Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 13364 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 13364 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOMECOGNOME nata a Milano lo 06/06/1985 avverso la sentenza del 24/09/2024 della Corte di appello di Torino visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per «l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riferimento alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art.61 n.2 cod.pen., rigettando nel resto il ricorso»; l ette le conclusioni dell’Avv. NOME COGNOME difensore di fiducia di NOME COGNOME che ha chiesto l’accog limento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento in epigrafe indicato, la Corte di appello di Torino confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Vercelli in data 17 gennaio 2023 nei confronti di NOME COGNOME condannata alla pena ritenuta di giustizia per i reati di cui agli artt. 337 (capo a) e 582 (capo b) cod. pen. , quest’ultimo
aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 2 cod. pen., in esso assorbita la ci rcostanza aggravante di cui all’art. 576, comma 1 n.5 -bis , cod. pen.
Ha presentato ricorso NOME COGNOME per il tramite del difensore di fiducia, deducendo:
violazione di legge, in relazione agli artt. 393 bis e 337 cod. pen., e vizio di motivazione per contraddittorietà, per avere la Corte distrettuale – nonostante l’affermazione della illegittimità dell’atto adotta to dai militi della Stazione dei CC di Gattinara ritenuto l’assenza di ‘arbitrarietà’ della condotta e pertanto non configurabile la scriminante di cui all’art. 393 bis cod.pen., nemmeno nella forma putativa.
Ha, inoltre, evidenziato il difensore come la COGNOME non intendesse opporsi al pubblico ufficiale nel compimento di un proprio atto di ufficio quanto piuttosto reagire ad un atto illegittimo, di guisa che, nel caso concreto, difetterebbe sia il dolo specifico del reato di resistenza a pubblico ufficiale sia l’opposizione avverso un «atto di ufficio o di servizio»;
-violazione di legge, in relazione all’art. 529 cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale omesso di rilevare come – a seguito della esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 576, comma 1 n. 5 -bis , cod. pen. – il delitto di lesioni personali sub b) fosse divenuto procedile a querela, tuttavia mai presentata;
violazione di legge, in relazione agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen., per avere la Corte di appello ritenuto contestata la circostanza aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 61 n 2 cod. pen. , nonostante la pubblica accusa non avesse provveduto in tal senso;
vizio di motivazione per omissione, non essendosi proceduto ad un nuovo giudizio di bilanciamento tra la ‘nuova’ circostanza di cui all’art. 61 n 2 cod. pen. e la recidiva qualificata con le già riconosciute circostanze attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I primi tre motivi di ricorso sono infondati, mentre il quarto è manifestamente infondato.
In relazione alla quaestio iuris della configurabilità della speciale scriminante di cui all’art. 393 bis cod. pen., la Corte di appello di Torino ha ritenuto che – ad onta del modus operandi «pacato e civile» degli Agenti di P.g.- non fosse possibile ravvisare l’arbitrarietà dell’atto compiuto, nonostante la oggettiva illegittimità .
Ha, pertanto, concluso per la rilevanza penale della condotta criminis ascritta alla Bosco.
Ha, altresì, osservato come la ‘inutilizzabilità’ dell’atto e la possibilità di contestarne la validità ed efficacia nella competente sede non giustificassero la reazione della Bosco, che – per la violenza usata ai danni dei militi- era «irragionevole e del tutto sproporzionata».
Occorre, dunque, interrogarsi sulla ‘portata’ della scriminante, già prevista dall’art. 4 D.Lgs. 14 settembre 1944, n. 288, e attualmente dall’art. 393-bis cod. pen.: ciò richiede la perimetrazione dei concetti di ‘arbitrarietà’ dell’atto e di ‘eccesso’ dalle attribuzioni, che devono ex lege caratterizzare la condotta del pubblico ufficiale per rendere applicabile l’invocato istituto.
3.1. A tal proposito, secondo parte della giurisprudenza, il concetto di “arbitrarietà” ha una sua autonomia rispetto a quello di “eccesso” e deve essere letto in un’ottica essenzialmente soggettiva, come consapevole volontà (e quindi malafede) del pubblico ufficiale di eccedere i limiti delle sue funzioni. Ne discende, secondo l’impostazione in parola, che per la configurabilità della scriminante in oggetto occorre che sia adottato un atto ‘ obiettivamente illegittimo, ma anche partecipato dall’agente ‘, con un consapevole atteggiamento di abuso, se non con una deliberata volontà vessatoria, ingiustamente persecutoria, ovvero, ancora, improntata a malanimo, sopruso o capriccio, che fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione del munus pubblico (Sez. 6 n 27635 del 30/04/2024, non mass.; Sez. 6, n. 25309 del 19/05/2021, COGNOME, Rv. 281955; Sez. 5, n. 31267 del 14/09/2020, COGNOME, Rv. 279750-02; Sez. 6, n. 11005 del 05/03/2020, NOME COGNOME Rv. 278715; Sez. 6, n. 5414 del 23/01/2009, COGNOME, Rv. 242917).
