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Reazione a pubblico ufficiale: quando è giustificata?

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 46204/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un cittadino, chiarendo i presupposti per la causa di giustificazione in caso di reazione a pubblico ufficiale. La Corte ha ribadito che non basta una mera illegittimità dell’atto, ma è necessaria una condotta arbitraria e persecutoria dell’agente. Il ricorso è stato respinto perché mirava a una rivalutazione dei fatti, di competenza esclusiva dei giudici di merito. Il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma alla cassa delle ammende.

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Pubblicato il 12 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Reazione a Pubblico Ufficiale: i Limiti secondo la Cassazione

L’ordinanza n. 46204 del 2024 della Corte di Cassazione offre un’importante chiarimento sui confini della legittima reazione a pubblico ufficiale, disciplinata dall’art. 393-bis del codice penale. Questa pronuncia stabilisce che non ogni atto illegittimo di un funzionario pubblico giustifica la reazione del cittadino, ma solo quelli che trasmodano in una condotta arbitraria e persecutoria. Analizziamo nel dettaglio la vicenda e le motivazioni della Suprema Corte.

I Fatti del Caso

Un cittadino proponeva ricorso in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Catania, che lo aveva condannato. Il fulcro della difesa si basava sul riconoscimento della causa di giustificazione prevista dall’art. 393-bis c.p., sostenendo di aver reagito a un atto arbitrario del pubblico ufficiale. Oltre a ciò, il ricorrente lamentava il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e l’applicazione della recidiva, ritenuta ingiustificata.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. Secondo i giudici, le argomentazioni presentate dal ricorrente non vertevano su vizi di legittimità della sentenza impugnata, ma miravano a ottenere una nuova valutazione del materiale probatorio e una diversa ricostruzione dei fatti. Tale attività, tuttavia, è di competenza esclusiva dei giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello) e non può essere svolta in sede di legittimità, a meno che la motivazione della sentenza precedente non sia palesemente illogica o contraddittoria, cosa che in questo caso non è stata riscontrata.

I Limiti della reazione a pubblico ufficiale

Il punto centrale dell’ordinanza riguarda l’interpretazione dell’art. 393-bis del codice penale. La Corte ha affermato che i motivi del ricorso su questo punto erano manifestamente infondati. La causa di giustificazione della reazione a pubblico ufficiale non è applicabile di fronte a una condotta semplicemente illegittima. È necessario qualcosa di più: la condotta del pubblico ufficiale deve configurarsi come un’attività ingiustamente persecutoria, che ecceda in modo arbitrario i limiti delle sue funzioni e si discosti completamente dalle normali modalità di esplicazione del suo potere.

Valutazione di Attenuanti e Recidiva

La Corte ha inoltre ritenuto che la Corte d’Appello avesse motivato in modo adeguato sia il diniego delle circostanze attenuanti generiche sia l’applicazione della recidiva. Tale decisione era basata sui numerosi precedenti penali del ricorrente, anche recenti rispetto al momento della commissione del reato in esame, che dimostravano una persistente tendenza a delinquere.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su due pilastri principali. Il primo è di carattere processuale: il giudizio di Cassazione non è un terzo grado di merito. La Corte non può riesaminare le prove, ma solo verificare la corretta applicazione della legge e la coerenza logica della motivazione della sentenza impugnata. Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva fornito una motivazione “congrua e adeguata”, esente da vizi logici.

Il secondo pilastro è di carattere sostanziale e riguarda la corretta interpretazione della scriminante della reazione a pubblico ufficiale. Citando precedenti giurisprudenziali consolidati, la Corte ribadisce che per giustificare la reazione di un privato, l’atto del pubblico ufficiale non deve essere solo contrario alla legge, ma deve assumere i connotati di un’aperta prevaricazione e di un’azione persecutoria, totalmente svincolata dalle finalità istituzionali. In assenza di tale arbitrarietà, la reazione del cittadino rimane penalmente rilevante.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame consolida un principio fondamentale: la tutela dell’ordine pubblico e del corretto svolgimento delle funzioni pubbliche prevale sulla reazione del singolo, a meno che l’agire del pubblico ufficiale non degeneri in un abuso palese e arbitrario. La conseguenza diretta della dichiarazione di inammissibilità, come previsto dall’art. 616 c.p.p., è stata la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di 3.000,00 euro in favore della cassa delle ammende. Questa pronuncia serve da monito sulla necessità di una valutazione attenta e rigorosa prima di invocare la causa di giustificazione per reazione ad atti dell’autorità.

Quando è giustificata una reazione del cittadino nei confronti di un pubblico ufficiale secondo la Cassazione?
La reazione è giustificata non per una condotta meramente illegittima, ma solo quando l’attività del pubblico ufficiale diventa ingiustamente persecutoria, eccedendo arbitrariamente i limiti delle sue funzioni e discostandosi completamente dalle ordinarie modalità di controllo.

Perché il ricorso è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile perché le censure proposte miravano a una nuova valutazione dei fatti e delle prove, un’attività di competenza esclusiva dei giudici di merito, la cui motivazione è stata giudicata congrua e priva di vizi logici. Inoltre, i motivi sulla causa di giustificazione sono stati ritenuti manifestamente infondati.

Quali sono le conseguenze per il ricorrente a seguito della dichiarazione di inammissibilità?
In base all’art. 616 del codice di procedura penale, la dichiarazione di inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, in questo caso determinata in 3.000,00 euro, in favore della cassa delle ammende.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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