Reazione ad atto arbitrario: quando la resistenza al pubblico ufficiale è giustificata?
La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha affrontato un caso di resistenza a pubblico ufficiale, offrendo importanti chiarimenti sui limiti della cosiddetta reazione ad atto arbitrario. La vicenda riguarda un giovane la cui violenta reazione all’intervento di alcuni militari, chiamati per una segnalazione relativa al suo cane, ha portato a una condanna. Questo provvedimento ci permette di analizzare quando un cittadino può legittimamente opporsi a un’autorità e quali sono i confini tra un diritto e un reato.
I Fatti del Caso
Tutto ha origine da una segnalazione: un ragazzo dichiara di essere stato aggredito da un cane. I militari intervengono e si rivolgono al proprietario dell’animale. Quest’ultimo, tuttavia, reagisce in modo veemente e sproporzionato alle richieste degli agenti. La situazione degenera rapidamente in una vera e propria colluttazione, tanto che persino il padre dell’imputato interviene a supporto dei militari. Solo la prevalenza fisica degli operanti riesce a sedare la violenza, portando all’arresto del giovane.
Condannato in primo grado e in appello per il reato di cui all’art. 337 del codice penale (resistenza a un pubblico ufficiale), l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione, basando la sua difesa su due motivi principali: l’erronea mancata applicazione della scriminante della reazione ad atto arbitrario e il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
La Decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando di fatto la condanna. I giudici hanno ritenuto che i motivi del ricorso fossero mere riproposizioni di censure già correttamente valutate e respinte nei precedenti gradi di giudizio. La Corte ha quindi condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende.
Analisi della reazione ad atto arbitrario
Il punto centrale della difesa era l’invocazione dell’art. 393-bis c.p., che giustifica la reazione violenta di un cittadino se posta in essere contro un atto arbitrario del pubblico ufficiale. La difesa sosteneva che tale scriminante dovesse essere applicata, anche solo in forma putativa, ovvero per l’erronea convinzione dell’imputato che l’atto fosse illegittimo.
La Cassazione ha smontato questa tesi, confermando la valutazione della Corte d’Appello. Gli agenti non stavano compiendo alcun atto arbitrario; al contrario, stavano svolgendo un’attività doverosa del loro ufficio, intervenendo a seguito di una specifica segnalazione. Non c’era, quindi, alcun presupposto oggettivo per la reazione ad atto arbitrario.
Il Diniego delle Attenuanti Generiche
Anche il secondo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche, è stato ritenuto infondato. La difesa aveva evidenziato elementi come l’alterazione psicofisica e la giovane età dell’imputato. Tuttavia, la Corte ha stabilito che tali circostanze non erano idonee a giustificare una diminuzione della pena, data la gravità della condotta tenuta, sfociata in una colluttazione fisica.
Le motivazioni della Corte
Le motivazioni della Corte sono state chiare e lineari. Per quanto riguarda la scriminante, i giudici hanno sottolineato che non vi era spazio nemmeno per il riconoscimento della sua forma putativa. La percezione soggettiva e acritica dell’arbitrarietà dell’atto da parte del cittadino non è sufficiente. A escluderla, nel caso di specie, è stata l’abnorme reazione dell’imputato, del tutto sproporzionata rispetto alla richiesta dei militari. La veemenza della condotta, che ha richiesto l’intervento del padre e si è conclusa solo con la superiorità fisica degli agenti, dimostra l’assenza di qualsiasi presupposto per giustificare la resistenza.
Le conclusioni
Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale: la causa di giustificazione della reazione ad atto arbitrario non può essere invocata a fronte di una legittima attività di un pubblico ufficiale. Inoltre, la reazione del cittadino deve essere sempre proporzionata. Una reazione abnorme e violenta, come quella che porta a una colluttazione, esclude in radice la possibilità di applicare la scriminante, anche quando il soggetto percepisca erroneamente come ingiusto l’operato dell’autorità. La legge protegge il cittadino dagli abusi, ma non giustifica la violenza ingiustificata contro chi sta compiendo il proprio dovere.
Quando una reazione violenta contro un pubblico ufficiale è giustificata dalla legge?
Una reazione è giustificata ai sensi dell’art. 393-bis del codice penale solo quando il pubblico ufficiale compie un atto arbitrario, ovvero un atto che eccede le sue competenze o è svolto con modalità illegittime, e la reazione del cittadino è proporzionata a tale atto.
È sufficiente credere che l’atto del pubblico ufficiale sia ingiusto per poter reagire?
No, non è sufficiente. La Corte ha chiarito che una percezione soggettiva e acritica dell’arbitrarietà dell’atto non basta a giustificare la reazione (scriminante putativa), specialmente se questa è abnorme e sproporzionata rispetto alla situazione, come una violenta colluttazione.
Perché la giovane età e lo stato di alterazione non sono state considerate circostanze attenuanti?
Secondo la Corte, questi elementi non erano sufficienti a giustificare una riduzione della pena. La gravità della condotta, manifestatasi in una veemente reazione fisica e in una colluttazione, è stata ritenuta prevalente, rendendo non meritevole il riconoscimento delle attenuanti generiche.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 38671 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 38671 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 09/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a GARDONE VAL TROMPIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 21/11/2023 della CORTE APPELLO di BRESCIA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
OSSERVA
Letto il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso la sentenza in epigrafe, con cui la Corte di appello ha confermato la condanna del ricorrente per il reato di cui all’art. 337 cod. pen.;
esaminati gli atti e il provvedimento impugnato;
rilevato che i motivi dedotti sono riproduttivi di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi dal Giudice di merito;
considerato, invero, che, quanto al primo motivo – con cui si denuncia l’omessa applicazione della scriminante di cui all’art. 393-bis cod. pen. – la Corte d’appello, con corretta ed esaustiva motivazione, ha affermato che non era stato compiuto alcun atto arbitrario dagli operanti, avendo questi ultimi, al contrario, dato corso ad atti dovuti del loro ufficio a fronte della segnalazione ricevuta da un ragazzo di essere stato aggredito da un cane. La Corte territoriale ha aggiunto che non vi era spazio nemmeno per il riconoscimento della scriminante nella forma putativa, da non intendersi come soggettiva percezione acritica da parte dell’agente dell’arbitrarietà della condotta del pubblico ufficiale, come evidenziato dall’abnorme reazione dell’imputato alle richieste dei militari sul cane, che questi aveva con sé. La veemente reazione dell’imputato, infatti, aveva dato vita a una vera e propria colluttazione, nel corso della quale era intervenuto in supporto ai militari addirittura il padre dell’imputato, che si era risolta solo grazie prevalenza fisica degli operanti sulla reazione violenta del ricorrente, che è stato conseguentemente tratto in arresto;
rilevato che il secondo motivo, con cui si lamenta l’omessa concessione delle attenuanti generiche, è privo di specificità a fronte delle corrette affermazioni con cui la Corte di appello ha ritenuto che i profili evidenziati dalla difesa (alterazio psicofisica, giovane età dell’imputato) non erano idonei a giustificare il riconoscimento delle anzidette circostanze;
ritenuto che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 9/09/2024.