3.2. Per altra parte della giurisprudenza di legittimità -sulla scorta dei principi sanciti con la sentenza n 140 del 1998 dalla Corte Costituzionale, secondo cui ragioni storico -politiche inducono ad una interpretazione più lata della scriminante della reazione ad atti arbitrari – “il doppio richiamo ‘ da parte del testo normativo all’eccesso dai limiti delle proprie attribuzioni e agli atti arbitrari del pubblico ufficiale non impone di costruire l’arbitrarietà come un quid pluris diverso e ulteriore rispetto all’eccesso dalle attribuzioni. Già la sola esegesi letterale delle espressioni usate consente, dunque, di affermare che arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all’atto illegittimo e della illegittimità dell’atto in sé considerato.
Si tratta di una impostazione che questo Collegio condivide perché poggia sua una lettura oggettivistica e costituzionalmente orientata della norma, che trova il
proprio fondamento nei principi affermati con chiarezza dalla Corte costituzionale nella citata sentenza.
Dovendo i due elementi -rectius “l’eccesso” dalle attribuzioni e ‘ gli atti arbitrari”- essere intesi in modo unitario, la reazione del privato può dirsi giustificata anche solo a fronte di un comportamento oggettivamente illegittimo del pubblico agente, che sia disfunzionale – anche solo per le modalità scorrette, incivili e sconvenienti di attuazione – rispetto al fine per cui il potere è conferito, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell’illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato (Sez. 6, n. 7255 del 26/11/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282906; Sez. 6, n. 54424 del 27/04/2018, COGNOME, Rv. 274680 – 03; Sez. 6, n. 7928 del 13/01/2012, Variale, Rv. 252175; Sez. 6, n. 10733 del 09/02/2004, dep. 09/03/2004, COGNOME, Rv. 227991).
4.1. Nondimeno, questa Corte ha già avuto modo di affermare come, ai fini del riconoscimento della scriminante in oggetto, occorra altresì accertare che vi sia proporzione e adeguatezza intercorrente tra l’iniziativa assunta e la situazione che la legittima, nel senso che «quanto maggiore è la sproporzione dell’atto rispetto alla finalità legittimante, tanto maggiore è il sopruso utile a scriminare la reazione violenta» (Sez. 6, n. 18957 del 30/04/2014, COGNOME, Rv. 260704), sicché «la macroscopica sproporzione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale esclude la sussistenza della causa di non punibilità per la cui integrazione è necessario che le azioni, che potrebbero integrare i reati in essa indicati, dipendano, in termini di causalità e di proporzionalità, dagli atti arbitrari posti in essere dal pubblico ufficiale» ( ex multis , Sez. 5, 2941 dello 08/11/2018, COGNOME, Rv275304; Sez. 6, n. 5222 del l’ 11/03/1993, COGNOME, Rv. 194025; Sez. 6, n. 14490 del 24/02/1989, COGNOME, Rv. 182368).
4.2. Nel caso di specie, dunque, sulla scorta dei principi enunciati, è contra legem la escussione di NOME COGNOME nelle forme previste dall’art. 351 cod. proc. pen. per la formale qualifica di persona indagata, che le conferiva la facoltà di non rispondere e il diritto ad essere assistita da un difensore.
Purtuttavia, come già evidenziato dai Giudici di merito nella ricostruzione fattuale della vicenda -che la difesa non ha contestato- la reazione della Bosco assumeva connotati eccessivi, sproporzionati ed esorbitanti una eventuale giustificata reazione. La donna, infatti, danneggiava le suppellettili all’interno dell’ufficio , facendo rovinare in terra il monitor del PC, e nonostante l’invito alla calma anche da parte del compagno – si scagliava con veemenza contro l’appuntato NOME COGNOME schiaffeggiandolo così da fargli cadere gli occhiali e graffiandolo al polso, cagionando lesioni giudicate guaribili in cinque giorni.
Sotto tale profilo, la sentenza impugnata ha congruamente dato atto della mancanza della necessaria proporzionalità tra eccesso arbitrario e reazione: la reazione, concretizzatasi anche in lesioni personali in danno dell’Appuntato dei carabinieri, ha infatti assunto connotati di violenza macroscopicamente sproporzionati rispetto all’azione sia pure illegittimamente tesa, come si è detto, alla escussione della Bosco secondo modalità procedurali non consentite.
4.3. Al cospetto di tale iter argomentativo le deduzioni del difensore non colgono nel segno, non essendosi confrontate con la evidenziata sproporzione della reazione violenta della Bosco ed essendosi, invece, concentrate sul solo aspetto della illegittimità dell’atto .
