 2, cod. proc. pen. quanto all’aumento per delitti satelliti oggetto di sentenze irrevocabili. A riguardo, nel caso di specie non è specificamente dedotta tale censura, non risultando l’indicazione delle pene in
origine determinate per ciascuno dei reati posti in continuazione esterna e la loro misura inferiore rispetto all’aumento operato dalla sentenza qui impugnata.
In secondo luogo, occorre che non sia stato operato un surrettizio cumulo materiale di pene: ma nel caso in esame per i delitti di contrabbando ex art. 291bis d.P.R. cit., le pene in aumento di anni uno e mesi tre di reclusione e di mesi due di reclusione risultano inferiori alla pena minima edittale; quanto alle pene per i delitti di cui all’art. 12 d.lgs. 286 del 1998 l’aumento di mesi due di reclusione è nettamente inferiore al minimo edittale di anni due di reclusione per la fattispecie incriminatrice base, mentre quella di anni due e mesi sei di reclusione è superiore al minimo edittale, ma il motivo in esame non ha specificato né comprovato se la fattispecie in esame è aggravata o meno, cosicché la doglianza è generica sul punto.
Infine, rispetto alla pena prevista per il reato più grave di anni cinque e mesi tre di reclusione gli aumenti risultano proporzionati, cosicché risulta correttamente decliNOME il principio di specialità reciproca indicato da Sez. U COGNOME.
Ne consegue che pur in assenza di una motivazione per ciascun aumento, la motivazione cumulativa della Corte territoriale – correlata ai parametri già utilizzati per la pena più grave, quali modalità della condotta, intensità del dolo, negativa personalità dell’imputato – e tenuta in conto la mitezza dei singoli aumenti, risulta non manifestamente illogica, tanto più a fronte dei profili di genericità del motivo di ricorso.
Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso, con condanna alle spese processuali del ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 02/10/2025