Con il secondo e il terzo motivo di ricorso – che possono essere trattati congiuntamente per la connessione delle questioni poste – il difensore lamenta, per un verso, la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen. e, per altro verso, il difetto di procedibilità d’ufficio del reato di lesioni personali sub b) per effetto della esclusione ( rectius assorbimento) della contestata circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 576 comma 1 n 5 bis cod. pen. , per la mancata contestazione della circostanza comune di cui all’art. 61 n 2 cod. pen. e , in ogni caso, per il riferimento di detta ultima circostanza, là dove ritenuta legittimamente contestata, al solo reato di resistenza ex art. 337 cod. pen. e non anche a quello di lesioni personali.
5.1. Le doglianze difensive non sono fondate.
La Corte territoriale – nel ritenere la circostanza aggravante di cui all’art. 576 cod. pen. assorbita in quella, non esplicitamente contestata ma riconosciuta, del nesso teleologico ex art. 61 n. 2 cod. pen. – ha concluso nel senso che il reato di lesioni personali fosse procedibile d’ufficio e non necessitasse pertanto della querela.
A tal proposito, i Giudici del merito hanno rilevato come, da un lato, il dato testuale della contestazione del reato di lesioni personali nel rimandare alle ‘condotte di cui al precedente capo a)’ rendesse chiaro il riferimento al nesso teleologico e co me, dall’altro lato, l’atto di violenza, con il quale la Bosco ebbe consapevolmente a produrre le lesioni al l’App untato dei carabinieri, non fosse fine a se stesso, quanto piuttosto finalizzato a resistere al pubblico ufficiale e ad impedire il compimento dell’atto.
5.2. Ad avviso del Collegio, la chiave di lettura proposta dalla Corte distrettuale è esente da censure.
La contestazione sia degli elementi costituitivi del reato sia di quelli definiti ‘accidentali’ come appunto le circostanze aggravanti – deve essere dettagliata, chiara e precisa. Tale regola iuris rinviene l’ humus non solo nelle plurime norme
codicistiche che descrivono la modalità con la quale deve essere effettuata la contestazione, ma anche e soprattutto nei principi convenzionali (art. 6, par. 3, lett. a, CEDU) in materia di diritti fondamentali, qual è, per l’appunto, quello inerente alla difesa dell’imputato nel processo.
Nondimeno, l’idoneità della formulazione letterale del capo d’imputazione a porre l’imputato in condizione di difendersi non può essere valutata in astratto e, con specifico riferimento alle circostanze aggravanti, occorre tener conto delle “particolari connotazioni” con le quali l’aggravante è stata costruita nelle norme che la prevedono.
In funzione di queste particolari connotazioni va individuato, di volta in volta, il “l ivello di precisione е determinatezza che rende l’indicazione di tali elementi, nell’imputazione contestata, sufficiente a garantire la puntuale comprensione del contenuto dell’accusa da parte dell’imputato”(così Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436).
Dunque la “contestazione in fatto” della circostanza aggravante è consentita, laddove- nonostante nella formulazione dell’imputazione non sia espressa l’enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o l’indicazione della specifica norma di legge che la prevede -siano riportati in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all’imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi.
Pertanto, se la fattispecie integratrice della circostanza aggravante è “autoevidente”, in quanto si struttura in semplici comportamenti descritti nella loro materialità (attraverso l’indicazione di mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive), “l’indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell’imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l’adeguato esercizio dei diritti di difesa dell’imputato”. Ove, invece, la previsione normativa includa (anche) componenti valutative, la necessità dell’enunciazione in forma chiara e precisa del contenuto dell’imputazione impone che i risultati di questa valutazione (operata dal pubblico ministero con la formulazione del capo d’imputazione) debbano essere esplicitati, attraverso la loro chiara indicazione nella formulazione dell’imputazione.
5.3. Ebbene, nel caso che ne occupa, non si dubita che nella formulazione del capo d’imputazione, contestato al capo b), manchi il riferimento esplicito alla littera legis dell’art. 61 n 2 cod. pen.
Purtuttavia, la lettura sinergica del capo a) relativo al delitto di resistenza a pubblico ufficiale e del capo b) relativo al delitto di lesioni personali nonché l’esplicito richiamo nella formulazione della imputazione sub b) al reato di resistenza, mediante l’incis o « con le condotte di cui al precedente capo a)
cagionava …. », rendono chiara la finalizzazione della violenza al compimento delle condotte di resistenza di cui al capo a), sì da fare emergere in fatto la sussistenza della circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 , n. 2, cod. pen.
Né vi è dubbio che l’aggravante in oggetto riguardi il delitto di lesioni personali ( Sez. 6, n. 1272 del 05/12/2003,Colletti, Rv. 229508) e che il reato sia procedibile d’ufficio ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 582 e 585 cod. pen.
E’ invece inammissibile l’ultimo motivo di ricorso perché manifestamente infondato: il riconoscimento della recidiva qualificata ex art. 99, comma 4, cod. proc. pen. -che la ricorrente non risulta abbia mai contestato- osta al l’invocato giudizio di prevalenza delle già riconosciute circostanze attenuanti generiche ex art. 69 cod. pen.
Al rigetto del ricorso segue ope legis la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali Così deciso il 27/03/2025